Siria: il doppio dilemma

Gli Usa, Israele, l’Iran e le resistenze arabe davanti alla legittima rivolta popolare siriana

Chi, rischiando la sua vita, continua a protestare, non si è fidato affatto delle promesse fatte dal regime sulla fine dello Stato d’emergenza perpetuo e di vaghe riforme. Che aveva ragione lo conferma la crudele repressione degli ultimi giorni: si parla di oltre 300 morti da metà marzo, mentre Venerdì 22 è stato il giorno più nero, con un centinaio di vittime. Siccome questa repressione spietata non ha fermato la mobilitazione, il governo, lunedì 25, è ricorso addirittura all’uso di artiglieria pesante e all’invio di carri armati inviati per terrorizzare la popolazione, non solo a Daraa, la città ai confini con la Giordania che è oramai cinta d’assedio, ma pure nel sobborgo popolare di Damasco, Douma, e nella città costiera di Jableh. Autogolpe. Non diversamente può essere descritto ciò che sta accadendo in queste ultime ore in Siria.

La chiusura della frontiera con la Giordania e l’espulsione di diversi giornalisti, gli arresti in massa di attivisti musulmani e di sinistra, sono un ulteriore segnale che il regime è pronto a tutto pur di non fare alcun passo indietro, che esso è pronto al tutto per tutto pur di restare aggrappato al potere. Secondo quest’ultimo le proteste sarebbero pilotate da “entità esterne” (ridicola l’accusa che il regno hascemita giordano sosterrebbe i rivoltosi), e alla loro testa ci sarebbero “gruppi terroristi armati che hanno preso d’assalto le caserme”. Secondo la Tv di stato siriana “sono stati arrestati alcuni uomini che avevano con sé bottiglie di sangue, usate per rendere più credibile le finte immagini delle violenze, e telecamere con false immagini dei presunti massacri”. Non con un sommovimento sociale avremmo dunque a che fare, ma con un film holliwoodiano. Lo stesso tipo di idiozie e di calunnie utilizzate da Gheddafi a fine febbraio, quando affermava che la rivolta in Libia era animata da giovani drogati da al-Qaeda. La qual cosa getta una luce sinistra sulla probabile evoluzione della battaglia in corso in Siria, che difficilmente seguirà i canovacci tunisino o egiziano (o yemenita, dove il tiranno Saleh, dopo averle tentate tutte, sta per alzare i tacchi), per calcare invece le orme di quello libico. Lo scontro potrebbe precipitare verso una sanguinosa guerra civile dagli esiti dirompenti per tutta la regione, visto il delicatissimo ruolo di primo piano che la Siria occupa nella regione.

Bashar al-Assad è perfettamente consapevole, dal momento che ha respinto ogni ipotesi di seria auto-riforma del regime e di apertura alle rivendicazioni democratiche dei rivoltosi, che il rischio di questo suo arroccamento paranoico, potrebbe essere quello di spingere il paese nel precipizio della guerra civile.

In cosa spera davvero Bashar? In due fattori. Il primo è che il pugno di ferro sortisca lo stesso effetto che ebbe il massacro di Hama — eravamo nel febbraio del 1982, quando la rivolta capeggiata dagli islamisti, fu stroncata addirittura col bombardamento aereo della città, si parlò allora di diecimila morti —, una strage che soffocò nel sangue la rivolta popolare. Il secondo, come accadde allora, nel complice silenzio della cosiddetta comunità internazionale, che in effetti chiuse entrambi gli occhi.

E’ molto probabile che Bashar al-Assad si sbagli. La rivolta ha già un’estensione e una profondità che non è paragonabile a quella del 1982, ed è dunque probabile che un nuovo massacro su larga scala in un punto, scateni una vera e propria rivolta a catena in più luoghi. Diverso è poi il contesto regionale. Allora la rivolta di Hama incontrò un quadro regionale in cui i diversi regimi arabi erano stabilmente in sella, restò dunque isolata, mentre adesso il dato principale è l’irruzione sulla scena delle masse popolari. A questo si aggiunga che l’amministrazione Obama, dopo una prima fase di cauta indifferenza, si sta orientando a mollare il regime (Obama: «Gli Stati Uniti continueranno a difendere le aspirazioni democratiche e i diritti universali cui tutti gli esseri umani hanno diritto, in Siria e in tutto il mondo», dichiarazione del 23 aprile), mentre ieri ha parlato della possibilità di chiedere all’ONU sanzioni contro la Siria. Si deve tuttavia muovere con cautela perché una guerra civile in Siria, per non parlare della caduta del regime baathista, avrebbe effetti incontrollabili su tutto il Medio oriente.

La caduta del Baath a Damasco, questo spera la Casa Bianca, oltre ad avere dirette ripercussioni in Libano, dove il blocco filo-occidentale di Hariri potrebbe riconquistare facilmente il potere, potrebbe azzoppare Hezbollah nonché HAMAS in Palestina e, quel che strategicamente più conta per gli USA, rischia di costituire un colpo letale per la spinta egemonica iraniana.

Questo spiega la posizione di Hezbollah libanese che, seppure non ufficialmente, ovvero attraverso la penna di un paio di suoi intellettuali, ha scelto una posizione di sostanziale sostegno al regime siriano.

Tehran, da parte sua, se non ha messo la testa sotto la sabbia (i mezzi di informazione iraniani hanno dato ampio spazio agli eventi siriani) non ha preso una posizione netta. Primo alleato regionale di Damasco, il governo iraniano ha di che temere dal terremoto in Siria, è tuttavia degno di nota che esso non abbia condannato la rivolta come frutto di un complotto sionista o occidentale. Agli iraniani, che dall’inizio delle rivolte popolari hanno parlato di “primavera dei popoli arabi”, sostenendole apertamente, non sfugge che la sollevazione in Siria abbia radici profonde, e non è da escludere che stiano suggerendo a Bashar un approccio che non sia quello della repressione brutale.

HAMAS, d’altro canto, non ha preso alcuna posizione. Ha scelto la via del silenzio. E’ evidente che HAMAS è in un dilemma: da una parte un regime, quello siriano, che gli fornisce appoggio nella sua lotta contro Israele, dall’altra HAMAS sa molto bene che il ruolo preminente nella rivolta siriana ce l’ha la Fratellanza musulmana locale, ovvero una forza ad essa strettamente imparentata. L’uovo oggi o la gallina domani? Sostenere un regime autocratico ma amico per difendere un vantaggio tattico oppure, correndo i relativi rischi, lasciarlo cadere nella prospettiva di avere a Damasco un governo di tipo islamico, quindi non meno antisionista?

Il dilemma di HAMAS, non è un paradosso, è lo stesso dei sionisti, i quali, com’è noto, non hanno avuto rispetto alle sollevazioni in Maghreb e Medio oriente la medesima posizione degli USA.
Anzi, ne hanno avuto una opposta, considerando che sul medio lungo periodo le rivolte democratiche porteranno al potere forze decisamente ostili ad Israele e che quindi il fracasso delle satrapie arabe è foriero di immensi guai per l’entità sionista. E’ il caso dell’Egitto, con cui Israele ha dal 1979 un Trattato di pace, che potrebbe essere annullato nel caso la Fratellanza musulmana egiziana salga al potere.

«Ricorda il generale Giora Eiland, consigliere per la sicurezza nazionale all’epoca del premier Ariel Sharon. Grazie al trattato con l’Egitto, Israele ha potuto ridurre il budget della difesa dal 30 per cento del pil nel 1974 all’attuale 7 per cento. “Questa è una delle ragioni del successo dell’economia israeliana negli ultimi anni, ma un aumento delle spese militari avrebbe un impatto immediato”, dice Eiland. (…) Eli Shaked, ex ambasciatore d’Israele al Cairo, ritiene che l’abbandono di Mubarak sia stata una mossa “disastrosa” da parte dell’Amministrazione Obama. “Hanno perso un amico e un alleato come Mubarak, ma non si sono certo guadagnati l’amore del popolo egiziano”. Ora tocca agli Stati Uniti “salvare” i regimi di Giordania, Arabia Saudita e del Golfo. “La democrazia si costruisce dal basso e nel tempo tramite una forte classe media, una stampa libera e un’economia di mercato: tutte cose che in questi paesi non esistono – dice Shaked – pensare che delle democrazie possano sostituire questi regimi è soltanto un sogno». (Ariel David, IL FOGLIO, 4 aprile 2011)

Ma qual è la posizione di Israele davanti all’eventualità di un crollo del regime siriano? Si potrebbe pensare che i sionisti non vedano l’ora che Bashar venga travolto. Sono pochi in verità  i sionisti che la pensano in questa maniera.
«Afferma il generale Giora Eiland, L’Egitto non è l’unica grana per Israele. Il governo teme che il leader siriano Bashar el Assad usi la sua influenza sull’Hezbollah libanese per aprire un nuovo fronte come distrazione dalle proteste interne che continuano a essere molto violente. Anche se Assad è il migliore alleato di Teheran, il governo israeliano non sa se augurarsi la fine del regime degli alawiti, minoranza vicina allo sciismo che da decenni governa la Siria. “Quando lavoravo con Sharon, molti premevano perché Israele cercasse di rimuovere Assad – ricorda Eiland – Sharon rispondeva: siete matti? Le uniche alternative sono un regime estremista sunnita legato ad al-Qaeda o un governo democratico che si avvicinerà agli Stati Uniti per costringerci a restituire il Golan”. La permanenza di Assad al potere sembra dunque essere il minore dei mali per Israele». (ibidem)

Stiamo ai fatti. Non ci pare che la caduta del regime del Baath sia imminente. Per quanto autocratico e corrotto, esso gode ancora di un solido sostegno nel paese. Certo più solido di satrapi come Ben Alì, Mubarak o Saleh. Forse più ampio di quello del clan Gheddafi in Libia. Sono milioni i cittadini, non solo gli adepti della setta alawita, o le minoranze cristiane, legati a doppio filo all’autocrazia e alla famiglia Assad. Non parliamo solo della borghesia siriana, delle centinaia di famiglie che grazie al nepotismo e alla corruzione, hanno fatto affari d’oro, anzitutto nell’ultimo ventennio di liberalizzazioni. I più decisi sono proprio i pretoriani del regime, i milioni di cittadini legati da mille fili al regime Baath. Non solo i membri degli apparati repressivi e politici. Pur essendo plebei essi godono di una posizione privilegiata e protetta nella scala sociale. Un crollo del Baath sarebbe per loro la fine.

Può essere evitata una guerra civile? Sì, a condizione che Bashar faccia un passo indietro e che nel regime si facciano avanti, com’è successo in Tunisia ed Egitto (e come sta avvenendo in Yemen), forze disposte al dialogo con la rivolta e con la sua principale forza interna, la Fratellanza musulmana. Le prossime settimane ci daranno la risposta. Nel caso che il Baath e Bashar, sfruttando il vantaggio decisivo di possedere il monopolio della forza armata, non facciano marcia indietro e decidano di sprofondare il paese nell’abisso della guerra civile, a maggior ragione la rivolta va sostenuta, nella speranza che essa trovi in se stessa le forze per vincere, e riesca ad evitare il triste destino di quella libica, i cui capi hanno scelto di metterla sotto la tutela dell’imperialismo.