«La resistenza ha spazzato via la ruggine della nostra prigionia»

Ramallah – Speciale InfoPal. Mohammed Awad incontra Na’el Barghouthi.

Il decano dei prigionieri palestinesi, l’ex detenuto Na’el al-Barghouthi, ha assicurato: “I prigionieri non possono essere liberati per mezzo di appelli, né con gesti di buona volontà o negoziati, bensì lavorando in modo serio per raggiungere tutti i presupposti con i quali obbligare il nemico a rinunciare e a sottomettersi“.

Nel 1978, era il 4 di giugno, le forze israeliane fecero irruzione a casa di Na’el, all’epoca era un giovane di 19 anni. Da allora, nella sua vita è esistito solo il carcere, e la calma che regnava nella vita di quel giovane svanì.

Oggi Na’el dice: “Quel giorno l’occupazione ha sequestrato la mia libertà, arrestandomi ha ucciso la mia umanità. Da allora, è stata fatta violenza psico-fisica contro la mia persona… sono stato malmenato e trascinato per terra“.

Dopo un lungo periodo nel quale Na’el è stato sottoposto a interrogatori e tortura, un tribunale lo accusò dell’omicidio di un soldato israeliano in collaborazione con altre quattro persone, tra le quali Fakhri al-Barghouthi, suo cugino, anch’egli libero oggi.

Racconta Na’el: “Mi hanno accusato ingiustamente, noi non siamo usciti dalla Palestina per andare a combatterli nel loro territorio, sono loro che sono venuti nella nostra terra, l’hanno usurpata, noi ci difendiamo legittimamente, è un nostro diritto garantito da tutte le religioni e le leggi di questo mondo“.

Tornando all’accusa, il tribunale israeliano condannò Na’el all’ergastolo. Nell’esatto momento in cui veniva pronunciata la sentenza di condanna, Na’el cantò insieme agli altri imputati.
“Ci mettemmo a cantare: ‘Questa è la nostra strada, quella che abbiamo scelto. Questa è la nostra sfida..non cadrà neanche un granello di sabbia…glorifichiamo al-Quds (Gerusalemme)… glorifichiamo ar-Ramleh’.
Il tribunale allora si trasformò in un campo di battaglia tra noi e i soldati israeliani. Mio cugino Fakhri fu colpito. Mia madre si mise a danzare con il suo bastone da contadina“.

Le prigioni israeliane: cimiteri per i vivi. Na’el fu trasferito dal tribunale in una cella.
Il carcere era un laboratorio per esercitare torture fisiche e psicologiche di ogni tipo contro i detenuti e le loro famiglie. Ci hanno dichiarato la guerra culturale, impedendoci di leggere libri e giornali. Lì dentro volevano fermare il ciclo della vita, ci fu impedito di accedere ai mezzi d’informazione, eravamo sepolti vivi in un cimitero“.

In tutti questi anni, le guardie carcerarie hanno esercitato i metodi più duri per rendere un inferno la vita di Na’el e dei suoi compagni di prigione: “Ci trattavano male, ci hanno impedito le cure mediche, gradualmente hanno ristretto le visite dei familiari. All’inizio potevamo incontrarli da dietro le sbarre, poi da dietro un vetro e parlavamo con loro tramite un telefono“.
Ogni detenuto al mondo ha i propri spazi, e gode dei diritti disposti dalle convenzioni internazionali. Tuttavia, il detenuto palestinese non ha neanche il minimo di questi diritti. Sono gli israeliani stessi a dirlo“.

Le guardie carcerarie fanno di tutto pur di trasformare l’esistenza del prigioniero in una vita da sepolto vivo.
Ho trascorso lunghi periodi in una cella d’isolamento, lontano dai miei compagni. In questo modo gli israeliani dovevano creare le condizioni utili ad aggredirmi, pestarmi e cercare di rompere la mia volontà”.
“Di fronte a tutti questi atteggiamenti, cosa resta al detenuto se non lo sciopero della fame?

Na’el ci ha confidato: “Lo sciopero della fame è una battaglia durissima intrapresa dai prigionieri per ottenere i loro diritti più basilari. Ci rifiutiamo di mangiare e di ricevere le visite dei familiari“. 
Nel 2000 scioperammo per 20 giorni, anche allora l’iniziativa fu intitolata ‘la battaglia delle pance vuote’, e anche allora chiedevamo i nostri diritti, gli stessi che sono garantiti dalla legislazione internazionale in materia di trattamento dei detenuti“.

Muore la madre di Na’el e lui è sempre in prigione. Na’el ha trascorso 33 anni in detenzione israeliana. Ha vissuto momenti difficili tra tortura e umiliazioni, ma oggi ci racconta di averli superati grazie alla propria pazienza e fermezza.
In altri momenti, tuttavia, non restava a Na’el altro che rivolgersi al Dio.
Così ci ha raccontato: “Avevo trascorso 26 anni di carcere nel 2004, quando cominciarono ad arrivare brutte notizie. Mia madre, che negli ultimi tempi aveva girovagato da un carcere all’altro per potermi incontrare, e che non aspettava altro che la notizia del mio rilascio per potermi riabbracciare di nuovo, venne a mancare. Un giorno del 2004 mi arrivò la scioccante notizia della sua morte”.
Già prima della morte di mia madre, Israele aveva imposto nei suoi confronti il divieto di visitarmi. Il pretesto era ‘assenza di legami di parentela’. Le fu vietato di visitarmi in carcere, eccetto quell’ultima volta ….quella che noi considerammo una vittoria nazionale. Permisero di incontrarci, ma lei era distesa sul letto della morte, stava male e giunse a bordo di un’ambulanza.
Mia madre aveva fatto tutto il possibile per permettermi di vivere, io invece, mi trovavo dietro alle sbarre senza poter fare niente per lei che giaceva sul letto della morte. Le emozioni si mescolavano: gioia e tristezza.
Dopo avermi abbracciato, la vita riprese a scorrere di nuovo nel corpo di mia madre. Due mesi dopo quell’ultimo incontro giunse la notizia della sua morte
“.

Libertà attesa a lungo. Dopo quasi 34 anni di carcere, al decano dei detenuti palestinesi Na’el Barghouthi è giunta la notizia dei progressi fatti nell’accordo di scambio tra palestinesi e israeliani.
Racconta Na’el: “La notizia della cattura di Gilad Shalit aveva portato a noi detenuti una nuova speranza e, da allora, abbiamo aspettato pazientemente per cinque anni. Non volevamo che i negoziatori palestinesi sapessero quanto eravamo stanchi dalla prigionia, così abbiamo tenuto duro per tutto il periodo dei negoziati, finché non ci è arrivata la notizia della conclusione dell’accordo per il nostro rilascio.
“E sebbene non avessimo mai perso la speranza nella liberazione, quel momento è stato come se ci venisse donata una nuova vita
“.

Na’el descrive i momenti del rilascio: “Eravamo tristi per tutti i compagni che avremmo dovuto lasciare dietro di noi, condannati a migliaia di anni di reclusione e senza sapere quando usciranno. Essi hanno trascorso molti anni in carcere, come Ahmed Sa’daat, ‘Abdullah Barghouthi, Ibrahim Hamed Muhammed Arman, Mahmoud ‘Issa“.

Dopo più di tre decenni in carcere, Na’el ha trovato una situazione diversa da quella che aveva lasciato il giorno del suo arresto, nel 1978. Oggi, i suoi genitori sono defunti, suo fratello è ancora in carcere, è rimasta solo la sua sorella a riceverlo.

E proprio rivolgendosi a lei dice Na’el: “Ah quanti momenti mi fai ricordare, eppure sono momenti che mi sforzo di dimenticare…l’ho lasciata quando aveva 12 anni, oggi ho dei nipoti“.
La prima cosa da uomo libero che ha fatto Na’el è stato visitare la tomba dei suoi genitori.
Ha incontrato parenti e amici e racconta quei momenti: “E’ stata una bella sensazione, ho visto le lacrime di gioia di mia sorella per la mia liberazione, miste alle lacrime di tristezza per quanto ho dovuto patire, per i decenni trascorsi in carcere..sono emozioni che ti gelano“.

L’ex detenuto ha rivolto un messaggio di ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito al suo rilascio: “La resistenza ha spazzato via tutta quella ruggine che ci ha circondato durante gli anni di prigionia, eravamo come ammuffiti e ci è giunto il sale dei nostri fratelli della resistenza per liberarci della prepotenza dell’occupante…Questo gruppo di connazionali della Striscia di Gaza assediata aveva promesso di liberarci, e ha mantenuto la promessa“.

Secondo Na’el Barghouthi, “la causa palestinese sta attraversando delle curve pericolose, nonostante le quali la vittoria arriverà e la liberazione della Palestina troverà il favore di tutta la nazione. Il popolo palestinese riavrà  finalmente la sua terra usurpata, espellendo questa presenza estranea, quella dell’occupazione israeliana“. 
Egli ha anche chiesto a tutto il mondo di sostenere il popolo palestinese nella sua lotta contro la prepotenza e l’ingiustizia di Israele, per la difesa del popolo e dei detenuti fino alla libertà e all’indipendenza.

I suoi messaggi di unità. Per Na’el, “la lotta intestina tra i figli dello stesso popolo non è in realtà una lotta tra i due Movimenti di Hamas e Fatah, ma è un conflitto tra due linee: una della resistenza e l’altra che la vorrebbe eliminare. Nessuna fazione palestinese è esclusa, ma alla fine vincerà la linea della resistenza“.

L’ex prigioniero palestinese sostiene: “La scelta dovrà ricadere sull’unità, l’opzione più sincera e maggiormente realizzabile. Abbiamo visto con i nostri occhi la gioia di tutti i palestinesi, di tutte le fazioni, al momento del nostro rilascio, e questa unità è ciò che conta. L’unità del popolo palestinese anche di fronte alle divergenze delle fazioni“.
Barghouthi ha chiesto di porre fine agli arresti politici: “Il palestinese deve restare libero nella sua patria, qualunque sia la fazione alla quale appartiene“.

Alla fine dell’incontro con il nostro corrispondente da Ramallah, Mohammed Awad, il decano dei prigionieri palestinesi, Na’el Barghouthi, 34 anni di prigione israeliana, ha ammesso di non essere pentito e che mai potrà pentirsi per quanto ha fatto per il popolo palestinese, ovunque esso si trovi: in Cisgiordania, a Gaza o in diaspora.

A tutti loro Na’el Barghouhti dedica con umiltà tutto ciò che ha fatto.

da InfoPal