Il tempo sembra essersi fermato in Palestina. Israele continua a bombardare Gaza, ad opprimere la Cisgiordania, ad aumentare le colonie. Le forze palestinesi sembrano in una fase di stallo, come sospese tra la volontà di non arrendersi e la speranza dei frutti dei cambiamenti politici in Egitto. Ma il fuoco cova sotto la cenere. Di questo ci parla – addirittura dalle pagine del New York Times – un articolo dell’analista Nathan Thrall, che potete leggere di seguito.

All’inizio di giugno, durante un incontro privato con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e i suoi consiglieri di sicurezza, un gruppo formato da esperti sul Medio Oriente ed ex funzionari dell’intelligence ha ammonito che una terza Intifada è imminente. Essi hanno spiegato che l’immediato catalizzatore potrebbe essere un’altra moschea devastata da coloni ebrei (come quella incendiata martedì 19 giugno) o la costruzione di nuovi insediamenti. A prescindere da quale sia la miccia, alla base del fermento in Cisgiordania vi è l’opinione generale che il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, si trovi in un vicolo cieco.

La strategia politica di Abu Mazen era basata sull’idea che la cooperazione di sicurezza tra l’ANP e il Governo israeliano avrebbe reso Israele uno Stato più sicuro ed avrebbe rimosso la giustificazione primaria per continuare a occupare la Cisgiordania, aprendo la strada a uno Stato palestinese. Per ironia della sorte, a causa del successo di questi sforzi, molti israeliani si sono presi il lusso di dimenticare del tutto che è in corso un’occupazione.

Grazie alla pace finanziata dagli Stati Uniti e dall’Europa, che il Governo di Abu Mazen sta mantenendo in Cisgiordania, gli israeliani sono arrivati a credere che si possa avere la botte piena e la moglie ubriaca. In un sondaggio condotto all’inizio di quest’anno, la maggior parte dei cittadini ha sostenuto che il loro Stato può rimanere ebraico e democratico senza rinunciare alla Cisgiordania. Anni di pace e tranquillità a Tel Aviv hanno permesso a migliaia di israeliani di scendere in piazza e protestare contro l’alto prezzo dei formaggi freschi, degli affitti, delle scuole materne senza pronunciare una singola parola per i palestinesi in Cisgiordania. La questione ha cessato di essere una delle preoccupazioni principali d’Israele. Netanyahu dovrebbe essere politicamente suicida, o forse eccezionalmente lungimirante, per abbandonare lo status quo che sembra soddisfare una vasta maggioranza di israeliani.

Al contrario, oggi, i palestinesi vedono il loro leader sbattere la testa contro un muro sperando, vanamente, che si possa arrivare alla creazione di uno Stato indipendente agendo in maniera più accondiscendente. Di conseguenza, i lunghi dibattiti su come ottenere la liberazione nazionale – confortando Israele o affrontandolo – sono ormai stati risolti. Infatti i palestinesi, a prescindere dal loro orientamento politico, non discutono più se rendere l’occupazione israeliana più dispendiosa, bensì su come farlo.

Durante gli anni ’90, Abu Mazen fu uno dei principali architetti del processo di pace di Oslo. Gli accordi prevedevano un ritiro graduale dalla Cisgiordania, che avrebbe portato a un trattato di pace permanente (anche se non necessariamente a uno Stato palestinese). Oggi, forse, Abu Mazen è l’unico a crederci ancora. Il presidente dell’ANP è stato costretto ad accettare a parole le richieste di quelli che sono a favore di uno scontro, promettendo continuamente che si sarebbe opposto a Israele (smantellando l’ANP o rifiutandosi di negoziare se Israele non congelerà la costruzione degli insediamenti), solo per poi rinnegare tali promesse.

Non solo il divario tra le parole e le azioni del presidente palestinese è aumentato, ma anche la distanza tra le sue politiche e l’opinione pubblica è cresciuta, spingendo il Governo palestinese ad adottare una maggiore repressione. Gli oppositori politici sono stati torturati, i siti web bloccati, giornalisti e blogger critici nei confronti di Abu Mazen arrestati. Anche i suoi più stretti consiglieri rivelano che il loro presidente rischia di diventare il prossimo Antoine Lahad (il leader delle forze alleate con Israele durante l’occupazione israeliana del sud del Libano). Il principale esecutore delle politiche di Abu Mazen, il Primo Ministro non eletto Salam Fayyad, ha riconosciuto: “penso che stiamo perdendo credibilità, sempre che non l’abbiamo già persa”. Lo stesso Abu Mazen ha ammesso che il processo di pace è “bloccato” e che il suo Governo ha meramente contribuito a creare “un’occasione favorevole” per Israele. Infatti, lo Stato ebraico, favorito da anni di cooperazione senza precedenti con le forze palestinesi in Cisgiordania, manca di ogni incentivo per promuovere un qualsiasi cambiamento.

In questi giorni, tuttavia, le forze di sicurezza palestinesi hanno pochi motivi per credere che i loro sforzi stiano favorendo gli obiettivi nazionali, mentre Israele non può presumere che l’ANP garantisca la sicurezza a tempo indeterminato. Un mese fa, alcune sparatorie sono tornate a colpire le strade di Jenin e 1600 prigionieri palestinesi hanno iniziato la quarta settimana di sciopero della fame. Abu Mazen ha dichiarato: “Non posso controllare questa situazione. Temo – Dio non voglia – che il sistema di sicurezza collasserà”. Questa sua dichiarazione fa eco alle osservazioni di Yuval Diskin, il capo dell’agenzia di sicurezza interna israeliana da poco in pensione: “Quando la concentrazione di gas infiammabile è così alta, la sola domanda da porsi è quando giungerà la scintilla che lo farà esplodere”.

La causa principale di quest’instabilità è che i palestinesi hanno perso ogni speranza che Israele garantisca loro uno Stato. Ogni tentativo di esercitare quel poco d’influenza che i palestinesi possiedono è stato ostacolato, o si è dimostrato inefficiente. Il boicottaggio dei prodotti degli insediamenti non ha ottenuto forte seguito, ed in ogni caso non fermerebbe l’espansione di questi ultimi. I palestinesi avrebbero potuto premere, lo scorso settembre, per un voto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Questa mossa spaventava tanto Israele quanto gli Stati Uniti per via delle implicazioni che l’accesso dell’ANP alla Corte Penale Internazionale avrebbe comportato. Abu Mazen ha abbandonato questo sforzo in favore della richiesta di un riconoscimento dello Stato palestinese al Consiglio di Sicurezza. Era certo che avrebbe fallito, ma il presidente dell’ANP ha abilmente spacciato la propria capitolazione per un atteggiamento di sfida.

Questi fallimenti hanno lasciato con due sole opzioni quei palestinesi che sperano di rendere l’attuale situazione insostenibile per Israele: la protesta popolare o la resistenza armata. La prima opzione si trova di fronte ad enormi ostacoli per via delle divisioni politiche tra Hamas a Gaza e Fatah in Cisgiordania. Ogni fazione considera la mobilitazione di massa come un potenziale primo passo verso il proprio rovesciamento, ed anche come un mezzo per conferire più potere a una nuova generazione di leader a scapito di quelli esistenti.

Se le dimostrazioni di massa scoppiassero in Cisgiordania, Israele chiederebbe alle forze di sicurezza palestinesi di fermare qualsiasi protesta in prossimità di soldati e coloni, obbligandole a scegliere tra l’aprire potenzialmente il fuoco sui manifestanti palestinesi e il cessare la cooperazione di sicurezza con Israele, cosa che Abu Mazen si rifiuta di fare. Come egli ben sa e teme, le proteste di massa possono diventare velocemente militarizzate su entrambi i fronti. Per questi motivi, il suo Governo ha dato un sostegno più che altro puramente retorico alle limitate proteste settimanali che stanno così a cuore agli attivisti stranieri e alla stampa occidentale. In effetti, le autorità hanno attivamente impedito ai dimostranti di avvicinarsi a qualsiasi insediamento ebraico.

La seconda scelta è lo scontro armato. Sebbene ci sia una diffusa apatia tra i palestinesi, e centinaia di migliaia di loro dipendano finanziariamente dall’esistenza dell’ANP, un sostanziale numero accoglierebbe con favore la prospettiva di un’escalation armata. In particolare, i molti sostenitori di Hamas sostengono che la violenza sia stata la tattica più efficace per costringere Israele e la comunità internazionale ad agire.

Essi credono che il lancio di pietre e molotov e le proteste di massa abbiano spinto Israele a firmare gli accordi di Oslo nel 1993, e che gli attacchi mortali contro le truppe israeliane in Libano abbiano portato Israele a ritirarsi nel 2000. Inoltre, sono convinti che lo spargimento di sangue della seconda Intifada abbia messo sotto pressione l’ex presidente americano George W. Bush, portandolo a dichiarare il suo appoggio a uno Stato palestinese, e che abbia spronato la comunità internazionale a produrre l’Iniziativa di Pace Araba, l’Iniziativa di Ginevra e la Road Map per la Pace in Medio Oriente. Infine, allo stesso modo, sono convinti che il ricorso alle armi abbia spinto l’allora Primo Ministro israeliano Ariel Sharon a far evacuare i coloni e le truppe da Gaza nel 2005. Questo ritiro ha però avuto anche l’effetto di congelare il processo di pace, fornendo “la quantità di formaldeide necessaria”, come ha affermato un consigliere di Sharon, “affinché non ci sia nessun processo politico con i palestinesi”.

Per un crescente numero di leader militanti palestinesi, che non hanno mai creduto al processo di pace, la lezione era chiara. “Non un centimetro di territorio palestinese sarà liberato”, ha affermato Mousa Abu Marzouk, vicedirettore dell’ufficio politico di Hamas, “finché gli Israeliani penseranno che possa essere controllato a buon mercato”. Matti Steinberg, ex alto consigliere dei dirigenti della sicurezza israeliana, ha descritto Abu Mazen come il più accondiscendente e nonviolento leader palestinese con cui Israele abbia mai avuto a che fare, e ha messo in guardia dal darlo per scontato. “I politici centristi in Israele sono bloccati in un circolo vizioso”, ha detto Steinberg. “Essi sostengono che non possono promuovere la pace finché c’è violenza, e quando non c’è violenza vedono ben poche ragioni per fare la pace”.

La storia potrà attribuire ad Abu Mazen il merito di aver governato la fase più virtuosa di questo ciclo, ma il presidente dell’ANP ha probabilmente gettato le basi per quella più negativa. Hamas, nel frattempo, è già andata oltre. “Gli israeliani avevano avuto un’occasione d’oro firmando il trattato con Abu Mazen” ha dichiarato il Ministro della Sanità di Hamas, Basem Naim, lo scorso novembre a Gaza, “ma questa possibilità è andata perduta, e non ne otterranno un’altra”.


*Nathan Thrall è un analista di questioni mediorientali presso l’International Crisis Group

da Medarabnews
Original Version: The Third Intifada Is Inevitable
(Traduzione di Omar Bonetti)