Khaled Mesh’al traccia la nuova direzione politica di HAMAS (prima parte)

Quella che segue è l’intervista più recente a Khaled Mesh’al, che dal 1996 è il capo dell’Ufficio politico del movimento di resistenza islamica (Hamas). Dopo l’assassinio del leader di Hamas, Abd al-‘Aziz Rantisi, nel 2004, Mesh’al è diventato il leader internazionale del movimento.

In questa intervista rilasciata al quotidiano giordano Al-Sabeel, a luglio del 2010, Mesh’al traccia la direzione politica di Hamas su diversi temi critici: per esempio, negoziati con Israele, relazioni internazionali, ebrei, cristiani, donne. L’intervista – durata diverse ore – è stata recepita come importante nel mondo arabo ed è considerata come una chiara indicazione delle posizioni che Hamas intende perseguire, specialmente con riguardo ai futuri atteggiamenti verso Israele.

L’Afro-Middle East Centre (AMEC) ha tradotto l’intervista in inglese per permetterne la lettura a un vasto pubblico, per una più ampia comprensione – in particolar modo ai lettori anglofoni – delle prospettive politiche di un movimento che è diventato uno dei più importanti attori nel Medio Oriente di oggi.

Intervista a Khaled Mesh’al
Al-Sabeel

Sui negoziati

A livello di principio, lei rifiuta i negoziati con il nemico? Se i negoziati non possono essere condotti con il nemico, è possibile farli con un amico? Hamas rifiuta il principio dei negoziati diretti, oppure rifiutate la loro forma, condotta e risultati?

Questa è sicuramente una questione spinosa e delicata, su cui molte persone preferiscono evitare qualsiasi discussione, e tendono a non prendere una posizione chiara per timore di reazioni negative o malintesi. La natura sensibile e critica di questo tema è aggravata dalle ombre scure gettate a seguito delle amare esperienze dei negoziati palestinesi-israeliani e arabi-israeliani.

Le persone sono influenzate da queste esperienze, e sono estremamente sensibili verso l’idea di “trattative”, in particolare per quanto riguarda la consapevolezza collettiva e l’umore della nazione. C’è ora, in molti luoghi, disgusto e avversione per il concetto di negoziati. Questo è abbastanza comprensibile e naturale, ma ciò non preclude che la questione venga affrontata a fondo e organizzata attentamente in modo da fissare ogni dettaglio nel giusto contesto, a Dio piacendo.

Non è disputabile che i negoziati con il nemico non vengano bocciati, sia giuridicamente sia razionalmente, anzi, ci sono alcune fasi, nel corso di un conflitto tra i nemici, in cui i negoziati sono richiesti e si rendono necessari. Dal punto di vista razionale e della logica giuridica, è vero che i negoziati come mezzo e strumento possono essere accettabili e legittimati in certi momenti, e respinti e vietati in altri: vale a dire che essi non sono respinti in linea di principio e sempre.

Nella storia islamica, nell’era del Profeta (la pace sia su di lui) e nelle epoche successive, al tempo di Salahuddin [Saladino] per esempio, la negoziazione con il nemico è stata condotta – ma all’interno di uno schema chiaro e di una precisa filosofia -, in un contesto, in una visione, e con norme e regolamenti che la disciplinavano. Ciò è in netto contrasto con l’approccio sciagurato adottato da quei negoziatori di professione che considerano le trattative come uno stile di vita e la sola opzione strategica al servizio delle quali sono regolate tutte le altre.

Se la resistenza stessa, onorata e stimata com’è, è un mezzo e non un fine, ha senso fare dei negoziati un fine, l’unica opzione e un approccio costante, piuttosto che un mezzo e una tattica cui ripiegare se necessario e quando il contesto lo richiede?

Il concetto nel Corano è chiaro, quando Dio Onnipotente dice: “E se inclinano alla pace, inclina (inclina anche tu alla pace ), e confida in Dio”.

Ciò significa che il negoziato è accettabile, ragionevole e logico per noi difensori di una giusta causa quando il nemico è costretto a ricorrere ad esso, quando viene a noi pronto a negoziazione per pagare il prezzo, e per rispondere alle nostre richieste. Tuttavia, se noi lo ricerchiamo disperatamente e lo consideriamo la nostra unica possibilità, allora saremo noi quelli che pagheranno il prezzo. Coloro che sono costretti a negoziare sono quelli che di solito pagano il prezzo. Ecco che Dio Onnipotente afferma in un altro versetto: “Non essere debole e non chiedere la pace quando hai la mano alzata”.

Torniamo al primo versetto: “E se inclinano alla pace, inclina (anche tu alla pace ), e confida in Dio”, che è preceduto da quanto diceva Dio Onnipotente: “Preparate per loro la potenza che potete, tra cui destrieri di guerra per terrorizzare il nemico di Allah e vostro”. Che cosa significa? Significa che avere il potere e i suoi mezzi è ciò che spinge il nemico con forza verso la pace, e che la tendenza del nemico alla pace e al negoziato è il risultato dello sforzo bellico, della resistenza e del potere. Coloro che considerano le trattative senza le carte della resistenza e del potere stanno virtualmente portando alla resa.

Nella scienza della strategia e della gestione dei conflitti, la negoziazione è un’estensione della guerra, e una forma di gestione della guerra. Ciò che si ottiene al tavolo dei negoziati è il prodotto della tua condizione di partenza, è il risultato di un equilibrio delle forze in campo. Se si è vinti sul campo, si sarà certamente sconfitti pure nei negoziati. Così come la guerra richiede un equilibrio di potenza, i negoziati e la pace richiedono un equilibrio di potere, perché la pace non può essere raggiunta quando una parte è forte e l’altra debole, altrimenti ci sarà la resa. Gli Stati Uniti non hanno fatto pace con il Giappone e la Germania, dopo la seconda guerra mondiale, ma, piuttosto, hanno imposto loro un patto di resa e di sottomissione. In breve, la pace è fatta dai potenti e non dai deboli; i negoziati possono servire ai potenti, non ai deboli.

La situazione riguardante il conflitto con il regime di occupazione israeliano è diverso, trattandosi qui di un corpo alieno alla regione, giunto dall’esterno per imporsi su una terra e un popolo, scacciare delle persone dalle loro terre e rimpiazzarle con una diaspora immigratoria proveniente da tutto il mondo. Si tratta quindi di una situazione complessa, da affrontare delicatamente.

Quando sono presenti le condizioni e i requisiti oggettivi per i negoziati, e in particolare l’esistenza di un equilibrio sufficiente nel rapporto di forze; quando ve n’è un bisogno dimostrato nel momento appropriato – senza fretta né rinvii – allora vi si può ricorrere come ad un meccanismo e strumento, non come a un obiettivo, non come a una condizione permanente o un’opzione strategica. La negoziazione è uno strumento tattico e funziona come la guerra, che non è una scelta permanente ma ha i suoi requisiti e le sue condizioni.

Con questa chiara visione della negoziazione, e quando venga esercitata con grande attenzione e sotto regole ferree nel momento opportuno, sarà accettabile e utile in un contesto di gestione del conflitto; altrimenti, porterà solo alla resa e alla sottomissione all’egemonia del nemico e alle sue condizioni, e risulterà nello scavalcamento dei diritti e nel continuo declino del livello delle richieste e della posizione politica.

Purtroppo, la posizione araba e palestinese riguardo a quest’argomento è – in generale – molto sfavorevole e vulnerabile, senza armi di scambio a disposizione, senza sostegno, capacità di manovra o possibilità di ambiguità. I palestinesi sono privi di ogni difesa, e così scelgono la pace dichiarando che è la loro unica opzione strategica. Quando il tuo nemico si accorgerà che non hai altra scelta diversa dal negoziare, e parli solo della pace, e non hai davvero altra scelta, che cosa li spingerà a farti concessioni?

I negoziatori palestinesi affermano: “La negoziazione è la scelta, il percorso e l’unico piano da seguire”. Coordinano le operazioni di sicurezza con il nemico e realizzano liberamente la Road Map e le sue richieste, mentre Israele non offre nulla in cambio. Che cosa c’è sul tavolo che potrebbe indurre Olmert o Netanyahu a concedere qualcosa ai palestinesi?

Nel caso palestinese, il negoziato è fuori dal suo contesto oggettivo; da una prospettiva di pura logica politica, rappresenta una mancanza di resistenza e non ha come base il necessario equilibrio di potere. I vietnamiti, per esempio, negoziarono con gli americani mentre questi erano in ritirata; i negoziati erano quindi utili per scrivere la parola “Fine” sull’occupazione e l’aggressione americana. Il successo dei negoziati e dell’imposizione delle proprie condizioni al nemico dipende da quante carte di potere si hanno sul tavolo.

Insomma, perché le negoziazioni non siano un processo rischioso e oneroso, bisogna far capire al nemico – non solo a parole, ma anche con i fatti – di essere aperti a tutte le strade. Il negoziatore non può raggiungere il suo scopo senza basare la propria posizione sulla molteplicità delle scelte, il che significa che, se si è pronti ai negoziati, a maggior ragione si è pronti ad andare in guerra, e si è in grado di farlo. Se le negoziazioni raggiungono un punto fermo, bisogna essere preparati al conflitto, all’attrito o alla resistenza; altrimenti negoziare sarà inutile. Va ricordato che, nelle guerre di un tempo, era sul campo di battaglia che si negoziava, e se i negoziatori non trovavano un compromesso si riprendevano gli scontri.

La negoziazione è uno strumento e una tattica al servizio di una strategia, e non una strategia in sé; non è un sostituto per una strategia di resistenza e di confronto con l’occupazione.

La negoziazione deve basarsi sull’unità nazionale. Se un partito percepisce il beneficio di muoversi in direzione delle trattative, e persegue quindi la sua decisione da solo, senza fare riferimento al popolo, si porrà in una situazione difficile e concederà al nemico un’occasione che questi certamente userà a proprio vantaggio. Un simile errore potrebbe anche portare i negoziatori a fare concessioni significative per paura di essere poi costretti a riconoscere il fallimento della scelta di negoziare; per cui danno la priorità al proprio interesse rispetto a quello nazionale, per non essere smascherati di fronte al loro popolo e ad altri.

Negoziare ha i suoi spazi e campi specifici, e non è una scelta assoluta, valida in qualunque situazione. Esistono questioni su cui non si dovrebbe negoziare, come i principi di base. La negoziazione è un meccanismo e una tattica con margini e domini specifici; nessuna persona di buon senso tratterebbe su tutto, specialmente sui principi. Negli affari, si negozia spesso sui profitti, non sul capitale fisso. Purtroppo le attuali esperienze, soprattutto in campo palestinese, dimostrano che tutte queste regole sono state abbandonate.

In tutta onestà e coraggio affermo: negoziare non è proibito in modo assoluto, né dal punto di vista legale o politico, né da quello delle esperienze della nazione e dell’umanità, né delle attività dei movimenti di resistenza e delle rivoluzioni nel corso della storia. Tuttavia, dev’essere un processo soggetto a equazioni, regolamentazioni, calcoli, circostanze, contesti e gestioni appropriate: senza tutto questo, diventa uno strumento negativo e distruttivo.

Per quanto riguarda il caso palestinese, sosteniamo che negoziare con Israele oggi sia una scelta sbagliata. È stato proposto direttamente a Hamas di negoziare con Israele, ma abbiamo rifiutato. Alcuni leader del movimento hanno ricevuto la proposta d’incontrare diversi leader israeliani, alcuni dei quali attualmente al potere, come [il vice primo ministro israeliano e leader del partito Shas] Eli Yishai e altri della cerchia dei negoziatori. Hamas ha respinto queste offerte.

I negoziati oggi – sotto l’attuale equilibrio di potenze – sono al servizio del nemico e non favoriscono la parte palestinese. Il conflitto sul campo non si è sviluppato in maniera tale da costringere il nemico sionista a ricorrere alle trattative; quest’ultimo, anzi, si rifiuta di ritirarsi dal territorio e non riconosce i diritti palestinesi. Quindi, negoziare in condizioni simili è solo un gioco inutile.

Alla luce della nostra debolezza e dello squilibrio di potenza, Israele sta facendo uso delle negoziazioni come strumento per migliorare le sue pubbliche relazioni, “ripulire” la sua immagine di fronte alla comunità internazionale e guadagnare tempo. Intanto, crea nuovi eventi sul campo attraverso la costruzione delle colonie, l’espulsione delle persone, l’ebraicizzazione di Gerusalemme e la demolizione dei suoi quartieri. Le trattative le servono anche per distogliere l’attenzione dai suoi crimini e moderare le richieste palestinesi. Israele sta sfruttando le negoziazioni per normalizzare le sue relazioni con il mondo arabo e islamico, penetrare al suo interno e distorcere la natura del conflitto; Israele è la sola beneficiaria delle trattative, così come vengono condotte adesso.

I negoziati, sotto lo squilibrio esistente, sono la soggiogazione dei palestinesi alle richieste, alle condizioni e ai diktat del regime di occupazione israeliano; non è un processo equo per il semplice fatto che, alla semplice mancanza di confronto equo sul campo, corrisponde una mancanza di parità intorno al tavolo dei negoziati.

Il problema del riconoscimento dello Stato sionista solleva molti dibattiti. Esiste anche un discorso di riconoscimento legale contro un riconoscimento realistico, o pragmatico. Qual è la posizione di Hamas al riguardo?

La nostra posizione riguardo al riconoscimento della legalità dell’occupazione è chiara e stabilita, e non la nascondiamo. Riconoscere Israele è stato posto come condizione per l’apertura della comunità internazionale nei confronti di Hamas, e così per noi è diventato un ostacolo. Ma non ci siamo scoraggiati, e abbiamo mostrato la nostra determinazione a resistere a questa sfida, perché riconoscere vuol dire legittimare l’occupazione e conferire legittimità alle aggressioni, alla colonizzazione, all’ebraicizzazione, agli assassinii, agli arresti e ad altri crimini d’Israele ai danni del nostro popolo e della nostra terra. Tutto questo è inaccettabile secondo la legge internazionale e i valori umani, per non parlare della nostra religione.

È inaccettabile legittimare l’occupazione e il furto di terre. L’occupazione è un crimine, il furto è un crimine, e non andrebbero legittimati in nessuna circostanza. Questi sono concetti fuor di dubbio nel pensiero condiviso dell’umanità, e allo stesso modo lo sono nel pensiero delle vittime palestinesi, le cui terre sono state usurpate. È un problema legato alla nostra esistenza umana, e cozza non solo con il riconoscimento della legittimità dell’occupazione e dell’usurpazione, ma anche con i sentimenti patriottici e religiosi, l’appartenenza culturale e la presenza storica che legano tutti noi a questa terra.

Altri sono caduti in questa trappola a causa della loro incapacità e della loro sottomissione a pressioni esterne, e hanno pensato che chinare il capo davanti a tali condizioni e pressioni rendesse più facile per loro proseguire nella loro agenda politica. Tuttavia, i fatti hanno dimostrato che costoro hanno pagato un prezzo esorbitante per un’illusione. Hanno sbagliato rispetto ai loro interessi, e rispetto ai loro principi.

Noi respingiamo la questione del riconoscimento dal punto di vista sia legale che pragmatico. Vi è una differenza tra l’affermare che esiste un nemico chiamato Israele e riconoscerne la legittimità; nel primo caso, non si tratta di un riconoscimento. In poche parole, noi rifiutiamo di riconoscere la legittimità d’Israele perché rifiutiamo di riconoscere la legittimità dell’occupazione e del furto di terre. Per noi, questo principio è chiaro e inamovibile.

Non siete rimasti sorpresi dall’insistenza israeliana e internazionale sulla questione del riconoscimento d’Israele da parte vostra? Non si tratta, in qualche modo, di un segno di debolezza, con Israele che sembra mettere in dubbio la propria esistenza, e chiedere ad altri di riconoscerne la legittimità?

Senza dubbio, il nemico è preoccupato del futuro della propria entità, soprattutto alla luce degli ultimi sviluppi. La sua psicologia è quella di un ladro criminale che nell’intimo si sente come un fuorilegge senza legittimità, a prescindere dalla sua forza. La richiesta di essere riconosciuti è certamente un segno di debolezza, l’espressione di un complesso d’inferiorità, la sensazione di essere illegittimi e respinti dai popoli della regione in quanto estranei, e la percezione che la semplice presenza del solido popolo palestinese è un segno concreto del rifiuto dello Stato sionista.
Esiste però un’altra dimensione, che è il sentimento di superiorità. Si tratta della logica con cui le nazioni occidentali trattano i paesi del Terzo Mondo. I sionisti adottano la stessa logica, basata sulla supremazia militare, e sentono di essere la parte che ha il diritto di dettare i propri termini alle altre, incluse le condizioni preliminari di qualsiasi negoziazione.

Purtroppo, alcune fazioni palestinesi e arabe hanno risposto a una simile logica. È uno squilibrio inaccettabile. Nei nostri incontri con delegazioni straniere, li sentiamo costantemente parlare delle condizioni del Quartetto; alcuni di loro introducono condizioni riviste per rendercele più facili da accettare. Noi abbiamo respinto tutte le condizioni per principio, e non abbiamo nemmeno voluto discuterle per elaborare delle formule rivedute e corrette. Noi rifiutiamo il principio delle condizioni, dal momento che suggerisce l’esistenza di due livelli di esseri umani, di cui uno può dominare l’altro, uno impugna il manico e l’altro la lama. La nostra umanità, la nostra dignità e il nostro rispetto per noi stessi dichiarano che noi siamo uguali agli altri, anche se militarmente gli altri sono più forti; per cui rifiutiamo di essere confrontati sulla base di precondizioni.

Purtroppo, uno degli sbagli che li spinge a insistere in quest’approccio è che alcuni hanno accettato tali condizioni, compresa la questione del riconoscimento. Costoro hanno poi commesso un altro sbaglio nel non concedere il riconoscimento d’Israele in cambio del riconoscimento dei diritti palestinesi, preferendo essere loro stessi riconosciuti. Si tratta di una mancanza significativa se aggiunta alla prima, ovvero al riconoscimento in sé! È assurdo riconoscere Israele in cambio del suo riconoscimento dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina o di un altro movimento, invece di spingerlo a riconoscere il popolo, lo Stato o i diritti palestinesi. Questo implica rinunciare all’interesse pubblico a favore di quello personale, e il grande obiettivo nazionale per quello piccolo, di parte. Sostenendo questo, noi sottolineiamo il nostro rifiuto della questione del riconoscimento, a prescindere dal prezzo.

Per cui, alle delegazioni occidentali [che ci chiedono di riconoscere Israele] rispondiamo: “Anche se desideriamo comunicare con voi e aprirci al mondo, non ci stiamo mettendo in ginocchio, né siamo alla ricerca del riconoscimento di Hamas da parte dell’Occidente. Non c’interessa. La nostra legittimità proviene dal popolo palestinese, dalle urne elettorali, dalla democrazia palestinese, dalla legittimità della lotta, del sacrificio e della resistenza, e dal nostro sfondo arabo e islamico. Non cerchiamo una legittimità che venga dall’esterno; quello che cerchiamo di ottenere è il riconoscimento dei diritti palestinesi e del diritto del nostro popolo alla libertà, la liberazione dall’occupazione e il diritto di auto-determinazione. E non lo chiediamo in cambio del riconoscimento, perché quest’ultimo sostanzialmente conferisce legittimità all’occupazione, alle aggressioni e ai furti.

Secondo lei, perché la comunità internazionale e gli israeliani respingono la tregua a lungo termine proposta da Hamas?

Questo rifiuto da parte dello Stato sionista, dell’amministrazione Usa e degli altri attori internazionali è dovuto a diverse ragioni.

La prima: la logica di potere, superiorità ed egemonia di questi attori. Sono convinti che il loro potere superiore permetta loro d’imporci quello che vogliono, e di considerare noi arabi e palestinesi la parte sconfitta, priva di qualsiasi scelta diversa dal firmare lo strumento di resa, come fecero Germania e Giappone alla fine della seconda guerra mondiale, e incapace di proporre soluzioni, ad esempio una tregua.

La seconda: vengono prese in considerazione le fazioni arabe e palestinesi che fanno le offerte più allettanti. Come potrebbero mai rispondere a un’offerta di tregua quando altri offrono di riconoscere Israele in cambio di una soluzione basata sui confini del 1967, disposti anche a negoziare i dettagli di quella soluzione, ovvero i confini, Gerusalemme e il diritto al ritorno?

La terza: l’esperienza degli americani, dei sionisti e di altri con altri partiti della regione li tenta a concludere che ulteriori pressioni ci getteranno in uno stato di disperazione, com’è successo in casi simili; hanno sperimentato la politica delle pressioni e delle estorsioni con altri ed ha avuto successo. Questo li spinge a pensare: “Proviamo lo stesso con Hamas: potrebbe sottomettersi come hanno fatto gli altri”. Si aggiunga a questo il fatto che alcuni arabi e palestinesi – purtroppo – consigliano loro: “Isolate Hamas, finanziariamente e politicamente, e incitategli la folla contro; non apritevi in maniera diretta, restate fermi sulle vostre condizioni, e non abbiate fretta. Hamas finirà per soccombere!”

Sono queste ragioni, e forse altre ancora, a portarli a respingere la proposta di tregua. Alle delegazioni occidentali dichiariamo: “Sì, le posizioni degli altri sono più ‘facili’, e la nostra è più ‘difficile’; ma il nostro vantaggio è che, quando facciamo un’offerta o prendiamo una posizione, ci sforziamo di assicurarne l’applicabilità sul campo e il potenziale per vincere la fiducia del popolo palestinese e di quello arabo e islamico. E questo può accadere solo quando l’offerta non rema contro i principi di base, i diritti e gli interessi del popolo.” Per quanto riguarda le altre posizioni rinvenibili sulla scena palestinese, sono “facili” sì, ma mancano dell’approvazione della maggioranza del popolo palestinese, delle sue forze nazionali e delle elite intellettuali. Qual è il valore pratico di queste posizioni, o del raggiungere accordi e trovare soluzioni con leadership ripudiate dalla maggioranza della popolazione? In passato sono stati imposti gli Accordi di Oslo, falliti perché iniqui e irrispettosi delle aspirazioni del nostro popolo, e rimasti così estranei alla realtà araba e palestinese.

Sappiamo quindi che si finirà per essere infine costretti a fare i conti con la visione di Hamas e delle forze e dei leader impegnati a rispettare i principi di base della nazione. Noi diciamo loro: “Se pensate di poter risolvere i problemi della regione seguendo altri schemi provateci, e raggiungerete un punto morto.”
Potrebbe anche essere facile per le grandi potenze propendere per soluzioni comode, prese d’accordo con certi leader e governanti, senza considerare l’importanza che queste soluzioni convincano la gente. Queste potenze ignorano il fatto che i leader e i governi in sé sono temporanei e dalla vita breve, e non creano stabilità nella regione – nonostante le pressioni e le oppressioni esercitate ai danni delle persone. Ad ogni modo, il successo di qualsiasi impresa viene raggiunto solo quando la gente è certa che questa sia equa e soddisfacente, anche se solo per il momento. Alcuni in Occidente stanno cominciando a rendersi conto dell’importanza di questa prospettiva, e di conseguenza stanno sviluppando le loro posizioni – anche se lentamente – in direzione di un’apertura dei rapporti con Hamas. Vi sono ancora ostacoli ai tentativi di tradurre un simile, limitato sviluppo in una serie di gesti seri e reali. In compenso, noi non abbiamo fretta, perché quel che c’importa non è il nostro ruolo, ma il nostro impegno nel far valere i diritti e gli interessi del nostro popolo.

Hamas e gli ebrei
La resistenza di Hamas è diretta contro i sionisti in quanto ebrei o in quanto occupanti?

Non combattiamo i sionisti perché sono ebrei; li combattiamo perché sono occupanti. Il motivo della nostra guerra con lo Stato sionista e della nostra resistenza contro di esso è l’occupazione, e non le differenze di religione. La resistenza e il confronto militare con gli israeliani sono scaturiti dall’occupazione, dalle aggressioni e dai crimini commessi contro il popolo palestinese, non da ragioni di fede e di credo.

Siamo ben consapevoli del fatto che Israele invoca motivi religiosi sul campo di battaglia, oltre a sfruttare risentimenti storici, testi distorti, miti, leggende e sentimenti religiosi nella guerra contro palestinesi, arabi e musulmani. Persino i leader del sionismo laico hanno fatto uso della religione fin dall’inizio del movimento sionista, e l’hanno strumentalizzata in modo politico; e lo stesso Stato sionista era inizialmente fondato sulla religione e sul razzismo. Nonostante tutto questo, non sono state le differenze religiose a creare una situazione di guerra e di resistenza; li combattiamo perché sono occupanti.

Per noi, la religione è la pietra portante delle nostre vite, della nostra appartenenza e della nostra identità, la nostra cultura e le nostre azioni quotidiane; è l’energia che promuove la pazienza e la fermezza, e incoraggia maggiormente il sacrificio e la generosità. È un’energia fortissima contro l’ingiustizia, le aggressioni e i poteri che cercano di danneggiare il nostro popolo e la nostra nazione. Ma non la trasformiamo in una forza generatrice di odio, né in una causa o in un pretesto per nuocere o attaccare gli altri, o appropriarci di ciò che non è nostro, o interferire nei diritti altrui.

Hamas e le relazioni internazionali
È soddisfatto delle vostre conquiste per quanto riguarda le relazioni internazionali? Qual è la posizione di queste relazioni nel pensiero, nei programmi e nelle priorità di Hamas?

Nel pensiero politico di Hamas, i rapporti internazionali hanno diverse dimensioni.
La prima dimensione: convincere che tra i vari aspetti della battaglia palestinese vi è quello di battaglia dell’umanità contro l’ingiustizia e l’oppressione israeliane, e contro il progetto razzista sionista che prende di mira il mondo e l’umanità intera e minaccia gli interessi dei popoli e delle nazioni, poiché i suoi mali e i suoi pericoli non sono limitati né alla Palestina e ai palestinesi, né agli arabi e ai musulmani.

La seconda: la necessità di promuovere la nostra giusta causa e guadagnarci altri amici a sostegno del nostro diritto legittimo a resistere all’occupazione e alle aggressioni. È stato dimostrato che c’è ancora del buono nella coscienza umana, e che questo potrebbe essere risvegliato e mosso in nostro favore se presentassimo bene il nostro caso, e se lottassimo per svelare la verità sullo Stato sionista. La questione della rottura dell’embargo di Gaza e la conquista di un gran numero di simpatizzanti tramite le spedizioni delle navi sono entrambi esempi dell’importanza di questa dimensione. Noi ricordiamo e sottolineiamo che è lo stesso confronto con lo Stato sionista, condotto attraverso il popolo e la resistenza – come accadde con le guerre di Gaza e del sud del Libano e con la Flotilla –, a denunciare il lato oscuro di questo Stato, e non le trattative e gli incontri che ne ripuliscono l’immagine e ne nascondono la realtà e i crimini.

La terza: allo stesso modo in cui Israele ci accerchia e ci tormenta durante gli incontri internazionali, noi dobbiamo seguirla in tutti i forum internazionali e rubarle la scena. Purtroppo, gli arabi e i musulmani hanno mancato quest’obiettivo, senza adempiere al loro vero ruolo. Questa mancanza è stata però in parte colmata dagli sforzi delle comunità palestinesi, arabe e islamiche che recentemente si sono mosse efficacemente sullo scenario internazionale, ottenendo risultati significativi e pervenendo a svolte importanti. Tali comunità hanno contribuito ad allargare la cerchia di amici e sostenitori della causa palestinese e delle questioni arabe e islamiche, e lavorato per svelare il volto mostruoso d’Israele, il cui comportamento aggressivo e brutale ha scioccato la coscienza e i sentimenti umani, in quanto contrario ai valori morali dei popoli dell’Occidente e del mondo intero. La loro attività ha anche portato alla prosecuzione giudiziaria e legale d’Israele.

La quarta: siamo interessati a creare una rete di relazioni forte ed efficace a tutti i livelli, internazionale e arabo-islamico. Abbiamo creato all’interno del nostro gruppo una sezione speciale per i rapporti internazionali, poiché riteniamo che aprirci e guadagnare il sostegno internazionale sia un fattore di forza.

La quinta: creare relazioni internazionali comincia da qui, dall’interno della regione, perché qui cresce la pianta ma il raccolto viene portato lì, in Occidente, mentre da entrambe le parti occorre un duro lavoro. Questo significa che la base fondamentale per pervenire a una svolta nelle relazioni internazionali è la forza sul campo, e che bisogna restare uniti attorno al proprio popolo e alla propria nazione, praticando la resistenza e adottando un atteggiamento risoluto. [Con un simile fondamento], il mondo ci rispetterà e si renderà conto che non vi sarà né pace né stabilità nella regione finché non tratterà con noi, accordandoci la meritata considerazione (…) e rinunciando alle attuali politiche filo-israeliane e anti-palestinesi, anti-arabe e anti-musulmane.

Abbiamo registrato diversi successi in questo campo, grazie a Dio; eppure la strada è lunga. Siamo relativamente soddisfatti dei nostri risultati, considerando la portata degli ostacoli che dobbiamo affrontare e che vengono posti sul nostro cammino. Non andrebbe dimenticato che il livello di relazioni e i frutti di queste non dipendono solo da noi, ma anche dall’altra parte. È così che hanno luogo le relazioni politiche, e anche umane.

Se dobbiamo misurare i risultati degli sforzi fatti, in confronto al grado di penetrazione e d’influenza sioniste nel mondo, il divario sembrerà molto ampio. Le politiche occidentali – che vedono in Israele un loro prolungamento naturale e scelgono di darle il proprio appoggio illimitato -, la debolezza del rendimento e della diplomazia arabi e l’incitamento delle fazioni palestinesi ed arabe contro il movimento hanno senza dubbio avuto il loro impatto sulla portata delle conquiste.

Attualmente, abbiamo una serie di relazioni ufficiali a livello internazionale, come quelle con la Russia, alcuni paesi dell’America Latina e nazioni asiatiche ed africane. Abbiamo anche altri rapporti diretti, alcuni ancora in sordina per rispettare le condizioni poste dall’altra parte, più alcuni indiretti che passano attraverso ex funzionari, i quali ci comunicano quel che sanno gli attuali funzionari dei loro Paesi, come nel caso degli Stati Uniti e in altri ancora. Tutto questo rappresenta uno sviluppo importante, e ben presto, se Dio vuole, darà alla luce rapporti ufficiali aperti e coerenti con il movimento.

Qui non stiamo parlando di relazioni internazionali condotte dal punto di vista dell’aspirazione, della disperazione, dell’urgenza e della ricerca di una gloria partigiana; al contrario, si tratta di relazioni che noi stiamo forgiando e perseguendo con disinvoltura e rispetto di noi stessi, allo scopo di raccogliere successi per la causa palestinese, e non per interessi di parte.

fine prima parte
pubblicheremo la seconda e la terza parte dell’intervista nei prossimi giorni

da Memo (Middle East Monitor)