Le alterne vicende della Grande Guerra Mediorientale

Le truppe del Califfo, al momento respinte nella città siriana di Palmira, hanno avuto invece la meglio nell’irachena Ramadi. Le vicende che hanno portato a questo esito, ed i movimenti politici e militari che lo accompagnano, spiegano una volta di più la complessità del conflitto in corso.

Ramadi non è una città qualunque. Con i suoi 500mila abitanti è il capoluogo del governatorato di al Anbar (in verde nella carta sopra), quello dove gli occupanti americani subirono le peggiori sconfitte ad opera della Resistenza, quello dove i soldati a stelle e strisce si accanirono con maggior ferocia, facendo di Falluja (il secondo centro della provincia) la città martire per eccellenza.

Il territorio di Al Anbar (138mila Kmq, un terzo dell’intero paese) è da tempo in buona parte controllato dall’Isis. Un controllo puntiforme, che si esercita  naturalmente nelle forme che si addicono ad una regione in tanta parte desertica. Ora anche il capoluogo – che si trova a poco più di 100 km da Baghdad – è nelle mani delle milizie jiadhiste.

Come è stata possibile questa conquista nel momento in cui le forze dell’Isis sembravano, almeno in Iraq, sulla difensiva? La spiegazione sta principalmente nella natura religiosa del conflitto, nella cosiddetta fitna che oppone gli sciiti ai sunniti, sommata all’incredibile debolezza dell’esercito iracheno.

In un certo senso la presa di Ramadi è stata un po’ la replica di quella di Mosul del giugno 2014. Anche qui molti sunniti sono passati con il Califfato, mentre le truppe del governo di Baghdad si sono ancora una volta ingloriosamente dileguate. Impressionante la rapidità dell’azione: in soli due giorni i miliziani hanno preso in mano tutti i centri del potere governativo della città.

Fonte: Dipartimento della Difesa Usa

L’equilibrismo americano – lotta all’Isis, ma con un occhio sempre vigile ad impedire un rafforzamento dell’Iran attraverso il ruolo delle milizie sciite – ha subito un indiscutibile smacco. Ora, con il senno di poi, pare che la Casa Bianca abbia deciso un cambio di linea. E l’ambasciatore americano a Baghdad avrebbe dato disco verde al premier al Abadi per l’impiego delle forze sciite a Ramadi, purché queste siano poste formalmente sotto il comando del governo iracheno.

Come si può ben capire il nodo è politico. Gli Stati Uniti accettano di collaborare con l’Iran contro l’Isis, ma temono che il ruolo di Teheran diventi troppo ingombrante. Al tempo stesso è chiara l’impossibilità di sconfiggere militarmente le forze di al Baghdadi solo con i raid aerei e le azioni di commandos. Da qui, come già avvenuto a Tikrit, la necessità di ricorrere alle milizie sciite, che hanno però obiettivi politici propri e non controllabili da Washington.

Sta di fatto che al Abadi, anche su richiesta del Consiglio provinciale di al Anbar, ha ora ordinato la mobilitazione delle forze paramilitari sciite, che si starebbero già avvicinando alla città forti, a quanto si dice, di almeno tremila combattenti.

Nei giorni scorsi queste forze sono state tenute fuori dalla battaglia non solo per volontà americana, ma anche su precisa richiesta delle tribù sunnite locali, una parte delle quali ha combattuto contro l’Isis con milizie proprie, ma aiutate militarmente dagli Usa. La questione, dunque, è tutt’altro che semplice, dato che nel campo sunnita le milizie sciite vengono viste da molti come un semplice strumento di occupazione da parte iraniana.   

Vedremo se, e quando, le forze anti-Isis tenteranno la riconquista. Di certo le vicende di Ramadi ci confermano quanto sia intricata questa guerra. E ci dicono una volta di più che essa non potrà concludersi a breve. Se le trionfali dichiarazioni del Califfo su un prossimo attacco non solo a Baghdad, ma anche a Najaf e Kerbala (le città sante degli sciiti), hanno un chiaro sapore propagandistico; anche quelle di parte avversa su una prossima riconquista non solo di Ramadi, ma pure di Mosul, non sembrano davvero troppo realistiche.