Com’era nelle previsioni la Lega nazionale per la democrazia (Lnd), guidata da Auung San Suu Kyi ha stravinto le elezioni suppletive svoltesi il primo aprile. Elezioni parziali quindi — per rimpiazzare 45 seggi vacanti di un Parlamento strettamente dominato dal partito dei militari (Partito dell’unione, della solidarietà e dello sviluppo, Puss) — ma una decisiva prova generale in vista di quelle generali che si svolgeranno nel 2015.

La stessa San Suu Kyi, eletta nel distretto elettorale di Kawhmu è entrata in pompa magna in questo parlamento-fantoccio. Dai primi dati risulta che la Lnd ha strappato 19 seggi, tenendo conto che altri seggi andati a partiti minori, è evidente la sconfitta del regime.

Non era affatto certo, solo fino a pochi mesi fa, che la Lnd avrebbe partecipato a queste elezioni suppletive. La Lnd ha infatti seguito nel tempo una linea di boicottaggio, condannando le elezioni come “elezioni farsa”. Tipico caso quello delle elezioni del novembre 2010, quando il partito dei militari, il Puss, ottenne l’80% dei voti, grazie ad una legge elettorale-truffa che assicura ai militari il 25% dei seggi, quali che siano i risultati.

Che l’approccio della Lnd stesse cambiando lo si era capito da alcuni mesi. Dopo la scarcerazione di San Suu Kyi, avvenuta il 13 novembre 2010, tra i generali e la Lnd si avvia un negoziato politico per una transizione lenta ad un regime democratico. Un negoziato che si è svolto sotto traccia, sotto gli auspici di Stati Uniti e Cina.

La prova provata che il regime fosse ormai pronto a cambiare registro, venne dal viaggio che la Clinton fece in Myanmar nel dicembre 2011, in occasione del quale affermò che gli Usa erano pronti a rimuovere le sanzioni, a patto, appunto, che si aprisse una “transizione alla democrazia” e che si consentisse a San Suu Kyi di presentarsi alle elezioni del 1 aprile. Il presidente Thein Sein, senz’altro col semaforo verde di Pechino, rassicurò la Clinton che così sarebbero andate le cose.

Il segnale definitivo che un accordo con gli Usa e il loro braccio politico della Lnd era stato raggiunto venne nel gennaio scorso, quando 650 prigionieri politici vennero scarcerati dalla Giunta militare, tra cui U Gambira, noto monaco buddista che fu tra gli organizzatori della rivolta popolare, repressa nel sangue, dell’estate del 2007 [vedi più sotto il nostro comunicato del 3 ottobre 2007]. Era il segnale che il regime militare apriva ad una devoluzione dei poteri ad un governo regolarmente eletto. Così, a fine marzo, il Congresso degli Stati Uniti si disse pronto a rimuovere le sanzioni adottate a suo tempo.

Per quanto baccano facciano i mezzi di informazione imperialisti, San Suu Kyi e la Lnd non sono affatto gli unici esponenti dell’opposizione. La resistenza al regime militare birmano è ampia e di massa. Essa è composta dalle diverse minoranze nazionali e religiose, da guerriglie che controllano importanti arre del paese (anzitutto i Karen), da sindacati illegali ma di notevole forza, e dalla sinistra birmana, la cui principale espressione è il Partito comunista di Birmania (Pcb), di antica ispirazione maoista. Per quanto il Pcb abbia cessato la lotta armata a metà degli anni ‘90, esso è ancora oggi clandestino, essendosi sempre rifiutato di accettare il ricatto del regime militare che chiedeva, in cambio della legalizzazione, l’abbandono del nome. “Non abbiamo intenzione di cambiare il nome del nostro partito”, dichiarò anni addietro il dirigente comunista Mizzima.

Malgrado la dura repressione il Pcb conserva un peso rilevante sia nei sindacati che nei movimenti popolari e i suoi quadri ebbero un ruolo nella rivolta popolare dell’estate del 2007.

La opposizione al regime militare non ha tuttavia spinto i comunisti tra le braccia di San Suu Kyi. Dalle scarse informazioni che filtrano dalla Birmania non risulta che il Pcb accetti l’idea di un fronte unito con la Lnd. Ne è una prova che durante le elezioni del 2010, mentre San Suu Kyi e la Lnd scelsero il boicottaggio, i comunisti birmani diedero indicazioni di voto, in diverse province del paese, per alcuni candidati di opposizione, spesso esponenti di minoranze nazionali oppresse.

Che l’attuale “processo di democratizzazione” sarà autentico, staremo a vedere. La prova del nove non sarà solo quella se i comunisti saranno ammessi alle elezioni del 2015, ma se saranno riconosciuti i legittimi diritti delle minoranze nazionali oppresse come i Karen, e se il regime cesserà la sua occupazione militare nelle zone di guerriglia.

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Comunicato del Campo Antimperialista del 3 ottobre 2007

Né Than Shwe né San Suu Kyi
DALLA PARTE DEL POPOLO DI MYANMAR

Da metà agosto Myanmar è sconvolta dalla protesta popolare.

Il fattore scatenante delle mobilitazioni è stata la decisione della Giunta Militare di eseguire le direttive della Banca mondiale e del FMI, ovvero di raddoppiare i prezzi dei carburanti e, a cascata, di svariati generi di prima necessità.
Iniziate spontaneamente nella capitale queste manifestazioni si sono estese e politicizzate. Dalla richiesta di calmierare i prezzi a quella di porre fine alla odiosa dittatura militare, il passo è stato breve.

La principale forza politica di opposizione, la «Lega Nazionale per la Democrazia» (LND), di cui la nobel San Suu Kyi è da anni l’icona, dopo un primo momento di imbarazzo, è scesa in campo nello sforzo di incanalare il movimento di protesta e di usarlo come strumento di pressione per obbligare la Giunta Militare al «dialogo» con l’obbiettivo di dar vita ad un «governo di salvezza nazionale». Concorde con questa linea negoziale (strumentalmente dipinta come  «non violenta») e allo scopo di evitare une vera e propria insurrezione popolare, è entrato in scena anche il potente clero buddista.

La risposta del regime militare (che si spaccia come la sola salvezza per tenere unito il paese) non si è fatta attendere. Sorto grazie al bagno di sangue nel quale fu soffocata l’insurrezione dell’agosto-settembre del 1988, temprato dalla pratica di sistematica soppressione dei movimenti guerriglieri maoisti e delle nazionalità oppresse, esso ha scatenato una brutale repressione, incarcerando i militanti sindacali e studenteschi, soprattutto quelli appartenenti alle numerose minoranze nazionali, ed infine colpendo gli stessi seguaci di San Suu Kyi, ovvero i notabili della LND e alleati.

I media internazionali, ubbidendo alla medesima centrale di disinformazione strategica nordamericana, hanno scatenato una massiccia campagna di appoggio, non tanto alla rivolta popolare, ma alla LND e ai suoi alleati. Lo scopo è palese: isolare e indebolire la infida Giunta Militare con l’obbiettivo di permettere all’opposizione filoimperialista di salire al potere. In questa prospettiva Bush e i suoi zimbelli europei hanno proposto sanzioni immediate contro Myanmar. Non è un segreto per nessuno che la coalizione di cui San Suu Kyi è il simbolo, gode di potentissimi appoggi negli Stati Uniti, sia da parte di fondazioni neocon che democratiche. Come non è un caso che le forze filoimperialiste raccolte attorno alla LND abbiano fondato nel 1995 un governo in esilio che ha sede proprio negli Stati Uniti e di cui il cugino di San Suu Kyi è primo ministro.

Se l’esportazione della democrazia è il famigerato cavallo di battaglia degli Stati Uniti per abbattere tutti i governi dei paesi ostili per poi afferrarli nella propria sfera geopolitica, San Suu Kyi e la LND sono in Myanmar il loro Cavallo di Troia.
L’alto rischio che la rivolta faccia da apripista all’ascesa al potere di forze asservite agli interessi nordamericani non può tuttavia giustificare alcun atteggiamento di ostilità verso il movimento popolare e le sue legittime aspirazioni democratiche.
Né può giustificare un atteggiamento di indifferenza verso la rivolta popolare il rischio che Myanmar, nel caso i filoamericani giungano al potere, diventi  una base militare puntata contro la Cina e, in subordine attrezzata per controllare l’India.

Myanmar interessa infatti sia alla Cina che all’India. Per Pechino questo paese è un vitale sbocco strategico sull’Oceano indiano e  una piazzaforte per controllare le autostrade oceaniche dove passa il petrolio per le sue industrie. Per l’India un insostituibile corridoio per far transitare le sue merci verso i mercati emergenti dell’Indocina. Se Pechino sostiene la Giunta Militare con ogni mezzo, Nuova Delhi ha sin qui spalleggiato la dittatura militare poiché la considera il solo antidoto per evitare una frantumazione su linee «etniche» di Myanmar — la quale avrebbe conseguenze disgregatrici sui suoi territori del Nord Est («Seven Sisters») dove sono attivi potenti movimenti di liberazione nazionale, antimperialisti e islamici. Cina e India temono così, non solo che giungano al potere le forze filoamericane, temono altrettanto che Myanmar sia sconvolta da una vera rivoluzione dal basso. Cinesi e indiani usano Myanmar come una pedina nel loro gioco strategico e geopolitico e se ne infischiano dei bisogni delle masse di Myanmar, come del resto delle loro proprie.

Siamo al fianco del popolo di Myanmar e anzitutto alle organizzazioni rivoluzionarie democratiche, ai sindacati, alle nazionalità oppresse, nelle quali un ruolo di punta svolgono i militanti comunisti e socialisti.
Sosteniamo in particolare quelle forze popolari che respingono sia l’ipotesi di un regime «democratico» narcotrafficante asservito agli Stati Uniti, sia quella di un regime di condominio tra l’esercito, il clero buddista e la LND di San Suu Kyi.
Ci auguriamo che il popolo continuerà a combattere fino alla vittoria della   rivoluzione democratica, una rivoluzione che consegnando il potere al popolo, porrà finalmente fine sia all’oppressione sociale dei poveri che a quella delle minoranze nazionali.

Né servi degli USA né della Cina!
Con la rivolta popolare fino alla Rivoluzione democratica!

Campo Antimperialista. 3 ottobre 2007