I cristiani palestinesi contro l’apartheid israeliano

Nel 2012, l’ambasciatore israeliano negli USA, Michael Oren, firmò un editoriale per il Wall Street Journal in cui affermava che i “Cristiani [di Gaza e della Cisgiordania] condividono le medesime difficoltà degli altri cristiani residenti nella regione”.

Il diplomatico cercava così di trarre vantaggio dai recenti sviluppi della situazione mediorientale, proprio come ha fatto Netanyahu di fronte all’ONU, ripetendo come un mantra che “Hamas e ISIS erano la stessa cosa”: in tal senso, l’allusione al fatto che i cristiani palestinesi siano perseguitati dai musulmani, avanzata da Oren, fa parte di una strategia consolidata.

Non è la prima volta che Israele e i suoi sostenitori tentano di usare i cristiani palestinesi per meri fini di propaganda. È già successo nel 1997, e durante il primo mandato di Netanyahu, quando i media israeliani citarono fonti governative per riportare la notizia di presunte “brutali e reiterate persecuzioni” ai danni dei cristiani nei territori sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese.

In un articolo per l’Arab Studies Quarterly, pubblicato l’anno successivo, Donald Wagner scrisse che i cristiani sionisti collaboravano con il portavoce del primo ministro “per esagerare e politicizzare le presunte persecuzioni ai danni dei cristiani e farle circolare sulla stampa internazionale”.

Sono passati quasi vent’anni, ma la strategia non cambia. Questo, nonostante molti studi condotti negli ultimi anni denotino come la diminuzione della popolazione cristiana dipenda in massima parte dalle condizioni economiche e politiche imposte dall’occupazione israeliana e dal regime di apartheid.

Nel 1993, l’88% dei cristiani palestinesi giustificava la richiesta di espatriare con ragioni economiche. Nel 2006, tre quarti dei cristiani palestinesi intervistati dichiarò che alla base della scelta di emigrare c’erano la disoccupazione e le difficili condizioni politiche. In un altro sondaggio condotto a Betlemme nello stesso anno, il 78% dei cristiani affermò che “l’aggressione israeliana e l’occupazione costituiscono le cause principali dell’emigrazione”.

Ancora, un sondaggio del 2008 sulle cause dell’emigrazione evidenziò che per un cristiano su 3 queste siano da ravvisarsi nella “mancanza di libertà e sicurezza”, per 1 su 4 nel “peggioramento delle condizioni economiche”, e solo lo 0.8% dichiarò di “fuggire dall’estremismo religioso”.

Ma i cristiani palestinesi non si limitano a subire l’apartheid israeliana, tentano anche di resistere e, così facendo, smascherano la strategia sionista del “divide et impera”. Queste azioni si esplicano lungo tre direttrici principali.

In primo luogo, si assiste al tentativo di tornare nelle loro terre e di difenderle, sia in Galilea che in Cisgiordania. Nel 1948, Iqrit – vicino al confine con il Libano – fu al centro della pulizia etnica condotta dalle forze israeliane; agli abitanti fu assicurato il diritto di ritorno, ma la promessa non fu mai mantenuta e le loro case furono distrutte.

A partire dagli anni ’70, gli sfollati hanno ripreso a “celebrare le funzioni religiose nelle loro chiese, nonostante il prolungarsi dell’esilio forzato” e nel 2012 “un gruppo di giovani di Iqrit ha deciso di organizzarsi e intraprendere azioni concrete per riappropriarsi della chiesa del villaggio”.

E i giovani di Iqrit non sono i soli: ad aprile, una famiglia di cristiani palestinesi ha tentato di celebrare un battesimo in una chiesa di al-Bassa, “che oggi fa parte del nucleo industriale della città ebraica di Shlomi”, ed è stata aggredita dagli abitanti. Il sindaco di Shlomi, Gabi Naaman, ha descritto i tentativi di celebrare le funzioni nella chiesa come “violazioni”.

Intanto, a Beit Jala, parte della vasta area metropolitana di Betlemme, i cristiani palestinesi sono in prima linea per protestare contro le politiche di confisca della terra da parte di Israele e hanno organizzato molte manifestazioni pubbliche, tra cui una messa settimanale celebrata nella zona a rischio.

In secondo luogo, i cristiani palestinesi cittadini di Israele stanno resistendo contro i tentativi di frammentazione e divisione portati avanti dallo stato israeliano, che ha tentato di obbligare anche gli “arabi cristiani” a svolgere il servizio militare.

Qualche giorno fa, il primo ministro Netanyahu si è recato in visita a Nazareth Illit (città a maggioranza ebraica fondata sulla terra espropriata di Nazareth) per partecipare a un evento dell’Israeli Christian Recruitment Forum, un gruppo guidato da Padre Gabriel Nadaf.

Qualche mese fa, i rappresentanti della Chiesa nazionale ortodossa avevano denunciato il tentativo di reclutare cristiani palestinesi per l’esercito israeliano, dichiarando che chi incoraggia i giovani cristiani a unirsi alle fila dell’esercito di occupazione non rappresenta la chiesa e non rappresenta i cristiani, che in massima parte rifiutano l’idea stessa di reclutamento a fini militari.

Tutti i giovani palestinesi hanno organizzato forme di resistenza all’obbligo del servizio militare, scatenando misure repressive da parte dello stato, che prevedono addirittura gli arresti domiciliari per i post pubblicati sui social media.

In terzo luogo, i cristiani palestinesi hanno tentato di formulare elaborazioni teologiche che contrastino l’occupazione israeliana, sia per le loro comunità che come canali di comunicazione con i cristiani in occidente.

Un esempio in tal senso è costituito dal documento Kairos Palestina, redatto da attivisti locali, membri del clero e teologi, che si rivolge ai fratelli palestinesi, agli israeliani, alle “sorelle e ai fratelli cristiani di tutto il mondo”, lanciando un appello di solidarietà.

A cinque anni dalla pubblicazione del Kairos Palestina, si è tenuta una conferenza a Betlemme, che ha affrontato i temi della teologia, del diritto alla difesa, dell’occupazione giovanile, della resistenza popolare, del turismo religioso e della solidarietà.

Non può essere dimenticato, poi, il lavoro svolto dal Centro Ecumenico di Teologia della Liberazione Sabeel e, più recentemente, dagli Evangelici di Christ at the Checkpoint. Il primo è stato fondato sulla base delle elaborazioni del teologo palestinese Naim Ateek, il secondo è diretto dal giovane studioso cristiano palestinese Munther Isaac.

Tentando di ribadire il diritto a tornare nella loro terra contro la colonizzazione sionista, resistendo ai tentativi di dividere e conquistare, oppure inserendo le azioni comuni di resistenza in un contesto teologico, i cristiani palestinesi reagiscono alla “crisi” imposta dall’apartheid israeliana in moltissimi modi diversi. Così facendo, evidenziano la disonestà della propaganda portata avanti dalle lobby israeliane e la vera natura della politiche di Israele, che percepisce i palestinesi, siano essi musulmani o cristiani, come membri della stessa popolazione colonizzata, da controllare, confinare e espellere.

da InfoPal
fonte: Middle East Monitor
Traduzione di Romana Rubeo