Quanto è grande l’importanza della visita che il presidente iraniano ha compiuto in Libano il 13 e il 14 ottobre? Certamente molto grande. Essa va infatti analizzata da due punti di vista: da una parte quello del suo impatto sui fragili equilibri politici libanesi, dall’altro su quelli mutevoli mediorientali.

I media hanno sostenuto che l’accoglienza trionfale ricevuta da Ahmadinejad è stata determinata anzitutto dal poderoso sforzo della macchina organizzativa di Hezbollah.

Quest’ultima, in effetti, è stata impeccabile, a dimostrazione di quale fosse il rango che la Resistenza nazionale libanese attribuisse a questa visita. Non è stato ricevuto solo il capo di stato iraniano, ma Ahmadinejad appunto, ovvero un leader che incarna una precisa strategia politica. E’ sufficiente confrontare questa visita con quella che fece Mohammad Khatami nel maggio del 2003 per capire la differenza.
Erano i tempi dell’offensiva a tutto campo degli USA. Seguendo la strategia Neocon della guerra preventiva, del “Nuovo secolo americano” e il disegno del “Grande Medio Oriente”, l’amministrazione Bush aveva appena invaso l’Iraq e da due anni stazionava in Afghanistan. D’altra parte la Casa Bianca offriva il suo pieno sostegno al regime sionista che rispondeva rabbiosamente, mentre Arafat era ancora in vita, alla “seconda Intifada” palestinese.

A quasi dieci anni di distanza il panorama mediorientale è molto cambiato, e quello interno libanese, tanto più dopo il fallimento dell’invasione israeliana dell’estate 2006, pure.
L’ambizione americana di sistemare a suo favore (e a quello di Israele) il Medio oriente ha fatto fiasco. Oltre ai costi salatissimi pagati dagli americani per avere la meglio sulla Resistenza irachena, in tutti gli altri punti caldi, dal Pakistan alla Palestina, il composito schieramento antimperialista, non è più debole, ma più forte. Nello stesso Iraq quella americana si sta rivelando una Vittoria di Pirro, visto che la cosiddetta pacificazione si tiene in piedi solo grazie all’Iran, il cui peso, da quando Ahmadinejad è giunto al potere, si è sensibilmente accresciuto. Un peso, quello dell’Iran, che è oramai di prima potenza regionale. Non è quindi un caso che le pistole che USA e Israele hanno da tempo puntato contro Tehran abbiano il colpo in canna, pronte a colpire in qualsiasi momento.

Se non hanno ancora sferrato l’attacco strombazzato ai quattro venti come imminente è proprio a causa dei mutati rapporti di forza nella regione, per il timore che un’aggressione all’Iran, col pretesto del nucleare, potrebbe risolversi in un devastante boomerang. Una causa di questi mutati rapporti di forza è stata appunto la politica estera perseguita da Ahmadinejad, che ha tenuto assieme due fattori apparentemente contraddittori: una decisa politica di “espansionismo persiano” ai danni dello storico nemico arabo da una parte, e un sostegno fermissimo ai due punti di forza della resistenza antimperialista e antisionista (pur sempre araba) nella regione, vale a dire HAMAS e Hezbollah. Un mix, dunque, di espansionismo regionale e di sostegno pieno alle resistenze palestinese e libanese.

V’è chi, anche nel movimento antimperialista, non riesce a cogliere l’intreccio tra questi due aspetti e, vedendo solo l’uno o l’altro, a seconda dei casi, si adagia su una linea pedissequamente filo-persiana o, all’opposto tenacemente antipersiana. Invece occorre tenere conto di entrambi, e tenerli distinti, se non si vuole commettere clamorosi errori di analisi e quindi di schieramento.

Da un punto di vista storico e geopolitico Tehran considera l’Iraq una zona di sua pertinenza. Secoli e secoli di conflitti con le satrapie arabe hanno fatto dell’Iraq una specie di zona cuscinetto, il punto in cui, giocoforza, si scaricano le tensioni tra le due civiltà. Chi controlla l’Iraq è in strategica posizione di vantaggio. Di qui l’abile politica persiana di indiretto sostegno all’aggressione americana per rovesciare Saddam Hussein; l’aiuto fornito agli occupanti nel fronteggiare la Resistenza sunnita, nazionalista e salafita, e nel mettere in piedi un nuovo regime. Il risultato finale pare aver dato ragione a Tehran: se gli americani se se ne andranno (ma staremo a vedere) l’Iraq sarà un paese sotto tutela persiana. L’esito della crisi politica irachena è indicativo. Se in questi giorni verrà formato un governo (a ben sette mesi dalle elezioni) sarà solo grazie alla pressioni iraniane su Moqtada al-Sadr e i suoi quaranta parlamentari, convinti finalmente ad accettare di sostenere un nuovo governo presieduto da al-Maliki. E se gli americani decidessero di restare per sostenere il loro candidato Allawi, essi sanno che dovranno far fronte ad una seconda Intifada irachena, ben più temibile della prima, questa volta animata dal blocco shiita a vario titolo filo-iraniano.

D’altro canto, a livello regionale, non c’è alcun dubbio che senza l’aperto e generoso sostegno di Tehran, né HAMAS né Hezbollah avrebbero potuto tenere testa alle preponderanti armate sioniste. Quella che ai nostri occhi appare come la “doppiezza persiana”, per Tehran è invece una politica coerente, che deve tenere assieme in modo inscindibile, la difesa intransigente degli interessi nazionali, con la causa della resistenza al sionismo e all’imperialismo. Il tutto, non va dimenticato, nella cornice della storica ambizione religiosa shiita a ricostituire una umma musulmana sotto la propria egida.

In questo senso l’avvento al potere di Ahmadinejad nel 2005 (riconfermato con ampio margine, checché ne dica la propaganda occidentale, nel 2009) appare come l’esito più conseguente di quella che potremmo definire “ambivalente rinascita persiana”.

Una rinascita che ha trovato appunto, nella visita di Ahmadinejad in Libano, una palese conferma. Una visita che non è stata soltanto un tributo agli alleati di Hezbollah, ma una conferma dei successi della politica estera complessiva di Tehran. Della sua capacità egemonica regionale. Mentre resta fermo l’asse con la Siria (vedi la visita di Assad lo scorso 1 ottobre a Tehran), solida la presa sull’Iraq e di ferro i rapporti con HAMAS, il viaggio in Libano ha mostrato quanto profonda sia la penetrazione iraniana in questo piccolo ma cruciale paese mediorientale e mediterraneo. Il viaggio di Ahmadinejad è stato un successo anche perché ha mostrato fino a che punto le stesse forze filo-occidentali guidate da Hariri, pur facendo buon viso a cattivo gioco, debbono accettare, pena rischiare di essere spazzate via, l’amicizia iraniana.

Tra le molte dichiarazioni che Ahmadinejad ha pronunciato a Beirut ce n’è una che  vale la pena segnalare: «Il regime sionista non riuscirà ad arrestare la sua caduta e nessuna potenza potrà salvarlo, ciò a causa della resistenza in Libano, Siria, Palestina, Iraq e Turchia e nel resto della regione». (english.aljazeera.net del 14 ottobre).
L’inclusione della Turchia nel blocco è forse un’esagerazione verbale. E’ da vedere se questo paese sceglierà sul serio un radicale rovesciamento del suo posizionamento geopolitico. Ma è un fatto di grande rilevanza la nuova amicizia tra Ankara e Tehran, un indiscutibile successo, vedremo fino a che punto solido, della diplomazia persiana e di Ahmadinejad in particolare. Basta dare uno sguardo alla carta geografica per capire di che stiamo parlando, ovvero della visione geopolitica di Tehran: abbiamo una cintura di sicurezza, o un blocco di paesi che va dall’Afghanistan alla parte più orientale dell’Europa, e nel quale il piccolo Libano rappresenta la propaggine addossata alla storica roccaforte dell’imperialismo, Israele.

Quanto grande sia la preoccupazione degli occidentali per il successo del viaggio di Ahmadinejad è ben espresso da questa frase: «Il Libano è come pietrificato davanti al pitone iraniano che lo stringe lentamente nelle sue spire». (Il Sole 24 Ore del 14 ottobre). Si capisce che essi vorrebbero un Libano soffocato dalle spire del serpente a sonagli sionista, di qui la loro delusione. Così si capisce il disincanto di un acuto osservatore come Ugo Tramballi, che suggerisce di cancellare la Missione Unifil e di ritirare le truppe multinazionali dal Libano del sud. «Armare e addestrare l’esercito libanese per contenere la forza militare di Hezbollah [uno dei reconditi scopi di Unifil assieme alla difesa delle frontiere israeliane, Nda] si è rivelata un’illusione. (…) La guerra con Israele può cominciare in ogni momento con o senza l’Unifil alla frontiera. E’ tempo di fissare una exit strategy anche dal Libano, dove stare in così tanti non serve più». (Il Sole 24 Ore del 14 ottobre).