Adesso Bashar al-Assad, dall’alto della sua fortezza presidenziale, sulle alture di Damasco, può senz’altro vedere le colonne di fumo che si alzano dai quartieri della periferia meridionale della capitale. Si tratta della cosiddetta “Cintura della miseria”, un ammasso di quartieri venuti su negli ultimi anni, gonfiatisi con l’immigrazione sregolata e di massa dalla campagna — un flusso cresciuto negli ultimi decenni, parallelamente alle politiche liberalizzatrici che hanno scavato nel paese un profondo fossato tra ricchi e poveri.
I ribelli affermano che è oramai iniziata la “Battaglia di Damasco”, ovvero la resa dei conti finale col regime baathista. Noi ne dubitiamo. Ma è un fatto che nei sobborghi a maggioranza sunnita di Harasta, Tadamun, Kafar, Soussé, Nahr Aicha, Sidi Qadada (come pure a Midan), si combatte. Di giorno le strade sono in mano ai lealisti, di notte i ribelli ne riprendono il controllo.
Quanto affermato dal Ministro degli esteri russo Sergei Lavrov in risposta alle insistenti pressioni occidentali è sostanzialmente vero: «Non è realistico sperare che la Russia possa convincere Assad a lasciare il potere. Lui non se ne andrà: e non perché noi lo appoggiamo ma semplicemente perché una parte significativa della popolazione lo sostiene». E’ vero: “una parte significativa” dei cittadini siriani sostiene Assad. Anzitutto le diverse comunità religiose minoritarie (alawiti, cristiani, drusi ed anche ebrei), che sono terrorizzati all’idea che il potere possa cadere nelle mani delle frange più estreme del sunnismo.
Esse ricordano quale fosse la loro situazione di oppressione nei secoli di dominazione turco-ottomana. Esse vedono in Assad l’ultimo baluardo per tutelare se stesse dal ritorno in una situazione di minorità. Ma in questa autodifesa, legittima, c’è implicita l’arroganza, illegittima, di chi oggi detiene una posizione di supremazia politica e sociale.
Forte di questa solidarietà comunitaria (ma anche di clan) Assad non demorde. Rifiuta qualsiasi negoziato e compromesso. Tanto peggio tanto meglio, questo sembra il motto suo e dei suoi sodali — tra cui si annoverano potenti e ricche famiglie di commercianti e intrallazzatori sunniti. Da un anno e mezzo il regime stronca ogni reale possibilità di dialogo non solo con le sette salafite e takfirite, ma con le stesse componenti democratiche e socialiste dell’opposizione.
C’è, in questo atteggiamento, non solo una totale sordità alle istanze di quella che è, se non la maggioranza, un’amplissima parte della popolazione siriana; c’è una sconcertante cecità politica e strategica.
In questo contesto è degno di nota che il governo iraniano, il 14 luglio si sia detto pronto ad ospitare un incontro tra il regime siriano e l’opposizione “per superare l’impasse in Siria”. Un passo politicamente molto significativo, tanto più perché annunciato ai massimi livelli istituzionali, ovvero dal Ministro degli esteri iraniano Ali Akbar Salehi.
Quante possibilità di successo abbia l’iniziativa iraniana è difficile stabilire. Essa è tuttavia il segnale che l’alleato strategico di Damasco, che ben conosce quanto va accadendo in Siria, teme che la situazione possa davvero degenerare in una guerra civile infinita. Occorre evitare questo esito ad ogni costo e lo si può evitare solo a patto che il regime accetti finalmente un cessate il fuoco per avviare un processo politico che conduca ad elezioni davvero democratiche e trasparenti. Solo in questo modo si taglierebbero le unghie ai gruppi armati foraggiati dalle petro-monarchie, e si isolerebbero coloro i quali gettano benzina sul fuoco per spingere la Nato, come accaduto in Libia, ad un intervento militare massiccio.