Racconto di un viaggio di solidarietà nel cuore dell’India che resiste
Per la prima volta una delegazione europea è entrata nelle zone del conflitto

Questo sito cerca da tempo di informare sulla situazione degli Adivasi, i nativi dell’India a rischio di genocidio e di espulsione forzata dalle proprie terre che il governo di New Delhi vuole concedere allo sfruttamento minerario ed industriale di alcune grandi multinazionali. Per la prima volta, nelle settimane scorse, una delegazione di solidarietà europea è riuscita ad entrare in questi territori. Quello che segue è il reportage di questo viaggio e dell’incontro con una realtà quasi del tutto sconosciuta in occidente. (Foto 1 – Così tutte la case nella foresta)

Tra il 4 e il 14 Febbraio una delegazione composta da membri di Sumud e del Campo Antimperialista si è recata in India, dietro invito del Fronte Rivoluzionario Democratico e dell’associazione Tudum Debba (1). Io, membro di Sumud, ero l’unica italiana presente, fra austriaci e tedeschi. Perché proprio l’India? Sumud ha iniziato ad interessarsene sin dal 2009, quando è giunta una richiesta di aiuto e solidarietà da parte delle comunità rurali-tribali del distretto di Bastar nello stato del Chhattisgarh. L’appello diceva cose tali da non poter essere ignorato, anzi prospettava una situazione che ci ha spinto ad andare a constatare con i nostri occhi ciò che sta accadendo in quella che è definita ‘la più grande democrazia del mondo’.
Ci siamo ormai abituati a pensare a questa terra secondo i dettami che ce ne giungono dai media di regime, è l’India Shining quella che abbiamo in mente, quella della crescita economica, che si avvia a diventare una delle principale economie mondiali, ma anche quella del mistero delle sue leggende, delle danze, dei colori, l’incanto dei profumi e il sottile fascino delle pratiche yoga. E’ questa l’India?

Avevo appreso l’esistenza del popolo Adivasi e della guerrilla naxalita, leggendo i libri di Arundhati Roy (2), senza sapere che l’avrei incontrata un giorno. Nei siti internet in lingua italiana non c’è molto, in inglese si trovano tante più informazioni, purtroppo non lo ho mai studiato.
Adivasi è un nome sanscrito che letteralmente significa “abitanti originari”. Con questo termine gli Indiani definiscono gli appartenenti ai popoli tribali indigeni che vivono nella foresta, nutrendosi di ciò che essa offre. Sono numerosi negli stati del Bengala Occidentale, Bihar, Jharkhand, Uttar Pradesh, Madhya Pradesh, Orissa, Chhattisgarh, Andhra Pradesh, Karnataka e Kerala. Questa popolazione non solo subisce i soprusi delle classi (e caste) dominanti, ma dalle istituzioni non ha ricevuto altro che vuote promesse di sviluppo, militarizzazione e imposizione dello status quo.
Sumud mi ha offerto l’occasione di volare alla volta di Nuova Delhi, e non me la sono lasciata scappare, pensando alla possibilità di tuffarmi nelle foreste e parlare con tutti gli attivisti di associazioni e movimenti che della lotta per i diritti di questo popolo hanno fatto lo scopo della loro vita.

Appena arrivata all’aeroporto internazionale, sono rimasta stupita dalla grandezza e dalla maniacale organizzazione di sicurezza, che avrei ritrovato ad ogni stazione metropolitana. Non prendi il treno se non hai prima superato la perquisizione e i metal detector. Delhi non può che essere una città dal forte impatto per ogni viaggiatore occidentale, al primo sguardo la capitale indiana si presenta disorientante, frenetica. Per le strade smog e caos, il ritmo vorticoso di una città enorme, il cui traffico è dato anche da risciò, tuc tuc, biciclette e mucche che si aggirano indisturbate. Le contraddizioni indiane sono già tutte in nuce nella capitale. Le differenze tra la città nuova, di matrice europea, e la città vecchia, sono impressionanti. La Old Delhy è il vero cuore pulsante della città, con le sue strettissime stradine, i bazar, i mercati, le latrine pubbliche aperte e i suoi fruitori disinibiti, una folla di gente come un vespaio, botteghe stracolme di tutto, friggitorie fumanti presso i cui tavolini, per strada, famiglie intere ordinano pane fritto, riso, yogurt. Ho osservato per ore queste persone intingere le mani nello yogurt, rivoltarci dentro il riso e succhiarsi lentamente le dita.

Sorseggiando i nostri thai, a metà mattinata in albergo incontriamo finalmente Rona. Con lui programmiamo il nostro viaggio e i nostri incontri. Per potere vedere più cose e parlare con più persone, decidiamo di dividere la delegazione, composta da sei persone, in due gruppi. Ci dirigiamo nuovamente all’aeroporto, nazionale questa volta. Solite file, anche per varcare la soglia d’ingresso devi mostrare i documenti. In tre voliamo per Hyderabad, capitale dell’Andhra Pradesh, nell’India centro-orientale. A prenderci un attivista dell’APCLC (Andhra Pradesh Civil Liberties Committee) che ci accompagna in albergo. Lungo la strada mi sento più a mio agio, la guida è sempre spericolata, il traffico consistente, ma siamo lontani anni luce dal formicaio di Delhi. Non abbiamo tempo di riposarci, perché riceviamo la visita di Ramanala Lakshmaiah, segretario di Tudum Debba.

Qui devo fare una digressione, spiegare di che associazione si tratta, (proprio da questa Sumud ha ricevuto un invito ufficiale), soffermarmi finalmente sugli Adivasi e svelare il vero volto dell’India.
Chi sono e quanti sono gli aborigeni dell’India?
Sono circa 645 le tribù, alle quali appartengono quasi 140 milioni di persone, i cui membri sono aborigeni che vivono in India da sempre, cioè da molto prima che il subcontinente venisse invaso e conquistato dai popoli Arii nel secondo millennio a. C. (3). Costituiscono più dell’8% del totale della popolazione indiana, ma solo 80 milioni sono stati censiti come appartenenti alle Scheduled Tribes, gli altri 60 milioni, mai censiti, sono stati raggruppati globalmente sotto l’ambigua definizione di Tribù nomadi e denotificate. A questi si aggiungono le Scheduled Castes, gli ultimi nella gerarchia sociale, comunemente chiamati Dalit e stigmatizzati come caste criminali e dedite all’illecito. Gli inglesi hanno creato questi gruppi nel 1935, nel tentativo di classificare tutte le caste e le tribù esistenti sul territorio e potersi orientare nel labirinto delle divisioni, alleanze e incompatibilità indiane. Nell’India indipendente le suddivisioni sono state mantenute ed utilizzate per cercare di favorire, attraverso una politica di quote riservate, l’inserimento nella società dei gruppi più svantaggiati, politica per nulla organica, che ha spesso portato ad esiti assai controversi e paradossali, senza riuscire a sostenere le necessità di sopravvivenza per queste genti.

Come vivono gli aborigeni in India? Le tribù conducono una vita ai margini della società indiana. Sono minoranze etniche con lingua e cultura propria, i cui villaggi si trovano in zone isolate o difficilmente accessibili (come montagne e foreste). Sono molto poveri, si nutrono di caccia e pesca, la loro agricoltura è decisamente primitiva. Non hanno medici, scuole, nulla, vivono in un eterno presente, scoprirò che nella maggior parte delle loro lingue il tempo futuro non esiste. Per milioni di persone l’India non è quella scintillante del boom economico, dei film di Bollywood, delle città che si modernizzano ogni giorno di più. L’India degli aborigeni è “l’altra India”: quella nascosta, lontana dalla globalizzazione, l’India dei paradisi naturali ancora ricchi di animali e di vegetazione, ma soprattutto di quelle materie prime che fanno gola alle industrie. Ed ecco il problema vero per queste etnie: a loro insaputa, il Paese nel quale vivono ha iniziato a marciare a una velocità mai sospettata nei millenni precedenti. Le corporation del neocapitalismo indiano come Tata, hanno iniziato a curiosare nel sottosuolo dei loro territori alla ricerca dei minerali con cui alimentare il proprio boom.

Ma procediamo con ordine e torniamo a Ramanala: ci spiega che Tudum Debba, tradotto con Adivasi Drum, si è formata nel ’96 all’università di Hyderabad per difendere i diritti degli studenti Adivasi e preservare la cultura, chiedendo istruzione gratuita per tutti i giovani. Ad oggi, anche per loro, così come per la maggior parte dei movimenti, la questione della terra è il principale punto all’ordine del giorno. Già sotto il dominio britannico, ma in particolar modo dopo l’indipendenza, i non-tribali hanno iniziato ad acquistare le terre Adivasi o semplicemente ad impossessarsene. Grazie alla resistenza Adivasi, nel 1963 è stato varato il “Land Transfer Regulation Act” che prevedeva la restituzione delle terre prese dai non-tribali. Ovviamente tutto è rimasto sulla carta e in diversi stati i non-tribali sono diventati dominanti. Agli espulsi sotto il dominio britannico si sono aggiunti quelli cacciati dallo Stato centrale che ha svenduto le terre alle multinazionali, le vittime del Salwa Judum e dell’operazione Green Hunt (di cui parlerò fra poco). Con Ramanala ci hanno incontrato anche i militanti dell’APCLC, il cui presidente, Seshaia, ci racconta come anche la loro organizzazione, nata negli anni ’60 come movimento studentesco, lavori in difesa e solidarietà delle vittime della repressione dello stato, ampliandosi fino ad inglobare docenti, avvocati, intellettuali e vari gruppi. Si tratta, oggi, di una organizzazione radicale, antimperialista, che difende il movimento armato e lotta per i diritti democratici degli Adivasi come delle minoranze, dei musulmani e delle caste basse.

Con queste persone abbiamo discusso a lungo. Le loro parole, i loro racconti, sono stati illuminanti, soprattutto perché facevano da commento a quello che mi appariva davanti agli occhi. Sumud ha abbracciato la richiesta di aiuto agli Adivasi. La prima cosa di cui hanno bisogno è il supporto medico, gli abitanti della foresta non hanno mai visto un ambulatorio. Nei nostri paesi avevamo raccolto un po’ di soldi da destinare all’acquisto di medicinali e materiale di pronto soccorso. Spieghiamo ai nostri amici che vorremmo comprare e portare di persona dei farmaci di primo intervento per ovviare a quei disturbi così insignificanti per noi, ma che in altre parti del mondo causano sofferenza e morte. Ci dicono che è possibile, e in brevissimo tempo chiamano a raccolta gente esperta, compriamo il necessario e con un farmacista siamo pronti a partire. Destinazione i villaggi a nord dell’Andhra Pradesh, al confine con il Chhattisgarh.

Per arrivare a Bhadrachalam (4) servirà quasi tutta la notte. Mi rivedo a percorrere la lunghissima strada tutta buche, dietro una interminabile fila di camion, ascoltando musica folk del Telangana (5). In macchina stiamo stretti, uno addosso all’altro, a noi si sono aggiunti un vecchio avvocato, attivista per i diritti civili, diversi membri di Tudum Debba e APCLC; un macchinone con otto persone. Non riusciamo a riposare, quindi non ci resta che parlare. Parlare di tutto, ho mille domande da fare. Voglio chiedere dei Naxaliti (6), innominati protagonisti di queste righe. Ci dirigiamo verso la foresta, Dandakaranya, che si estende dal Bengala Occidentale attraverso Jharkhand, Orissa, Chhattisgarh e diverse zone dell’Andhra Pradesh e del Maharashtra. La stessa zona che è “infestata” dai Maoisti e che è definita “Corridoio Rosso”. Non li incontreremo, è impossibile per la nostra e la loro sicurezza. Questi vivono nelle zone più interne, ci dicono, sono armati e combattono perchè hanno un problema: non tollerano ingiustizie e disuguaglianze e l’unico modo per annientarle è rovesciare lo stato con la violenza.

I Maoisti sono i militanti del Communist Party of India-Maoist (Cpi-M), nato il 21 settembre 2004 dalla fusione (annunciata solo il 14 ottobre dello stesso anno), tra il Communist Party of India (marxists-leninist) people’s war, noto anche come People’s Guerriglia Group o Pwg, e il Maoist Communist Centr of India (Mcc) (7). Tale formazione è stata creata a seguito di intensi dibattiti interni, superando divergenze ideologiche e conflitti interni, sotto la terribile repressione delle operazioni anti-maoiste lanciate dalla polizia di stato già nel 2000, (anno di formazione del Jharkhand). Hanno eletto un segretario generale, Muppala Laxman Rao, detto Ganapathy, pubblicando cinque documenti (che leggerò con grande attenzione al mio ritorno) sul Marxismo-Leninismo-Maoismo, il Programma del Partito, Strategia e Tattica, La Risoluzione politica sulla situazione interna e internazionale, e la Costituzione del Partito. Bisogna distinguere tra obiettivi di lunga durata e realtà quotidiana; sebbene, infatti, l’obiettivo è quello di conquistare il potere statale con l’uso della forza, e creare una Zona Rivoluzionaria Compatta (Crz), nelle sue locali manifestazioni, il movimento non è altro che una lotta per la giustizia sociale, l’uguaglianza, lo sviluppo locale e la sicurezza. Per questo attira a sè le fasce socialmente più deboli, a ribellarsi e sostenerli, ci sono, oltre gli Adivasi, anche i dalit, i senzaterra e senzatetto, operai, tessitori e agricoltori, appoggiati da intellettuali, laureati, borghesi e donne.

Riflettendo su tutte queste cose, mi accorgo che il paesaggio, fuori dal finestrino, inizia a cambiare. Le case diradano, la vegetazione si espande. Qualche risaia, campi di chili, e poi alberi. Superiamo pochi paesini, tanti bambini scalzi, incuriositi dal rombo della nostra auto, donne dai coloratissimi sari, con gli otri in testa ai margini della strada, uomini che intrecciano fili, le doghe dei loro letti. Vedo delle scimmiette che si arrampicano ovunque e capre e mucche che mangiano erba rinsecchita. Finisce la strada e faticosamente annaspiamo fra dossi e piccoli strarupi. Finalmente le vedo. Piccole e basse capanne, dai tetti di paglia e foglie di palma, le pareti non hanno mattoni, sono fatte di terra, fango e pali di legno. Mi chiedo cosa succede durante la stagione delle piogge e dei monsoni. Tutto si scioglie come castelli di sabbia? Ramanala mi dice che nonostante l’apparenza queste costruzioni sono abbastanza solide, vanno rifatte ogni due o tre anni! Siamo nella Cintur Mandal, nel villaggio Mytha. Un gruppetto di bambini di tutte le età ci si fanno intorno, hanno due archi e frecce non appuntite, il loro gioco preferito. Non hanno mai visto una macchina fotografica, sono impressionati dalle loro immagini dentro la scatoletta nera, ridono di cuore e fanno festa. Qualcuno piange, spaventato. Donne e uomini sono più circospetti, chi siamo? Che vogliamo? Iniziano le spiegazioni in lingua, seguo con gli occhi, avidamente, le loro espressioni e i gesti. Ci scrutano intensamente per pochi attimi, poi si rituffano nella discussione. Non mi ha stupito che siano arrivati due componenti della milizia locale. Con tutto quello che questa gente ha subito, essere prudenti non è mai troppo. Eppure, le loro misure di sicurezza, paragonate alla militarizzazione della grande città, sono ridicole. Si limitano ad una perquisizione che sembra una lunga carezza, prendono in mano qualcuno dei nostri cellulari, poi restituiscono tutto. Noi siamo dalla loro parte, abbiamo portato medicinali da distribuire, vogliamo ascoltare ciò che hanno da dire e rendere testimonianza. I nostri amici tentano di spiegare che non abbiamo nulla da spartire con le altre Ong, che siamo diversi, che non andremo via al calar del sole, ma resteremo a condividere la notte e i pasti. Non capiscono perché siamo diversi, ma ci offrono la possibilità di dimostrarlo. Dato che resteremo, non ci serve la macchina, per cui ci “sequestrano” le chiavi. Non abbiamo dubbi sul fatto che ce le restituiranno, anche se non sappiamo quando.


Foto 2 – Faccende domestiche: il chili viene tritato

Ci sediamo in cerchio, mentre aspettiamo che la padrona di casa, una ragazza di 17 anni, con il figlio che non cammina ancora, in braccio, ci serva il thai. Lo prepara di fronte a noi, nello spazio antistante la casa, un piccola zona sotto una tettoia, in cui per terra, fra quattro pietre in cerchio, si accende il fuoco. Accovacciata sulle gambe, con cura segue la preparazione, lascia bollire il latte, aggiunge vari semi e thè per aromatizzare, mescola e infine ce lo porta fumante. Si dirige poi, all’esterno del recinto che circonda casa, “cucina” e giardino per polli, capre e cani, qui si trova la pompa dell’acqua, cui si attinge per tutti gli usi. Riempito il secchio, torna dentro, per pulire, sempre accovacciata, le pentole sporcate. Noi, ancora in cerchio, curiosiamo su ogni cosa. Ormai è notte, siamo illuminati dal fuoco, lucciole guizzano qua e la, e sopra di noi un manto di vivide stelle.

Siamo in un villaggio di combattenti? La risposta è no, ma i Maoisti sono vicini agli abitanti di Mytha, anche perché, tutto intorno e lungo il confine, dal Chhattisgarh si stanno riversando migliaia di sfollati. Scappavano dalla milizia Salwa Judum, ora dall’Operation Green Hunt. Braccati dalla polizia, dalle guardie forestali e dagli usurai, gli Adivasi per forza di cose hanno apprezzato le azioni della guerriglia; questa non solo ha dato la caccia ai loro persecutori, ma ha anche ottenuto un miglioramento sulle condizioni di vendita delle foglie di tendu che queste persone raccolgono per fabbricare un tipo di sigarette chiamate bidis. Lo stato non ha mai fatto nulla per loro, testimoniano. Prima che arrivassero i Naxaliti, i poliziotti portavano via tutto. Nel giugno 2005 è stata creata la milizia Salwa Judum, nel Chhattisgarh, presentata dalle autorità come una reazione spontanea degli abitanti dei villaggi, stanchi dei ribelli e determinati a cacciarli via. In realtà si tratta di gruppi fascisti paramilitari pilotati del Bjp (Bharatiya Janata Party) (8), e dal capo dell’opposizione Mahendra Karma (del Partito del Congresso) con il finanziamento delle compagnie minerarie. Lo stesso nome, Salwa Judum, è ambiguo, dato che in lingua gondi, si può tradurre con “campagna per la pace”, ma anche come “caccia purificatrice”. Una sola cosa è certa: Salwa Judum è uno strumento di terrore di stato. Il governo centrale si è macchiato della colpa di aver quasi causato una guerra civile. Ho letto di fratelli, diventati nemici perché alcuni, per poche rupie al mese, indossavano la divisa della milizia, altri scappavano nelle foreste, fra i Maoisti. Per costringere gli abitanti dei villaggi ad aderire alla forza paramilitare, sono stati commessi migliaia di stupri e torture. Tutto questo per la terra, destinata dal governo di Delhi allo sfruttamento minerario e industriale da parte delle multinazionali di mezzo mondo (9). Negli ultimissimi anni sono stati firmati centinaia di accordi con le multinazionali (i cosiddetti MoU: memoranda of understanding, protocolli di intesa), legati allo sfruttamento delle risorse naturali. Enormi giacimenti di minerali di ferro, carbone, bauxite, calcare, marmo, diamanti, oro,… si trovano nel sottosuolo di quasi tutti gli stati dell’India centro-orientale, su cui in tanti non vedono l’ora di poter mettere le mani. Gli Adivasi stanno assistendo alla svendita dei loro terreni, di foreste, di minerali e di acqua, svendita che non ha avuto precedenti nemmeno sotto il colonialismo britannico (10). Si parla già di “riserve” e di aree protette, mentre sono in corso gli spostamenti forzati. Anche su questo fronte, sul diritto degli Adivasi alla propria vita e alla propria identità, si gioca la sfida alla modernità della ‘più grande democrazia del mondo’.


Foto 3 – Distribuzione di farmaci acquistati da Sumud

Andiamo a dormire, ci stendiamo sotto la tettoia, su quelle larghe panche di corde intrecciate che di giorno fungono da divani; la temperatura la sera si abbassa di tanto, sento freddo e non riesco a prendere sonno. Ripenso ai lunghi racconti ascoltati, alla scuola che ho visto nel pomeriggio, distrutta dagli agenti speciali di polizia (11) privando centinaia di ragazzi della possibilità di imparare a leggere. L’ultima generazione di Adivasi di questo villaggio è analfabeta perchè la scuola più vicina è a 30 km di distanza. Solo i Maoisti possono fare qualcosa. Rivedo le persone che si sono messe in fila per prendere da noi qualche pillola contro la dissenteria o per farsi bendare una ferita, penso al campo di Medici senza frontiere scorto durante una passeggiata nel pomeriggio. Svolgeranno pure un lavoro encomiabile, ma sono itineranti, si spostano e non si accampano per la notte, come fanno a curare i malati gravi se già il giorno dopo non sono sul luogo per seguire attentamente il decorso delle cure somministrate? Ricordo di aver letto da qualche parte che nel solo stato dell’Orissa il valore finanziario dei giacimenti di bauxite è pari a 2270 miliardi di dollari, cioè più del doppio del Pil indiano. Questo dato mi rimbomba nella mente. Sono un sacco di soldi, è chiaro che industrie, multinazionali, compagnie minerarie sbavano pensando agli enormi guadagni che ne ricaveranno. E chi se ne frega dei danni ancora più enormi all’ambiente, al devastante impatto ecologico che avrà l’erosione delle sacre colline tribali. L’acqua necessaria ai lavori c’è, tanto devieranno i corsi dei fiumi e costruiranno tutte le dighe che vorranno, sorgeranno le infrastrutture necessarie ai lavori. Ci saranno strade larghe nelle foreste, ma chi spiegherà agli Adivasi che non saranno fatte per loro, per portare a scuola i loro figli, a piedi? E’ il prezzo della modernizzazione, e qualcuno deve pagarlo, siano pure milioni di persone “incapaci di afferrare l’idea di cambiamento” (12). E’ una guerra in piena regola combattuta dallo Stato indiano con l’aiuto logistico e finanziario degli imperialisti nordamericani contro i più poveri dei poveri, che hanno la grande colpa di non essere funzionali allo sviluppo del capitalismo indiano, anzi lo ostacolano. Una guerra di conquista, saccheggio e sfruttamento, mascherata da operazione antiterrorismo. Le leggi non scritte del libero mercato, le politiche di liberalizzazione, privatizzazione e globalizzazione fanno il loro corso, impongono le loro norme e regole, mi gela il pensiero che la bauxite non è ancora stata estratta dalle viscere di queste montagne e il suo prezzo è già stato trattato sul mercato dei futures.


Foto 4 – Niente scuola, il tempo tarscorre lento

Non suona la sveglia nella foresta, ci svegliamo con il sole e il canto dei galli. Una giornata intera davanti a noi. Dopo colazione iniziamo i giri per continuare la distribuzione dei farmaci, alla ricerca delle chiavi dell’auto. Le riavremo solo dopo pranzo. Così salutiamo i nostri gentilissimi ospiti e andiamo in esplorazione di altri villaggi, Charla, Vuyalamagudu, con la nostra scorta di medicinali. Prima di attraversare il fiume Godavari ci fermiamo per una sosta. Sgranchiamo le gambe passeggiando e notiamo appesi agli alberi, con dei piccoli chiodi in legno, dei volantini. Sono i dispacci Maoisti, in lingua hindi. Finalmente un segno tangibile della loro presenza. Ramanala traduce per noi, sono dieci brevi punti che spiegano di quali nefandezze si siano macchiati Manmohan Singh, Chidambaram e Sonia Gandhi, e perché la lotta è necessaria. Obietto che gli abitanti del luogo non possono capire ciò che c’è scritto, parlano altre lingue, ma non ottengo risposte su questo punto. Siamo in Chhattisgarh, la gente mi appare molto più diffidente, perfino i bambini ci stanno a debita distanza. La povertà è evidente, quasi palpabile. Ventri gonfi e ossa sporgenti. Mi impressiona un anziano signore, magrissimo, non si regge in piedi, ripiegato su se stesso, si appoggia ad un bastone. Non riesce neanche a sedersi senza un aiuto.

Queste persone indifese sono prese di mira dall’Operazione Green Hunt (Caccia verde). In tre anni di combattimento, la Salwa Judum è stata sconfitta, rivelandosi un fallimento. Lo scorso anno è stato respinto il progetto di Vedanta di estrarre bauxite in un distretto orientale dell’Orissa, perchè viola una legge sulle foreste e i diritti umani delle popolazioni indigene. Lo stato è corso ai ripari, per questo Green Hunt. Le vittorie messe a punto dai ribelli ritardano i guadagni, una guerra era necessaria per accelerare i tempi, una guerra che non esito a definire genocida, che ha lo scopo di annientare la Resistenza degli indigeni contro lo sfruttamento delle loro terre da parte delle multinazionali imperialiste. Dal 2000 va avanti la creazione di zone economiche speciali in tutto il paese (13), ne sono state proposte 500, mentre 220 sono operative dal 2007. Mi convinco, in ultima analisi, che gli Adivasi abbracciano le armi e combattono per la soro sopravvivenza.

Lasciare gli spazi aperti e rituffarsi nella confusione cittadina non mi alletta, ma è ora di rientrare, il viaggio è lungo e il giorno dopo dovremo ripartire per Delhi, dove si ricompatterà la nostra delegazione. Questa volta mi addormento, pensando che la vita di queste persone potrebbe effettivamente essere migliorata, se i governi regionali e statali studiassero leggi in loro favore, tutelando la loro struttura sociale, i loro costumi, le lingue, i loro credi, favorendo loro l’accesso alle risorse naturali, invece di creare denaro da moltiplicare all’infinito, di cui poi, beneficeranno solo quelli che ricchi già lo sono. Lo stato preferisce di gran lunga i contadini che si suicidano per disperazione, piuttosto che i poveri che combattendo, si ribellano.
Torniamo a Bhadrachalam, a prendere i nostri bagagli lasciati in albergo. Camminando per la strada in cerca di un posto dove mangiare, mi accorgo dell’impressionante quantità di bandiere rosse con falce e martello che sventolano tutte in fila, non le avevo notate all’arrivo.

Trascorriamo ancora un giorno ad Hyderabad, e altri due a Nuova Delhi. Incontriamo attivisti e giornalisti, un bombardamento di informazioni, cui riesco a stare dietro a fatica, per via dell’inglese. Riabbracciamo gli altri tre ragazzi del nostro gruppo. Ci raccontano della loro esperienza. Non sono riusciti a trascorrere come noi dei giorni fra i villaggi Adivasi, in compenso hanno parlato con grandi intellettuali come Amit Bhattacharye, professore di storia presso l’Università di Kolkata (capitale del Bengala Occidentale) e membro del Movimento per lo Sviluppo dei Popoli contro lo Spostamento (VVJVA) (14) e con K.N. Pandit, membro oltre che di VVJVA, anche dell’All India Trade Union Congress (AITUC), affrontando la questione delle SEZ, dell’alto grado di organizzazione e sviluppo del movimento a Singur e Nadigram (15). Nello stato del Jharkhand hanno visto fame e povertà, hanno raccolto le storie dolorose delle vittime di Green Hunt. Raccontano delle aggressioni della polizia e delle illecite detenzioni all’ordine del giorno. Emblematico il caso di Juliyani Purty, una ragazzina di 12 anni, arrestata dalla polizia dopo uno scontro a fuoco con i Maoisti. Stava giocando all’uscita della scuola, fra gli alberi, ma si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. L’hanno accusata di simpatizzare per le forze ribelli e l’hanno messa in carcere. Per due mesi i genitori non ne hanno saputo nulla. Grazie ad alcuni avvocati coraggiosi, è stata liberata. Uno di questi, Rajni Soren, spiega il retroscena giuridico che permette lo sviluppo di uno stato di polizia, rifacendosi all’Atto per la Prevenzione delle Attività Illegali (16) finalizzato alla prevenzione efficace delle associazioni di attività illecite.

Con questo bagaglio di informazioni mi viene da pensare che la democrazia sia una barbarie e che dovremmo iniziare a lottare perché la legge di stato diventi finalmente sinonimo di giustizia.
Ci avviamo tutti assieme all’incontro con la persona più famosa, la scrittice, la star dell’India, Arundhati Roy. E’ stata così gentile da ospitarci a casa sua per un confronto con noi. Lei vive in un quartiere elegante, con le strade pulite e le case ben costruite, ma ha un passato da senzatetto, a 16 anni viveva in una baracca all’interno del Feroz Shah Kotla, il campo da cricket di Delhi. Parla e scrive con cognizione di causa. Quando si scaglia contro il neo-imperialismo e la guerra al terrorismo, sa di cosa parla, ha preso di mira la deificazione della democrazia che ormai è solo il dominio del mercato promosso dalla società globale. Ci servirebbero tante donne come lei, condannata perfino dalla Corte Suprema di Delhi per oltraggio alla stessa corte, che ha accusato di mettere a tacere le proteste contro il progetto della diga del Narmada. E’ convinta della necessità e legittimità delle Resistenze armate. E’ una grande intellettuale, lo capisco anche dal differente registro linguistico che adopera, a mio discapito perché mi sfuggono tante cose. Me ne vado a malincuore senza essere riuscita a formulare le domande che avrei voluto farle.

Così, in un attimo, sono passati i 10 giorni di permanenza in India. Prima di salutarci, all’aeroporto, discutiamo su come procedere con l’attività di Sumud e come portare a frutto ciò che abbiamo imparato. Il lavoro vero comincia quando saremo a casa. Sappiamo che torneremo, dobbiamo riuscire a realizzare il progetto di un campo medico, una seconda delegazione che rediga articoli informativi, fotografie, report. Torneremo noi e organizzeremo un tour di indiani, magari inviteremo anche Arundhaty Roi, chissà che non accetti.


Foto 5 – Stazione di polizia dopo assalto maoista

Un’ultima riflessione prima di concludere, alla luce dell’esperienza appena descritta e di quello che sta accadendo in Egitto, Libia, Tunisia e negli altri paesi arabi: stiamo forse entrando in un’epoca di grandi sconvolgimenti, le lotte popolari contro l’oppressione e l’imperialismo sono di nuovo all’ordine del giorno. Il capitalismo imperialista ha bisogno del dominio economico politico, culturale e quindi anche militare sulle nazioni meno sviluppate, tenendole sotto stretto controllo, a pagarne lo scotto sono le masse, sempre più sfruttate, oppresse, insoddisfatte. Nel caso degli Adivasi questo meccanismo di dominio è garantito dallo stesso stato indiano. Forse i maoisti Naxaliti sono eccessivamente militaristi, poco inclini al dialogo con le forze politiche che non fanno la lotta armata, contribuendo così al loro stesso isolamento internazionale, ma non possiamo non sostenere la loro lotta. Con le loro battaglie quantomeno ostacolano e ritardano le azioni del governo. E le azioni del governo obbediscono scrupolosamente ai dettami dell’imperialismo.

Sarebbe bello se gli Adivasi potessero vivere in case più decenti, avessero accesso alla sanità, all’istruzione, se potessero migliorare il sistema agricolo e accedere più facilmente alle loro risorse. Non ho inteso difendere il “buon selvaggio” dalla cattiveria del più forte. Semplicemente spiegare che astenersi dalla lotta, non schierarsi, è un affronto alla nostra dignità.

NOTE:

1. Il fronte Rivoluzionario Democratico, formatosi nel 2005, è una federazione panindiana di organizzazioni rivoluzionarie e culturali in lotta contro il giogo dell’imperialismo e la trasformazione in senso democratico della società indiana. Per la seconda associazione si veda il testo
2. Arundhati Roy è una famosa scrittice indiana e attivista politica, nota per il suo romanzo Il Dio delle piccole cose
3. Ricordiamo che gli induisti respingono la tesi di essere venuti dal Caucaso come Arii, inoltre dagli anni ’80, nuovi studi abbracciano la teoria di un’origine autoctona degli Arii
4. Bhadrachalam è una città di poco più di 42000 abitanti situata nel distretto di Khammam, uno dei 23 distretti in cui è suddiviso l’Andhra Pradesh
5. Telangana è la regione attorno all’attuale capitale dello stato dell’Andhra Pradesh, comprendente 10 dei 23 distretti, che lotta per la sua autonomia e indipendenza dallo stato in cui fu inglobata sin da quando questo fu formato nel 1956. Per entrare a far parte del nuovo stato, il Telangana aveva chiesto condivisione del potere e importante ruolo politico nell’A.P. Gli accordi non sono stati rispettati e le disparità di trattamento subite dal Telangana hanno creato da subito, forti tensioni
6. I Maoisti sono detti Naxaliti dal nome del villaggio di Naxalbari, nel nord del Bengala Occidentale, in cui, nel 1967, diedero vita ad una grande rivolta contro l’espropriazione della terra, sotto la guida di Charu Mazumdar, padre ideologico dei moderni combattenti. Quella rivolta ha dato rigine a diverse guerriglie maoiste in varie parti dell’India
7. Quando erano ancora Mcc, di linea maoista, in Jharkhand e Pwg, di tendenza marxista-leninista, in Andhra Pradesh, i Maoisti godevano già di un enorme consenso popolare. Decimati dai sanguinosissimi attachi della polizia, si sono rifugiati nei più impervi meandri della foresta del Chhatisgarh, raggiungendo compagni che da decenni facevano attività politica. Nel 2008, a seguito della rivolta delle tribù e dei contadini poveri oppressi a Lalgarh (Bengala Occidentale), sono tornati alla ribalta delle cronache
8. Il Bharatiya Janata Party (Partito del Popolo Indiano), fondato nel 1980, è fautore di una politica nazionalista, in difesa dell’identità induista. In coalizione con altri partiti, è stato al governo tra il 1998 e il 2004, oggi è il maggior partito d’opposizione al Partito del Congresso Indiano
9. L’elenco delle multinazionali è lungo, per citare le più note: Tata, Posco, Bhp Billiton, Jindal, Mittal, Essar, Rio Tinto, Vedanta
10. Precisiamo che l’articolo 5 della costituzione indiana tutela gli Adivasi e li protegge dall’alienazione delle loro terre
11. I cosiddetti Special Police Officer (SPO), creati da una legge precedente l’indipendenza, per controllare le insurrezioni popolari e mantenere l’ordine. Sono pagati dallo stato ma i loro servizi non sono considerati lavoro legale, si sono macchiati di vere atrocità
12. Queste parole sarebbero state pronunciate da V. S. Naipaul, scrittore di origine indiana, premio nobel per la letteratura nel 2001
13. SEZ: Special Economic Zone, aree considerate territorio straniero dal punto di vista economico, commerciale, fiscale e doganale, necessarie per attrarre capitali esteri, incrementare le esportazioni e rendere competitive sul mercato mondiale le imprese indiane
14. Visthapan Virodhi Jan Vikas Andolan VVJVA
15. Lalgarh con la sua lotta decisa, è diventata il simbolo dell’unità del popolo contro il neoliberismo e l’offensiva capitalistica
16. Unlawful Activities Prevention Act (UAPA)