La Grande Guerra Mediorientale non si ferma: in Siria, Iraq, Yemen e Libia si combatte praticamente senza tregua. Mentre le petromonarchie del Golfo hanno ormai iniziato l’invasione dello Yemen, Francia e Gran Bretagna sembrano sul punto di bombardare la Siria. La Turchia, intanto, sconfina in Iraq per attaccare i curdi del Pkk. Sulla complessa situazione attuale proponiamo ai lettori l’analisi di Alberto Negri, uscita sul Sole 24 Ore del 9 settembre.

L’Occidente è in grado di dare una risposta credibile alla guerra in Medio Oriente? I raid europei in Siria, dove gli Usa non vogliono mettere piede ma solo controbilanciare le forze in campo, sono una tempesta di sabbia sollevata per mascherare un’altra storia sbagliata, come l’Iraq e la Libia. Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna hanno avallato sin dal 2011 la guerra per procura in Siria condotta dai jihadisti e dai loro sponsor turchi e arabi contro Bashar Assad e l’Iran. Ora intervengono per coprire questo fallimento: la fine stessa della Siria, la consegna del Paese ai jihadisti, la sua spartizione in zone d’influenza. L’Isis non è distante da Damasco ma l’aviazione americana non ha fatto nulla per contenerlo dopo la cattura di Palmira mostrandoci invece le immagini della distruzione della città antica. Se i russi e gli iraniani non intervengono a sostenere Assad, il regime crolla e le ondate dei profughi saranno immani.

Come avanza l’Isis in Siria e in Iraq? Il Califfato, scrive il sottosegretario agli Esteri Mario Giro nel suo libro «Noi terroristi» (Guerini 2015), nasce da un’intuizione: invece di attaccare il centro del potere, Baghdad o Damasco, si impadronisce delle città periferiche. Così si forma uno stato: un pezzo di Iraq cui aggiungere un pezzo di Siria, facendo saltare le frontiere tracciate dopo la prima guerra mondiale dagli europei. Questo nuovo stato non è riconosciuto da nessuno ma i jihadisti del Califfato, cui si aggiungono le milizie di al-Qaeda, puntano sulla legittimazione delle masse arabe sunnite: non è un caso che il video di maggiore successo dell’Isis sia quello in cui un bulldozer abbatte un cartello ai confini tra Siria e Iraq con la scritta “Fine di Sykes-Picot”, l’intesa anglo-francese del 1916 per spartire l’impero ottomano.

Stati Uniti ed Europa dicono di non volere cambiare i vecchi confini ma questi nei fatti sono mutati da un pezzo e le potenze regionali si comportano di conseguenza. I profughi arrivano da una frontiera che è già Califfato. È questo uno dei motivi chiave perché le iniziative militari anti-Isis hanno avuto scarso successo: alla guerra degli occidentali manca l’obiettivo politico. François Hollande afferma che Assad se ne deve andare ma il presidente francese non ha la minima idea di chi mettere al suo posto, a meno di non volere riciclare i jihadisti che dice di combattere.

Quando se ne andrà Assad lo decideranno il campo di battaglia e la diplomazia facendo prima i conti con l’Iran e la Russia. Di calcoli sbagliati se ne sono fatti abbastanza: le previsioni errate non sono state soltanto degli arabi e della Turchia di Erdogan, che pensava di far fuori il regime lanciando dal suo confine i foreign fighters e usando i profughi come massa di pressione. Anche di americani e francesi, i cui ambasciatori il 6 2011 andarono a passeggiare ad Hama tra i ribelli, prevedevano che il figlio di Hafez avrebbe compiuto la stessa rapida parabola di Ben Alì, Mubarak e Gheddafi. Gli occidentali hanno decretato la fine di Assad perché colpisce la popolazione civile ma allo stesso tempo vogliono eliminare i suoi nemici senza di lui.

Le contraddizioni sono evidenti. I confini sono labili come le idee, assai vaghe, su quali forze “politiche” possano affermarsi se non quelle dotate di milizie agguerrite. Lo dimostra il fatto, riportato dal New York Times, che i jihadisti di Jabat al-Nusra abbiano sbeffeggiato le truppe addestrate dagli americani: non hanno alcun seguito. Non si parla più neppure dell’offensiva per riprendere all’Isis Mosul. Lo stesso premier iracheno ha detto chiaro e tondo che le uniche forze di cui dispone sono le milizie sciite appoggiate dai Pasdaran iraniani. Dell’esercito iracheno restano malinconiche divise, svuotate di uomini e ideali, come l’unità nazionale del Paese, affondata nel 2003 con l’invasione americana.

Il Califfato ha un obiettivo politico: l’Occidente e i suoi pseudo alleati regionali non ne hanno uno comune. Perché pseudo alleati? Si dice che l’Isis mette in discussione la legittimità di regimi filo-occidentali. In realtà per la Turchia e le monarchie arabe del Golfo il Califfato è lo strumento di una strategia: abbattere Assad e prendersi una rivincita contro il governo sciita iracheno che ha sostituito Saddam, una successione giudicata un inaccettabile regalo a Teheran. Avete mai sentito le monarchie del Golfo lamentarsi per la distruzione del patrimonio archeologico iracheno e siriano, o invocare la protezione delle minoranze? Non si offrono neppure per accogliere profughi siriani.

Questa è in sintesi la situazione che affrontiamo con una buona dose di ipocrisia perché a questi alleati l’Occidente è legato da inestricabili interessi economici. Le potenze regionali vedono le ondate dei rifugiati come un altro mezzo per mettere pressione agli occidentali e coinvolgerli in guerre che favoriranno gli schieramenti più estremisti: dopo l’Iraq anche la Siria sarà svuotata dalla sua borghesia che non ne vuole sapere della loro versione radicale dell’Islam. Con guerre sbagliate come l’Iraq, la Siria e la Libia, americani ed europei hanno contribuito a propagandare il jihadismo e a distruggere gli stati-nazione che avevano creato nell’era coloniale e post-coloniale. La fine di un’epoca si conclude con una tragica mascherata.

Fonte: il Sole 24 Ore del 9 settembre 2015