Intervista a Ilan Pappè: «L’obiettivo sionista era fin dall’inizio quello di ottenere il più possibile della Palestina, con il minor numero possibile di palestinesi».

Ilan Pappè è un accademico e attivista israeliano. È docente all’Università di Exeter (UK) ed è ben noto per essere uno dei “Nuovi Storici” israeliani, che riscrivono la narrazione sionista della situazione israelo-palestinese. Ha più volte pubblicamente accusato e condannato le politiche israeliane di pulizia etnica della Palestina e l’occupazione israeliana, nonché il regime di apartheid. Ha anche sostenuto la campagna di boicottaggio Boycott, Divestments and Sanctions (BDS), richiamando la comunità internazionale affinché si mobiliti contro le politiche sioniste israeliane.

Attivisti dell’International Solidarity Movement hanno avuto l’opportunità di discutere con il professor Pappè della pulizia etnica della Palestina, delle politiche e della società israeliana e del ruolo della comunità internazionale e degli attivisti in Palestina; è risultata un’intervista in tre parti, che verranno pubblicate sul sito dell’ISM nelle prossime settimane.
Questa è la prima sezione: la pulizia etnica della Palestina.

ISM: Nel suo libro La pulizia etnica della Palestina (Fazi editore, 2008) e in suoi diversi discorsi, ha dichiarato che la politica di Israele in Palestina potrebbe essere qualificata come una politica di pulizia etnica. Questa strategia è cambiata o la pulizia etnica continua tuttora? E se sì, in quale modo?

Prima di scegliere il titolo del mio libro La pulizia etnica della Palestina, ci ho riflettuto molto perché conoscevo le connotazioni di tale titolo e mi rendevo conto che per troppe persone sarebbe stato troppo radicale. Mi ricordo che anche il mio editore aveva delle riserve. Poi ho controllato il sito del dipartimento di Stato americano a proposito della pulizia etnica e della descrizione di che cosa fosse, e questo calzava perfettamente con ciò che stava e sta succedendo in Palestina. La descrizione, non solo parla di un atto di espulsione ma anche delle sue implicazioni legali, che sono nel caso specifico, un crimine contro l’umanità. Dice anche in maniera molto chiara che l’unico modo per compensare una pulizia etnica è domandare alle persone che sono state espulse se vogliono ritornare o meno.

La seconda parte della vostra domanda, la pulizia etnica è ancora in atto o no? Sì, penso che sia proseguita nel tempo, con diversi mezzi, ma sì, è continuata. Tuttavia, l’ideologia e la strategia sionista non sono cambiate dagli inizi. L’idea era: «Vogliamo creare uno stato ebraico in Palestina, ma anche una democrazia ebraica». Pertanto, i sionisti necessitano perennemente di una maggioranza ebraica. Ora, questo può essere raggiunto trasferendo immigrati ebraici in Palestina, ma non ha funzionato: il popolo ebraico è rimasto la minoranza. Hanno sperato che i palestinesi sarebbero partiti, per una qualche ragione, ma ciò non è accaduto. Quindi, la pulizia etnica è stata l’unica vera soluzione dal punto di vista sionista, non solo per ottenere il controllo della Palestina, ma anche per avere una democrazia ebraica anche con una minoranza molto limitata. Nel 1948 i leader sionisti hanno pensato che ci sarebbe stata la sola imperdibile storica opportunità per risolvere il problema di essere una minoranza in una terra dove dovevano costituire la maggioranza.

La pulizia etnica è un’operazione enorme, che di solito avviene in tempo di guerra, pertanto non è sempre possibile sapere come terminarla. Alla fine del 1948 i leader sionisti avevano l’80% della terra che volevano (corrispondente a Israele senza la West Bank e la striscia di Gaza), e lì il popolo ebraico costituiva l’85% della popolazione, più una piccola minoranza che noi oggi chiamiamo i palestinesi del ’48. Non espulsero questi palestinesi, ma gli imposero la legge militare, che per me è un’altra forma di pulizia etnica. Non ci si libera fisicamente di loro, ma non gli vengono garantiti i diritti di base. In questo caso, non si trattava di espropriarne le terre sradicandoli, ma piuttosto facendoli prigionieri, alieni nella loro stessa terra. Nel 1967 l’apartheid territoriale in Israele crebbe. A quel punto volevano il resto dei territori della Palestina storica. Li ottennero nella guerra dei Sei Giorni. Poi fecero qualcosa di assurdo. Nel 1948 esiliarono circa un milione di palestinesi dalla loro terra e ne re-incorporarono 1 milione e mezzo nel 1967 (quelli che vivevano nella West Bank e nella striscia di Gaza). Quindi, ancora una volta, ebbero problemi di democrazia a maggioranza ebraica. I palestinesi tornarono a essere una minaccia demografica.

Anche nel 1967 vennero espulsi palestinesi, principalmente di Gerico, Betlemme, Gerusalemme, Nablus, Qalqilya, ma non siamo a conoscenza del numero effettivo. Per comprendere la pulizia etnica che seguì, dobbiamo osservare come risolsero i loro problemi nel 1967. La guerra fu una vittoria schiacciante per Israele perché conquistò la terra che avevamo da sempre voluto, la terra delle antiche città bibliche (come Gerico, Hebron e Nablus). Non espulsero i palestinesi ma al tempo stesso non gli diedero una cittadinanza. Il problema è che colonizzarono il resto della terra, negando la cittadinanza ai nativi e poi dichiararono al mondo che volevano la pace. Quindi ciò che fecero, e che fanno tuttora, è stato mentire a sé stessi e al mondo a proposito delle loro intenzioni. L’intero processo di pace è stato solo una copertura.

Dunque che fare con questa minaccia demografica? (Ci sono ora circa 5.5 milioni di palestinesi nella regione della Palestina storica). Io la definisco pulizia etnica in diverse forme. Alcuni palestinesi persero le proprie case (tra il 1967 e oggi una media che varia da 300.000 a 400.000 palestinesi sono stati espulsi individualmente). Venivano espulsi oppure quando viaggiavano all’estero, per esempio con un viaggio di lavoro a Roma, se non facevano ritorno entro un anno, perdevano il loro diritto al ritorno. Anche nel caso in cui tornavano entro l’anno e poi lasciavano di nuovo il paese, seppur per pochi giorni, perdevano il diritto al ritorno. È difficile descrivere la pulizia etnica perché riguarda solo individui, e con molti hanno avuto successo. Poi hanno espulso i palestinesi dalle zone bibliche in cui volevano risiedessero solo ebrei, come nell’area della “grande” Gerusalemme, in cui molte persone vennero forzate a diventare palestinesi dei Territori Occupati dopo l’occupazione del 1967.

La pulizia etnica non ha avuto luogo solo nella West Bank o nella striscia di Gaza. Ad esempio in Galilea i palestinesi non erano autorizzati a sviluppare le loro città o villaggi. A volte non c’è nemmeno il bisogno di espellere persone qualora gli venga impedito di espandersi, di costruire le proprie infrastrutture, di avere un lavoro decente. Infatti, molti palestinesi lasciarono la Galilea a causa delle politiche di ebraicizzazione. C’è anche la pulizia etnica dei Beduini nel sud (Negev). Per il mese prossimo (giugno 2013), Israele ha pianificato l’espulsione di 30.000 beduini dalle loro terre e case, per assegnarli ad alcuni centri speciali, simili alle riserve degli indigeni americani. Quello a cui ci troviamo di fronte è una pulizia etnica che continua dal 1948.

Come è possibile risolvere il problema di un paese che vuole essere allo stesso tempo ebraico e democratico? Come è possibile mantenere una situazione attraverso la quale i cittadini risultano essere quelli di un popolo solo? È possibile tollerare un numero minimo di palestinesi, e questo è buono per Israele perché va a sostegno della loro facciata di essere l’unica democrazia del Medio Oriente. Tuttavia, un 20% di palestinesi (che è la percentuale di palestinesi che vivono in Israele) è ancora eccessiva, poiché potrebbero ipoteticamente avere un impatto nel sistema politico israeliano. Dunque, come procedere? Nel 1948 era l’espulsione dalle loro case, ora adottano un sistema diverso. Creano un sistema di apartheid all’interno di Israele e fanno della West Bank un territorio in cui la gente non ha una cittadinanza.


ISM: quali sono i concreti ostacoli amministrativi e legali per i palestinesi che vivono in Israele?

I palestinesi di Israele sono discriminati su tre livelli. Il primo è legale. Per legge, il fatto di essere palestinese significa avere meno diritti rispetto a un ebreo. La legge più importante a questo proposito è quella che regola il possedimento di terre. Per la legge israeliana, infatti, la terra in Israele appartiene alle persone ebree, e solo a loro. In quanto non-ebreo, non ti è concesso commerciare o acquistare terre, e stiamo parlando del 93% della terra. Questo è il motivo per cui i palestinesi non possono crescere né espandersi in Israele. Altre leggi non menzionano specificamente i palestinesi, e questo è un vecchio trucco israeliano. La legge dice che se non si è prestato servizio militare, non è possibile ottenere pieni diritti, di studente ad esempio. Non potrai ottenere aiuti finanziari per gli studenti, sussidi sanitari, sicurezza sociale, ecc., tutte queste cose che negli stati occidentali vengono garantite ai cittadini, in Israele sono accessibili solo con la condizione di aver prestato servizio militare. Il trucco sta nel fatto che gli israeliani non vogliono che i palestinesi facciano parte dell’esercito, e comunque qualora volessero non sarebbero autorizzati. C’è un’eccezione quando si tratta degli ebrei ortodossi, che non prendono parte al servizio militare ma non vengono discriminati poiché provvedono al budget israeliano. Gli ebrei ortodossi prendono i soldi che lo stato avrebbe speso se avessero partecipato al servizio militare. Pertanto, la legge israeliana parla da sola dicendo che se sei palestinese, sei un cittadino di seconda classe.

Il secondo ostacolo è la discriminazione politica. Con questo intendo che tutti i cittadini sono uguali. Tuttavia, quando si nota la spesa che viene destinata a scuola, strade, infrastrutture, i palestinesi ricevono la metà o meno rispetto a quello che ricevono gli ebrei. Qui in Israele è possibile vedere se un villaggio è palestinese semplicemente osservando la qualità delle sue strade. È ancor peggio di quanto si possa immaginare, perché è possibile migliorare la qualità del villaggio solamente collaborando con Israele.

Il terzo livello è il peggiore. Riguarda l’incontro quotidiano dei palestinesi con chiunque rappresenti la legge in Israele. Molti anni fa abbiamo condotto una ricerca a Haifa, che in tribunale, per le stesse accuse, i palestinesi sempre, sempre, prendono il doppio della pena rispetto agli ebrei.

A questi tre livelli aggiungo altri due appunti. I palestinesi sanno che rappresentano una minaccia demografica agli occhi delle autorità israeliane. Vivono le loro vite sapendo che il paese in cui vivono li considera un problema e vorrebbe liberarsene. Ciò non solo riguarda la discriminazione che devono affrontare, perché sono soprattutto distrutti psicologicamente dall’interno. Non stiamo nemmeno parlando di immigrati, ma di persone che vivono nella loro stessa terra (homeland). Questo è proprio quello che Israele non capisce, che il popolo ebreo era nella stessa condizione quando l’antisemitismo si è diffuso in Europa.

Infine, se volessimo paragonare questa situazione a quella del Sudafrica, è vero che qui non abbiamo un “petit-apartheid” (politica ufficiale di segregazione razziale), quello che crea panchine e bagni separati per bianchi e per neri. Qui, potrebbe non essere evidente per l’opinione pubblica, ma è altrettanto negativo, come quello in Sudafrica.

ISM: Il team di ISM ad Al Khalil (Hebron) ha osservato il forte aumento di arresti di massa di bambini, nel corso dell’ultimo anno. Ad esempio, 27 bambini di età compresa tra 7 e 16 anni sono stati arrestati il 20 marzo scorso mentre andavano a scuola. Quali crede che siano le ragioni specifiche dietro a queste azioni ingiustificate?

IP: Innanzitutto, questa non è una novità. Mi ricordo che ho scritto un articolo qualche anno fa per la London Review of Books dal titolo Children in Prisons. Ricordo anche quando sono stato alla prigione di Ofer, vicino a Ramallah, dopo che un giornalista mi aveva detto di andare lì e osservare il tribunale dei minori. Vidi molti bambini tutti insieme, ammanettati e con indosso uniformi carcerarie arancioni, con una giudice che rapidamente li accusò di aver tirato pietre o qualcosa di simile.

La politica di arresti di minori si è intensificata negli ultimi anni, e credo che ci siano due ragioni specifiche. In primo luogo, per i servizi segreti israeliani è sempre più difficile avere informatori palestinesi. Questo è direttamente correlato agli arresti di minori e arresti non motivati in generale: la ragione principale per cui i servizi segreti vogliono effettuare arresti senza processo è perché ciò dà loro la possibilità di dire alla persona arrestata che se vuole essere liberata, deve lavorare per i servizi segreti. Nessuno conosce i numeri reali, ma il meccanismo funziona. E non c’è bisogno che sia una collaborazione complessa, forse la persona dovrà solo riferire ogni due settimane una relazione su qualcosa di sospetto. E non c’è niente di più forte di minacciare una famiglia arrestandone i figli. Se si osservano i grafici di arresti di minori dal 1967, si vedrà che è fluttuante – questo potrebbe essere correlato al numero di collaboratori su cui Israele può contare.

Il secondo punto è che i palestinesi hanno cambiato la loro strategia dal ’67, in favore di una resistenza non-violenta/minimamente violenta (se si assume che il lancio di pietre sia violento). Questo modo è stato utilizzato durante la prima Intifada, e molti bambini vi hanno partecipato. Poi, durante la seconda Intifada, ci sono stati molti attentatori suicidi e armi, e un minor numero di bambini partecipanti, dunque un minor numero di arresti di minori. Ora, i servizi segreti e militari israeliani hanno l’idea che qualcosa stia bollendo in pentola in Cisgiordania e si stiano preparando per una terza Intifada. È evidente che sarà meno violenta delle precedenti. Lo stato di Israele si sente, o vuole sentirsi, come se fosse già iniziata. È per questo che stanno segnalando costantemente l’aumento del lancio di pietre, da cui la conseguenza automatica di un maggior numero di bambini arrestati e perseguitati. I soldati israeliani, naturalmente, sostengono che il lancio di pietre sia una forma di terrorismo, che mette in pericolo le loro vite. Inoltre, i soldati si sentono umiliati, poiché non possono rispondere brutalmente a questo atto e alla protesta non violenta (anche se poi, effettivamente, lo fanno).

C’è una interessante ONG israeliana chiamata “There’s a Limit”, i cui membri facevano parte dei primi refusenik. Tutti i soldati israeliani hanno un piccolo libro verde di normativa in tasca, chiamato “La guida del soldato”, su come agire in situazioni diverse, e questa ONG ha fatto una copia del libro e lo ha chiamato, “Guida ai crimini di guerra”. Hanno preso tutte le istruzioni del libro vero e le hanno modificate, in modo da mostrare ai soldati che gli viene effettivamente chiesto di commettere crimini di guerra, in particolare contro i bambini palestinesi. Ma i soldati non se ne preoccupano. Se dite loro che l’arresto di un bambino è contro il diritto internazionale, potranno solo dire che il diritto internazionale è antisemita, creato specificamente contro Israele. Sembra che dimentichino che il diritto internazionale è stato creato anche in seguito all’Olocausto.

 

ISM: Lei ha detto in precedenza che l’idea sionista di creare uno Stato ebraico non è cambiata. Che cosa si intende con il termine “Stato ebraico”? Ritiene che l’obiettivo ultimo di Israele sia quello di avere piena sovranità su tutto il territorio della Palestina storica?

L’obiettivo sionista fin dall’inizio era quello di avere il maggior territorio della Palestina con il minor numero possibile di palestinesi. Non c’è una reale differenza tra ciò che noi oggi chiamiamo sionismo di destra e di sinistra. L’unica differenza è che la destra è più esplicita, nel fatto che continuamente ci informano che vogliono prendere sempre più terra ai palestinesi. A loro non interessa se non è il giusto momento storico o se non hanno abbastanza risorse per farlo, o se l’atmosfera internazionale non è propizia. Mentre la sinistra, la sinistra pragmatica, sostiene che non sia sempre possibile annettere terra. Quindi, per esempio, è necessario cercare buoni momenti storici. Alcuni della sinistra dicono che è sufficiente avere il 90% della Palestina storica per gli israeliani, con il restante 10% per i palestinesi, a cui tra l’altro sarebbe negata la cittadinanza israeliana.

Questa è la visione della soluzione a due stati dal punto di vista israeliano. Questa soluzione è nata come idea della sinistra sionista. Hanno detto di dare una piccola parte della Cisgiordania e della striscia di Gaza ai palestinesi e chiamarlo stato, anche se non è neppure collegato territorialmente. Quello che hanno fatto è stato disegnare una mappa dello stato palestinese che mostra dove i palestinesi vivono ora, non un centimetro in più. Se si guarda la mappa della Cisgiordania questo è visibile: Nablus è Nablus, non esistono sobborghi di Nablus. Secondo Israele, se non ci sono palestinesi che vivono lì, lì è Israele, indipendentemente dal motivo per cui non ce ne sono. Eppure, se si ha un insediamento, ci sarà bisogno di un parametro per proteggerlo. La spartizione era già stata affrontata dal sionismo di sinistra nel 1967. I palestinesi possono rimanere dove sono, ma non possono avere più spazio.

ISM: Quindi questa è l’idea che si è sviluppata con gli accordi di Oslo nel 1993, con la divisione della West Bank in tre aree (A, B e C)?

Esatto. Ma questa idea è stata sviluppata, come ho detto, nel 1967 dai sionisti di sinistra, molto prima degli accordi di Oslo. Il grande architetto di tutto questo fu il ministro sionista del Lavoro, Yagel Alon. Nel 1967, Alon non parlava di area A, B e C in particolare, ma, invece, sosteneva che se vogliamo una soluzione dobbiamo dividere la Cisgiordania in due aree, una sotto il controllo israeliano e l’altra sotto il controllo palestinese. Ha detto che non gli interessava se un giorno la zona palestinese sarebbe stata chiamata “stato” – non aveva alcun problema con questo. Il problema è invece il controllo delle aree strategiche della Cisgiordania e delle sue risorse. Israele deve controllare lo spazio aereo e il fiume Giordano e i palestinesi non devono avere nessun esercito per fermarli. L’intero concetto di Oslo, a mio parere, è in realtà nato dagli israeliani nel 1967.

ISM: Nella Cisgiordania occupata, l’appropriazione della terra è un evento quotidiano, soprattutto, ma non solo, in Area C. Vede un parallelo, presente o futuro, con i bantustan del Sud Africa e le riserve dei nativi americani?

Sì. Mi sembra di aver già parlato di questo, ma mi ripeto con un focus diverso.
Gli strateghi israeliani capiscono che non saranno in grado liberarsi fisicamente di tutti i palestinesi, in quanto loro rimarranno dove sono. Così, invece di sbarazzarsi di loro, li mettono in piccole prigioni, in modo che non si sentano parte di Israele. Si portano più ebrei, si colonizza, e per costruire case per loro è necessario espropriare la terra palestinese, perché non c’è terra ebraica da espropriare, e così si demoliscono le case palestinesi. In secondo luogo, si costruisce un muro di separazione tra lo spazio ebraico e quello palestinese, e si espropria ancora più terra, non solo per gli insediamenti, ma anche per creare una zona cuscinetto, in modo che gli ebrei e gli arabi non vivano insieme. Ancora più importante, si prende anche la terra migliore – dove ci sono le risorse idriche, e la qualità del terreno è buona. E si toglie l’acqua buona ai palestinesi per darla ai coloni, e si fa in modo che sulla terra palestinese scorrano solo i flussi di acque di scarto. Così è ancora più crudele – non solo prendo la vostra buona acqua, ma vendo anche l’acqua non utilizzabile al doppio del prezzo. Il che è semplicemente terribile. E come ho detto prima, sì, credo che ci sia un chiaro parallelismo tra la situazione di oggi in Palestina e i tristi esempi storici dei nativi americani e dell’apartheid sudafricano.

Fonte: International Solidarity Movement

Traduzione a cura di Associazione Zaatar