La repressione in Bahrein continua. L’articolo che vi proponiamo di seguito – tratto da osservatorioiraq – si occupa degli arresti e delle condanne che continuano a colpire ogni oppositore e chiunque sia impegnato sul fronte dei diritti umani e democratici. Intanto il sangue continua a scorrere nelle piazze. Nei giorni scorsi un ragazzo di 16 anni è morto per le percosse subite dalla polizia durante una manifestazione alla periferia di Manama in occasione della Giornata mondiale di Quds (Gerusalemme).

Di tutto ciò si parlerà sabato prossimo (ore 15,30) al Campo di Assisi, dove interverranno il parlamentare del Bahrein, Farideh Gholoum e la prof.ssa Intissar Masri, segretaria del Centro italo-arabo Assadakah.

Coinvolgimento in attività illegali. Incitamento all’assemblea. Organizzazione di manifestazioni non autorizzate attraverso le reti sociali. Questi gli ultimi capi d’accusa contro Nabil Rajab, direttore del Bahrain Centre for Human Rights.

Gli ultimi di una lunga lista e che lo hanno portato all’ennesima condanna. Tre anni di carcere, dice la sentenza di primo grado firmata dal tribunale civile di Manama il 16 agosto scorso.
Tre anni che si sommano ai tre mesi comminati dallo stesso tribunale il primo di luglio scorso per un tweet contro il primo ministro del piccolo regno arabo. L’udienza di appello era fissata per lo stesso 16 agosto, poi riaggiornata al 23 agosto prossimo.

Un mese di Ramadan pesante, per gli attivisti bahreiniti. Un mese tristemente in linea con l’ultimo anno e mezzo di rivoluzione.

Il 14 agosto la Corte d’Appello avrebbe dovuto ascoltare i testimoni a favore per poi esprimersi sul caso dei 13 oppositori politici e attivisti condannati a pene comprese tra i cinque anni e l’ergastolo. Avrebbe, perché, senza addurre alcuna motivazione, il tribunale ha deciso di rinviare il dibattimento al 4 settembre.

Un processo apertamente iniquo: dopo l’appello presentato dagli accusati nell’ottobre 2011, la revisione del processo e della sentenza comminata da un tribunale militare, è arrivata solo nell’aprile scorso. Nonostante la Corte di Cassazione avesse all’epoca accolto il ricorso e rigettato il giudizio militare, nessuno dei detenuti è stato liberato, in attesa di giudizio, né sono state prese in considerazione le dichiarazioni degli accusati che lamentavano torture e confessioni estorte con violenza.

Fino ad oggi, ai convenuti non è stata data la possibilità di testimoniare, così come è stata data disposizione affinché alle udienze non prendano parte né i media, né gli osservatori internazionali, né tanto meno le famiglie dei carcerati.

Di nuovo in carcere anche Zainab al-Khawaja, figlia di Abdulhadi al-Khawaja, detenuto condannato all’ergastolo, sopravvissuto ad uno degli scioperi della fame più lunghi e duri che la storia possa ricordare.

Zainab è al suo quinto arresto dallo scorso aprile, questa volta con l’accusa di aver strappato una foto del re durante un fermo.
Ferma in mezzo ad una piazza di Manama, con una gamba ingessata a causa delle lesioni causatele dallo scoppio ravvicinato di candelotti lacrimogeni durante una manifestazione, protestava da sola per il rilascio del padre.

Arrestata e condotta al comando di polizia, è in cella dal 2 agosto scorso in attesa di sentenza, fissata per il 28 di questo mese.
A prendere posizione sulla situazione in Bahrein in questi giorni sono state 38 ong, tra cui Front Line Defenders, da sempre schierata al fianco degli attivisti bahreiniti, il Bahrain Center for Human Rights e il Gulf Centre for Human Rights, con un comunicato congiunto in cui chiedono il rilascio immediato e incondizionato di tutti i cittadini arrestati per aver esercitato il proprio diritto alla libertà di espressione e all’assemblea pacifica, nonché il rispetto della Dichiarazione delle Nazioni Unite per la difesa dei diritti umani del 1998, e dei trattati internazionali per i diritti umani già ratificati dal Bahrein, inclusa la convenzione internazionale per i diritti civili e politici.

Al coro di voci indignate, si è aggiunta la scorsa settimana una cordata di organizzazioni e associazioni internazionali per la difesa dei diritti umani, prima fra tutte Amnesty International, che – senza mezzi termini – definisce la condanna di Nabil Rajab come ‘un giorno nero per la giustizia’.