La presa d’atto dello stallo globale

L’inizio della distensione tra gli Stati Uniti e l’Iran sta aprendo un nuovo capitolo delle relazioni globali. Non è solo un punto di svolta per l’arena siriana ma prelude ad una riconfigurazione dell’assetto del Medio Oriente. In ultima analisi siamo davanti ad un altro passo, seppur modesto, verso un mondo multipolare, entro il quale gli Stati Uniti mantengono tuttavia la loro supremazia.

Lo sfondo del conflitto

La base dell’antagonismo tra l’Occidente e l’Iran rimane la rivoluzione del 1979 che ha avuto un forte impatto anti-imperialista e rimane fino ad oggi una delle più importanti e vere rivoluzioni popolari della regione e forse del mondo. La Repubblica islamica non è, tuttavia, un’espressione autentica e lineare di quella rivoluzione, ma piuttosto una sua rappresentazione nella forma di un governo “clericale”.

Dobbiamo solo ricordare la guerra Iran-Iraq. Con il suo approccio ispirato al “doppio contenimento” Washington ha accuratamente bilanciato il proprio sostegno ad entrambe le parti. La guerra servì ai mullah come strumento formidabile per deviare e piegare la potenza del movimento popolare che emerse durante la rivoluzione.

Prendiamo come ulteriore prova la coppia Rafsanjani e Khatami durante gli anni ‘90. Essi riflettevano gli interessi della nuova élite schiacciata tra le classi popolari, i chierici, e l’oligarchia globale. Il tentativo di trovare un equilibrio tra queste diverse forze fallì.

L’intransigenza dell’impero americano

Dopo il 1989 /91, quando l’egemonia degli Stati Uniti raggiunse il suo picco, Washington era nella posizione che non avrebbe accettato niente di meno che la subordinazione totale. Le proposte di Khatami per un compromesso non trovarono così una sponda. L’impero americano dei neocon e di Bush decise per un’ulteriore escalation. La loro arroganza portava già con sé i germi della sconfitta. Il programma nucleare iraniano aveva una logica chiara e legittima di autodifesa contro il blocco altamente aggressivo Usa-Israele ed il loro monopolio dell’armamento nucleare. A un certo punto un’aggressione militare imperialista sembrava possibile e anche probabile data l’espansione iraniana nella regione, rappresentata dalla costituzione dell’asse Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut. Ahmadinejad era una specie di logico contraltare a Bush.

L’Obamismo

Obama non ha in alcun modo posto fine alla strategia e agli appetiti imperialistici degli Stati Uniti, come suggerivano le vittime dell’Obamania, ma ha dovuto riconoscere, nell’interesse della classe dominante degli Stati Uniti, i nuovi rapporti di forza dopo la semi-sconfitte in Iraq e in Afghanistan. Un attacco militare contro l’Iran diventava sempre più impensabile. Al gruppo di Obama era chiaro che sarebbe stato difficile produrre un risultato favorevole. D’altra parte Israele continuava a premere per l’attacco.

Quando il pantano siriano ha iniziato ad espandersi, gli Stati Uniti hanno testato molti approcci con un solo imperativo: non essere trascinati in un’altra avventura militare che, in un ultima istanza, non avrebbero potuto vincere. A Washington sono ormai convinti che un accordo politico che rispetti parzialmente gli interessi iraniani e russi è necessario. I costi per alimentare l’escalation del conflitto siriano sembrano troppo alti. In questo senso la distensione con l’Iran è un presupposto centrale per i colloqui di Ginevra II. Da Bush ad Obama c’è stato in realtà un enorme cambiamento per quanto riguarda l’Iran. E’ la differenza tra il dominio diretto e indiretto.


Il lato iraniano

E’ importante capire che il fenomeno Ahmadinejad è stato una reazione al fallimento totale della politica di Rafasanjani e Khatami (che rappresentano non una sola linea, ma una coalizione). Il loro tentativo contraddittorio verso la normalizzazione, alla fine, si è rivelato impossibile. C’era la volontà di reintegrare l’Iran nell’ordine mondiale capitalista-imperialista. Si è rivelato invece incompatibile preservare l’indipendenza nazionale ottenuta per la prima volta dal periodo del colonialismo occidentale con l’Impero neocon. Ma c’era anche, dietro al tentativo Rafasanjani-Khatami, il tentativo, rivelatosi impossibile, di procedere verso una democratizzazione parziale e di ottenere un’apertura culturale, pur mantenendo nella sostanza il dominio esclusivo dei chierici (Vilayat-e faqih ).

Ahmadinejad ha rappresentato certamente una reazione di tipo anti-imperialista alla massiccia aggressione imperialista. L’Iran è stato per almeno un decennio l’obiettivo principale delle mire Usa, il leader del cosiddetto “asse del male”. Ma Ahmadinejad ha anche suonato il violino popolare anti-clericale contro i chierici ultra-capitalisti e i loro alleati clericali liberali che si sono dimostrati incapaci di mantenere le loro promesse. Ahmadinejad è stato in grado di far rivivere tra le masse popolari le loro speranze. Indeboliti dalla loro crisi di egemonia i vertici clericale hanno utilizzato Ahmadinejad per riciclarsi. Con il passare degli anni questo esperimento si è rivelato anch’esso un fallimento.

Nel 2009 un movimento di massa democratico venne a galla chiedendo riforme. In effetti esso metteva in discussione tutta la Repubblica islamica. Le richieste formalmente erano simili a quelle delle “primavere arabe” di due anni dopo, ma l’“onda verde” mobilitò soprattutto le classi medie urbane. Diversamente che per i successivi movimenti popolari arabi le masse povere tacquero o addirittura si schierarono con Ahmadinejad, che poté ancora giocare la carta anti-imperialista.

Oggi Ahmadinejad è completamente finito e alla fine ha perso anche il sostegno del leader supremo. Il neo-eletto presidente Rouhani si confronta con un compito simile a quello di Khatami quasi due decenni fa, ma con molto più favorevoli condizioni internazionali data la linea di Obama.

I costi per il programma nucleare sono diventati irrazionalmente alti, e non solo in termini politici. L’ uso pacifico dell’energia nucleare non può essere giustificato da considerazioni puramente economiche in un paese dotato di una delle più grandi risorse di idrocarburi in tutto il mondo. Le sanzioni in corso sono state devastanti data l’incapacità della Repubblica islamica di mettere a punto un modello di sviluppo indipendente dal capitalismo mondiale. La dipendenza iraniana dal petrolio e dal gas è totale — un modello che in America Latina è chiamato spregiativamente “estrattivismo”.

L’accordo trovato in questi giorni è uno scambio ragionevole che riflette l’attuale rapporto di forze. Gli Stati Uniti mantengono la loro superiorità militare totale essendo l’unica potenza col permesso di dare e detenere armi nucleari. L’accordo lascia Israele come unica potenza nucleare nella regione. In cambio la Repubblica islamica riceve una garanzia contro il “regime change” ed il riconoscimento parziale dei suoi interessi come potenza regionale. Si tratta di un compromesso classico. Nessuna delle due parti capitola ma cede parzialmente. Storicamente si tratta di un ulteriore contenimento del potere statunitense, ma gli Stati Uniti ricevono un aiuto per ridisegnare e ricostruire il loro sistema.

Siamo tuttavia solo agli inizi di un percorso, non è possibile dire l’ultima parola. La storia è aperta. Gli approcci geo-politici sono sempre inclini a trascurare i conflitti interni e i rapporti di forza che, alla fine, sono le forze motrici di spostamenti tettonici globali. E’ un grave errore sottovalutare la forza d’urto dei movimenti popolari democratici e sociali che sono al lavoro nel mondo arabo  ed anche in Iran. La linea di condotta autoritaria Assad-Ahmadinejad, alla fine, non è sostenibile. Qualsiasi normalizzazione in Iran evoca forze che vogliono andare ben oltre Rouhani e tendono ad essere incontrollabili.


Siria

Non ci sarà alcun impatto automatico o immediato sulla situazione siriana. Non dobbiamo cadere nella trappola dell’interpretazione secondo cui la guerra siriana sarebbe interamente una guerra per procura. Le forze in lotta all’interno della Siria non sono burattini, anche se i loro movimenti sono pesantemente condizionati da un supporto esterno. Quindi, qualsiasi accordo per porre fine alla guerra avrà bisogno di giocatori forti interni. Ma le pre-condizioni internazionali per il successo dei colloqui di Ginevra II sono sostanzialmente delineate.


E Riyad ?

Forse l’Arabia Saudita emergerà come il perdente principale di questo gioco. Quattro decenni di antagonismo tra Stati Uniti e Iran hanno permesso a Riyad — insieme alla ricchezza petrolifera formidabile — di diventare una potenza regionale. Ma tre nuovi fattori inguaiano la monarchia : a) l’avanzata delle primavere arabe, nonostante l’intervento contro-rivoluzionario di Riyad; b) la  suddetta distensione tra USA e Iran; c) la rivoluzione americana dello shale per l’estrazione di petrolio  che frena in modo significativo il predominio saudita sui mercati petroliferi.

Dovremmo prendere in considerazione anche i problemi interni poiché i sauditi non possono continuare a governare la loro rapida crescita della popolazione di quasi 30 milioni monetizzandola. Il regime di coalizione saudita-wahhabita non è sostenibile anche a causa dell’esportazione del salafismo che sta causando seri problemi all’alleato Statunitense. Una certa dose di settarismo è stata accettata da Washington, che è stata anche impiegata nell’ambito della linea del “caos creativo” Neocon. Ma il tutto è sicuramente sfuggito di mano. Gli Usa vogliono spegnere il fuoco che hanno contribuito ad alimentare. Tuttavia, in Arabia Saudita non c’è in vista alcuna riprogettazione ragionevole né dall’interno né dall’esterno. Enormi difficoltà sono in vista, ed esse costituiscono un grosso punto interrogativo per l’intera regione.

Gli Stati Uniti non vogliono perdere questo importante alleato anche se ??si verificherà un certo declassamento. D’altra parte cercano di offrire delle compensazioni: a) Un sostegno più forte degli Stati Uniti alla giunta militare in Egitto non mancherà di compiacere il regno del petrolio; b) In Libano si potrebbe operare un compromesso ripescando il gruppo di Hariri. (Ma anche qui, Hezbollah non è un fantoccio dell’Iran, anche se Washington chiederà a Teheran di esercitare la sua influenza nella cornice di una ri-configurazione regionale. Nessuno può disarmare Hezbollah per il momento; c) Il nodo gordiano rimane in ogni caso la Siria. Washington non sarà in grado di calmare la furia dei sauditi senza considerare i loro interessi o, almeno, offrire loro qualcosa in cambio — ciò che resta difficile immaginare dato il continuo antagonismo Riyadh-Teheran.


Sullo sfondo

Una cosa, però, tutti i giocatori sia regionali che globali, condividono pienamente: la sfiducia e il disprezzo per le masse popolari e la loro capacità di intervenire sul corso della storia. Credono di essere in grado di fare la guerra o di promuovere la pace in base agli interessi delle loro élite magari coi compromessi necessari. Questo è quello che stanno facendo in questo momento in Siria.

Per tutti costoro, gli interessi sociali e democratici delle masse popolari, ovvero ciò da cui tutto è iniziato, sono privi di interesse. La continuazione della guerra andrà ancora di più a scapito delle masse popolari. Ma la lotta per le rivendicazioni democratiche e sociali continuerà, speriamo trovando forme più adatte.

Sin dal 1989-1991 prevedemmo che l’ordine capitalista-imperialista imposto sul Medio Oriente con il suo centro israeliano era destinato ad esplodere a causa della forza d’urto delle masse popolari. Le continue guerre che agitano la regione possono avere solo un risultato positivo per gli interessi popolari, se esse si trasformano in guerre popolari per il potere popolare. Questo è quello che in parte è accaduto in Libano nel 2006 contro l’aggressione israeliana. Abbiamo insistito che settori dell’Islam politico sarebbero state una delle forme di questa tendenza.

Ma quello che allora sottovalutammo fu la potenza del settarismo comunitario (sunniti, shiiti, il laicismo fondamentalista di tipo francese), che alla fine è stato in grado di dividere il movimento, ponendo gli uni contro gli altri e quindi subordinando i movimenti di resistenza popolare agli interessi degli attori regionali. Questo è ciò che sta accadendo in Siria in questo momento. E questo è ciò che sta aiutando i tentativi delle vecchie élite per far vincere la controrivoluzione.

Perciò, paradossalmente, dobbiamo sostenere qualsiasi accordo che porti ad un cessate il fuoco fermando una guerra che non può più avere un esito positivo dal punto di vista delle esigenze originali del movimento popolare. Allo stesso tempo, sappiamo che i lupi del mondo e quelli regionali vorranno dividersi la torta tra di loro.

In primo luogo il problema del settarismo religioso e il connesso conflitto tra Islam politico e laicità devono essere risolti con un raffreddamento dei contrasti. Al centro ci dev’essere necessariamente una base d’intesa anti-imperialista tra le componenti del movimento popolare, quella islamista, quella laica di sinistra, come pure tra shiiti e sunniti, il tutto in difesa degli interessi democratici e sociali delle masse popolari.

Solo dopo che questa tappa sia stata realizzata un nuovo assalto rivoluzionario sarà possibile anche sotto forma di guerra popolare imposta da un intervento imperialista. Per il momento, però, una tregua è necessaria.

 

Traduzione a cura della redazione