Intervento di Ugo Giannangeli al dibattito del 7 luglio a Milano, iniziativa “PALESTINA – l’apartheid che non ti aspetti”

Vorrei proporre una accezione ampia del termine “apartheid”.
L’etimologia lo consente: “apart” vuol dire mettere da parte, isolare, ghettizzare, discriminare. Lo si può fare fisicamente o giuridicamente o in entrambi i modi.

Fisicamente attraverso l’uso della forza: espulsioni, limitazioni alla circolazione, abbattimenti di case, incarcerazioni , uccisioni…
Giuridicamente attraverso le leggi: inibizione o riduzione dei diritti nel lavoro, nella istruzione, nella vita civile o religiosa, nella politica…

Le ragioni? Di solito le ragioni, o, meglio, i pretesti sono di carattere razziale, religioso o politico. Spesso i tre pretesti si fondono.
Nel caso di Israele si possono individuare 5 tipi di apartheid riservati a 5 diverse situazioni soggettive e oggettive. Prima di analizzarle è necessaria una premessa: non esiste alcun conflitto israelo-palestinese, termine fuorviante che evoca la suggestiva e comoda immagine di due parti contrapposte, ognuna con le proprie ragioni. In Palestina c’è una occupazione che si protrae in modo subdolo da fine ‘800 e di cui la dichiarazione di Balfour del 1917 rappresenta solo l’uscita allo scoperto; in modo eclatante dal 1948 con la nascita dello stato sionista. Nel 1967 c’è stato un ulteriore allargamento della occupazione.

La colonizzazione si espande quotidianamente e quindi l’occupazione continua ancora oggi con un progetto dichiarato: la costituzione di uno stato riservato ai soli ebrei, come era nelle intenzioni ottocentesche e con il rammarico di non avere completato l’espulsione nel 1948.

In questo quadro la persecuzione e lo sterminio degli ebrei hanno rappresentato solo una occasione da sfruttare a fondo. E così è stato fatto (si veda il libro di N. Finkelstein : “L’industria dell’olocausto”).

L’occupazione non potrebbe realizzarsi ed espandersi senza una violenza continua, giustamente definita “strutturale”.
L’apartheid non è che una delle tante forme di violenza o, se la intendiamo come propongo, è lo strumento che racchiude tutte le forme di violenza.

Ciò chiarito, torniamo ai 5 tipi di apartheid e ai diversi soggetti destinatari. Innanzitutto i profughi, cioè gli espulsi dalle proprie case nelle varie epoche. Inserirei in questa categoria anche i prigionieri politici e i deporters degli anni ’90.
Poi i prigionieri di Gaza, anche se è riduttivo definire i Gazawi carcerati. Mi sono sempre opposto all’uso del termine “ prigione a cielo aperto” riferito a Gaza, usato anche da Vittorio Arrigoni, perché i detenuti nelle carceri godono di una serie di diritti codificati negati ai Gazawi: alla vita, allo studio, al lavoro, alla salute, alle visite di amici o parenti, alla certezza della durata e della modalità della pena…

Nulla di tutto ciò per Gaza.
Abbiamo poi i Palestinesi dei Territori occupati. La limitazione più evidente è quella agli spostamenti sul territorio per le centinaia di check-points, tra fissi e mobili, e per il muro, con conseguente devastazione della quotidianità. Questa limitazione è manifestazione della assoluta assenza di sovranità territoriale, con buona pace degli accordi di Oslo e della tripartizione delle aree (del resto Marwan Barghouti fu catturato a Ramallah in piena area A!). Continue sono le incursioni, notturne e non, dell’esercito israeliano alla ricerca di persone da arrestare, spesso, purtroppo, con la complicità o nella inerzia della Polizia palestinese.

Particolarmente vessatoria è la legge sul “proprietario assente” in base alla quale un palestinese perde il diritto al ritorno e alla proprietà dopo una permanenza all’estero. La legge trova larga applicazione a Gerusalemme est ove si deve dimostrare che Gerusalemme è il “centro della vita” pena la perdita della carta di residente permanente. Si tocca il ridicolo se solo si pensa alla legge israeliana del “ritorno” del 1950 che consente a un ebreo che non ha mai messo piede in Israele di diventare cittadino israeliano automaticamente quando ci va a vivere. Al contrario un palestinese la cui famiglia risiede lì da secoli non può allontanarsi per ragioni di studio o lavoro pena la perdita non solo della residenza ma anche della proprietà.

Ci sono poi i palestinesi con cittadinanza israeliana. Nei loro confronti la discriminazione è, ovviamente, meno appariscente ma ugualmente odiosa perché ben manifesta l’esclusività dello stato ebraico come stato riservato agli ebrei e quindi, inevitabilmente, razzista. Non prestando servizio militare, questi palestinesi non godono di una serie di prestazioni statali (sussidi, mutui…) ma altre discriminazioni sul lavoro e nella vita politica e sindacale prescindono dal servizio militare.

Inserirei, infine, una ultima categoria che ci riguarda: noi tutti siamo vittime di apartheid nel momento in cui non possiamo raggiungere Gaza o i T.O. come e quando vogliamo. Tutti ricordiamo l’esperienza delle due Flotille, la prima col massacro della Mavi Marmara, la seconda con le navi bloccate nei porti, a dimostrazione della arroganza e dello strapotere israeliano nel mondo.

Ricordiamo anche la Flytilla, con gli attivisti bloccati al Ben Gurion o negli aereoporti di partenza sino al ridicolo di oltre 500 persone bloccate senza che avessero nulla a che fare con la manifestazione. Anche a livello individuale l’incertezza di valicare o meno il Ben Gurion rappresenta una forma di violenza e discriminazione su base politica.

Tutto ciò, ovviamente, in palese contrasto non solo con la legislazione internazionale ma anche con i principi fondanti dello stato di Israele la cui dichiarazione di indipendenza recita: “Israele…..assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele alla Carta delle N.U.”. Quest’ultimo riferimento è decisamente ridicolo alla luce di tutte le risoluzioni ONU violate o ignorate.

Le prime condanne del sionismo come forma di razzismo risalgono agli anni ’70.
Poiché quando si parla di apartheid il pensiero corre al Sudafrica, vorrei ricordare la risoluzione di Kampala del 1° agosto 1973: “Il regime razzista della Palestina occupata e i regimi razzisti dello Zimbawe e del Sudafrica hanno una comune origine imperialista, formano una unità di struttura razzista e sono organicamente collegati in una comune politica di distruzione della dignità ed integrità della persona umana.”.

Ci è chiesto di parlare anche delle prospettive. Anche in questo caso una premessa.
La pratica violenta del sionismo ha provocato ovviamente conseguenze sulle due società. Sintetizzando e, quindi, inevitabilmente, semplificando si può dire che i colpi più duri il sionismo li ha inferti alla società e alla cultura ebraica. E’famosa l’affermazione del rabbino Leibele Weissfich: “Il nazismo ha distrutto il giudaismo fisicamente, il sionismo lo ha distrutto spiritualmente”.

In un recente articolo sul Manifesto (24/6/2012) Uri Avnery, prendendo spunto dall’episodio del ciclista danese picchiato col calcio di fucile da un ufficiale israeliano, afferma: “il nostro sistema educativo ora produce una stirpe stupida, meschina e brutale. Come potrebbe essere altrimenti dopo 60 anni di indottrinamento ininterrotto e 45 di occupazione militare? Ogni occupazione, ogni oppressione di un altro popolo corrompe l’occupante, rende stupido l’oppressore”.

Al contrario la società palestinese, senza cadere in eccessive mitizzazioni, mantiene intatta una integrità che stupisce dopo tanti anni di sofferenze. Se sono evidenti le divisioni politiche, soprattutto ai vertici, la società civile è invece unita nella resistenza alla occupazione. Nei campi profughi trovi bambini che sanno della Palestina solo dai racconti dei nonni e vogliono tornare nelle loro case di cui conservano foto e chiavi.

Luca Salerno sul Manifesto del 23 giugno 2012, a proposito della cacciata dei profughi africani, soprattutto sudanesi, da Israele, ha riferito che si assiste a una vera e propria caccia all’uomo finalizzata al rimpatrio forzato. Ancora una volta espulsioni e, quindi, pulizia etnica. E’ curioso notare che questi migranti vengono chiamati “infiltrati”, lo stesso termine usato nei primi anni dopo il 1948 nei confronti dei palestinesi che tentavano di rientrare nelle proprie case (ne furono uccisi alcune migliaia). I manifestanti xenofobi attaccano anche gli attivisti di sinistra con slogan tipo : “la sinistra è un cancro”. Scrive Salerno: “Alcuni vedono in ciò che sta avvenendo l’ennesima dimostrazione della impossibilità di stabilire uno stato che sia al tempo stesso ebraico e democratico e cita Michael Warschawsky quando dice:  “I nipoti delle vittime della Germania nazista dovrebbero sapere identificare i tratti caratteristici del fascismo… lo “stato d’asilo” è diventato uno “stato fascista”.

Prima di passare alle prospettive, un ultimo esempio di degenerazione della società israeliana. Il 20 maggio di questo anno migliaia di israeliani hanno percorso la città vecchia di Gerusalemme sino al Muro del pianto. Gli slogan inneggiavano a Gerusalemme come città solo di Israele. Secondo il calendario ebraico il 20 maggio si festeggia la riunificazione della città a seguito della occupazione del settore arabo nel 1967. Si festeggia, quindi, una occupazione in spregio a tutte le norme di diritto internazionale e alle risoluzioni ONU, prima fra tutte la 242 che impone il ritiro.

Al contrario ai Palestinesi è vietato ricordare la Nakba. Nel Marzo 2011 Israele ha approvato la legge che taglia i fondi agli istituti pubblici che organizzano eventi che commemorano la Nakba. Inizialmente era previsto che la commemorazione fosse punita col carcere. Poi, di fronte alla evidenza dell’assurdo, si è giunti a un compromesso significativo, però, della volontà di cancellare la memoria storica del popolo palestinese. Gli ebrei europei sono stati i più attivi nel fare approvare le leggi che, in alcuni Paesi, puniscono il negazionismo come reato. Negare una verità storica è reato in Europa. Ricordare una verità storica è punito in Israele!

Venendo alle prospettive, citerei un altro ebreo, Richard Falk (noterete che ho citato solo ebrei, metodo semplice per evitare la rituale accusa di antisemitismo). Falk è l’inviato speciale dell’ONU nei T.O. e il 20 ottobre 2010 ha presentato il suo ultimo rapporto prima della fine del mandato. Il rapporto denuncia in modo forte la deriva di Israele verso l’estrema destra, sia nella leadership, sia nella opinione pubblica; il ruolo sempre più egemone degli ultraortodossi e dei coloni; la pulizia etnica e l’espansione delle colonie soprattutto a Gerusalemme est. Parla di annessione di fatto stabile e non più di occupazione militare temporanea. Parla della crescita del movimento BDS, anche negli USA, e del timore di Israele rispetto a quello che Israele chiama “progetto di delegittimazione”. Sul futuro Falk esprime un timore e una speranza: se non cambia la politica USA, Israele prevarrà e l’ANP sarà costretta ad accettare una piccola entità senza sovranità, preceduta da spostamenti di popolazione sul territorio per dare meno terra possibile a meno palestinesi possibile. Falk definisce ingiusta questa soluzione e sembra che il suo sia un sincero timore.

La sua speranza è, invece, che accada quanto avvenuto dalla seconda guerra mondiale ad oggi: ha vinto sempre la parte più debole che si è avvalsa dei benefici della dimensione morale e legale di cui essa era portatrice e che ha prevalso sulla forza. Cita come esempi il Vietnam e l’Afghanistan con i Russi (io aggiungerei anche oggi con la coalizione). L’opinione di Falk è apprezzabile ma utopistica: da buon docente di diritto internazionale ripone troppa speranza nel diritto. E’ facile obiettare innanzitutto che è Israele che detta l’agenda agli USA e non viceversa; in secondo luogo i due esempi dimostrano che la vittoria è stata ottenuta con le armi e, in particolare col Vietnam, il mondo tutto parteggiava per i Vietcong. I combattenti palestinesi sono invece chiamati terroristi e a Israele è concessa impunemente una strage di civili come Piombo fuso.

Sulle prospettive è molto interessante la lettura dello scambio di mail tra Finkelstein (quello del libro citato) e Philip Weiss, due ebrei statunitensi che si confrontano, il primo a favore della soluzione dei due stati, il secondo per lo stato unico. I due sono amici, hanno visitato assieme Gaza e Weiss in particolare è molto attivo sul fronte BDS. Lo scambio di mail risale a Giugno di quest’anno e l’Associazione di amicizia italo palestinese onlus l’ha messo in rete. Manca il tempo per citare i passi più interessanti (merita una lettura integrale) e posso così riassumere. I due sono d’accordo sulla analisi della situazione ma giungono a conclusioni divergenti. Finkelstein che pure riconosce l’imbroglio di Oslo e la mala fede di Israele vede la soluzione dei due stati come la sola praticabile perché sorretta dal diritto internazionale e parla genericamente della necessità di costringere Israele al ritiro dai territori occupati nel 1967. Weiss, dichiaratamente antisionista, contesta la praticabilità sul terreno di questa soluzione ed auspica uno stato unico e democratico, consapevole dei tempi lunghi necessari.

E’ facile obiettare al primo che la situazione di fatto creata sul terreno dalla colonizzazione impedisce la nascita di uno stato degno di questo nome; al secondo che lo stato unico impone ad Israele una totale inversione di tendenza della società. Entrambi poi sono in palese difficoltà sui profughi: si parla di ritorno di una parte, senza dire dove, e di indennizzo per gli altri.

Personalmente ritengo praticabile ormai solo la soluzione di un unico stato, anche se sono pessimista sul recupero della involuzione della società israeliana. Andando in quel territorio dal 1988 sono stato testimone dello smantellamento delle organizzazioni pacifiste di massa: da Peace Now a Peace Yesterday, per dirla con Warschawsky.

Il progressivo spostamento a destra di Israele danneggerà la sua immagine nel mondo e lo isolerà in un contesto mediorientale che, viceversa, assiste alle cosiddette primavere arabe. La crisi economica che colpisce anche Israele potrebbe favorire un conflitto di classe all’interno della società israeliana che potrebbe portare a una convergenza di interessi tra palestinesi e strati poveri ed emarginati israeliani. Se invece dovesse favorire, come sembra stia avvenendo, l’emergere di tendenze xenofobe ed ancora più razziste, non vedo soluzioni a breve, al di fuori di un generale stravolgimento dei rapporti di forza nell’area.

I Palestinesi sceglieranno liberamente gli strumenti di lotta e di resistenza che riterranno.
Noi appoggeremo la loro lotta, nella consapevolezza che tutti gli strumenti di resistenza sono legittimi, senza cadere nel consueto vizio della sinistra di interferire, che è cosa diversa dal diritto di critica e di opinione. Nel frattempo va rilanciata e potenziata la campagna BDS così come l’attività di controinformazione per contrastare la propaganda israeliana.

Ugo Giannangeli,7 luglio 2012, per la “Tre giorni” di BDS e ISM Italia