In Libia solo una guerra per il petrolio?
C’è molto di più. E’ Maurizio Molinari che su LA STAMPA  di oggi segnala come il Paese sia un campo di battaglia geopolitico, in particolare:

«Le milizie di al-Serraji possono contare su armi e militari della Turchia, mentre, sul fronte opposto i maggiori contributi bellici arrivano da Emirati Arabi ed Egitto. E’ uno scontro non solo di potere ma soprattutto religioso perché si contrappongono visioni concorrenti dell’Islam sunnita. Per Ankara la Fratellanza Musulmana è la più pura espressione dell’Islam politico mentre per Il Cairo e Abu Dhabi si tratta di pericolosi terroristi».

Giusta chiave di lettura quella di Molinari, che segnala quindi come la Libia sia un nuovo tassello del più ampio conflitto che dilania il Grande Medio Oriente, conflitto che vede la Siria come epicentro e che oramai, com’era inevitabile, ha trascinato nel suo vortice il Mediterraneo. E qui vien fuori il patetico ruolo dell’Italia — paese subimperialista sovraordinato non solo dall’imperialismo americano ma pure da quello carolingio. L’Italia, nonostante sia il centro geografico del Mediterraneo, mai come ora è stata condannata svolgere il ruolo di comparsa. Il governo prima immagina di camuffare la propria nullità con mosse da avanspettacolo e poi facendo appello ad un’azione (sic?) congiunta dell”Unione europea. Il nulla invoca il niente. La Ue è costretta ad assistere impotente alle mosse altrui e ad aggrapparsi al cessate il fuoco deciso da Putin ed Erdogan. Vedremo se questo sarà rispettato (da Egitto, sauditi ed Emirati) o se invece non assisteremo ad una ulteriore libanizzazione del conflitto con nuovi cambiamenti di fronte.
 
Al riguardo della Ue Romano Prodi scrive oggi su IL MESSAGGERO:

«L’Unione Europea è oggi considerata dagli Usa un pericoloso concorrente nel campo commerciale e un alleato inutile nel campo militare, mentre aumentano le distanze e si moltiplicano le frizioni nel campo strettamente politico. Di fronte a questo mutamento del quadro di riferimento, non è invece cambiata nemmeno di un millimetro la strategia europea. Le divisioni nella politica estera continuano come prima con la conseguenza che, con l’affievolirsi della solidarietà atlantica, viene lasciato sempre più spazio ad altre potenze regionali, anche nei teatri di maggiore interesse per noi. Il caso della Libia è di per se stesso esemplare. Le divisioni europee hanno fatto in modo che il destino di un paese così vicino sia oggi conteso fra Russia e Turchia. Tutto ciò, impensabile anche solo pochi mesi fa, ci deve fare riflettere su come sia difficile dare concreta attuazione al disegno “geopolitico” che è alla base del progetto della nuova Commissione Europea. È infatti impossibile mettere in atto una strategia globale quando non si riesce ad avere un ruolo attivo nemmeno in un ambito regionale».

Detto in parole povere Prodi ci sta dicendo che sul teatro libico-mediterraneo è stato messo a nudo che l’Unione europea è un organismo moribondo, ove si palesa il fallimento del disegno geopolitico di farne un polo imperialistico globale. Non c’è e non ci può essere, tanto più in un orizzonte policentrico, una potenza che non sia anzitutto una potenza militare globale.

Ma torniamo al Grande Medio Oriente. La Libia è un nuovo tassello (non sarà l’ultimo perché tutto il Maghreb rischia di essere trascinato nella mischia) del più ampio conflitto che dilania quell’area.

Ogni analogia va presa con le pinze, ma il Grande Medio Oriente vive la sua “Guerra dei Trent’anni”, il conflitto che devastò l’Europa tra il 1618 e il 1648 e che si concluse con la Pace di Westfalia, da cui sorse la moderna Europa della nazioniEuropa delle nazioni sovrane che l’élite eurocratica ha tentato velleitariamente di seppellire con un terzo tentativo di unificazione; i primi due furono quello napoleonico e quindi quello hitleriano.

Una guerra, quella che dilania l’area, destinata quindi a durare a lungo, e il cui esito finale sarà necessariamente una ridefinizione di mappe a confini, con Stati che spariranno e nuovi che sorgeranno.
 
La Siria, dicevamo, è l’epicentro di questo conflitto. Per la precisione il teatro è quello del Mashrek, la Mezzaluna Fertile, l’ampia zona che va dal Nilo all’Eufrate, che coinvolge dunque paesi come l’Egitto, la Giordania, il Libano, la Siria e l’Iraq e, ovviamente la Palestina.

Un peso in ultima istanza determinante ce l’ha dunque Israele (la principale potenza non solo militare dell’area), il cui disegno strategico (mai negato dai sionisti) è il Grande Israele, che va dal Nilo all’Eufrate, la Mezzaluna Fertile appunto — vedi mappa in alto. Israele fino ad ora si è tenuta ai margini della guerra ma si prepara a dire l’ultima parola, ovvero a gettare sulla bilancia tutto il suo peso quando si tratterà di siglare, semmai questo avverrà, la nuova Pace di Westaflia. In questa prospettiva Israele non può che vedere di buon occhio l’attuale conflitto tra le medie potenze islamiche coinvolte: più di dissanguano più Israele rafforza le proprie posizioni, e più si potrà realizzare in futuro il suo grande sogno espansionista.

Data la posta in palio si capisce come non possano che essere coinvolti sia la super-potenza americana che la Russia putiniana, ma il ruolo decisivo ce l’hanno le medie potenze della regione: Turchia, Iran, Egitto e Arabia Saudita — sbaglia chi le considera solo pedine di USA o Russia. 
 
La Siria appunto — vero e proprio ginepraio come lo fu e molto probabilmente tornerà ad essere il Libano — ove è iniziato lo scontro per l’egemonia nel mondo islamico. Uno scontro duplice: da una parte tra il campo sunnita e quello shiita (con l’Iran capofila di quest’ultimo), dall’altra entro il campo sunnita (con Turchia e Qatar da un lato e Arabia Saudita, Emirati ed Egitto dall’altro).
 
Iniziata in Siria nel 2013 questa nuova Guerra dei Trent’anni, proprio come accadde in Europa, ha visto diversi capovolgimenti di fronte, rotture e momentanee ricomposizioni tattiche di alleanze. Altre ne vedremo. Ma alcune linee di fondo sono già evidenti.

La Siria come Stato nazione unitario e sovrano non esiste più, consiste in uno spezzatino di vari protettorati: una zona in mano al blocco Russia-Iran-Assad, un’altra in mano ai turchi, una in mano ai ribelli guidati dal al-Nusra (oggi Jabhat Fatah al-Sham), un’altra in mano agli americani, vaste zone contese (con l’ISIS ancora in agguato). Una libanizzazione che riguarda anche l’Iraq e spazzerà via domani altri stati della regione. Una libanizzazione, ripetiamo e precisiamo il concetto, che avvantaggia Israele e la superpotenza americana, e pregiudica in modo letale la costituzione di un campo anti-sionista e antimperialista, che quindi andrebbe contrastata con forza.

La Repubblica Islamica dell’Iran invoca un fronte antimperialista ed anti-sionista, ed anzi si considera, oltre che roccaforte di questo campo, la sua prima linea. Sorgono tre domande alle quali è necessario dare una risposta. La prima: si potranno cacciare le potenze imperialiste dalla regione, USA e Israele in testa, senza una generale sollevazione delle masse popolari? La seconda: potrà sorgere una vasto e unitario fronte antimperialista e anti-sionista a guida persiana nel Grande Medio Oriente? E quindi la terza: potrà mai l’Iran avere l’egemonia in questo fronte?

Alle tre domande corrispondono tre no.

Un grande fronte antimperialista potrà infatti sorgere solo ad una essenziale condizione, che entrino in scena le grandi masse oppresse della regione. Piaccia e meno queste sono anzitutto arabe e di fede sunnita. Piaccia e non piaccia esse, per cause storiche profonde, considerano l’Iran un corpo estraneo. Troppo forte e radicata la diffidenza, in certi casi ostilità aperta sia verso il nazionalismo grande-persiano (che i sunniti iracheni bollano come “safavide”), sia verso la “l’empia eresia” shiita — il takfirismo dell’ISIS è solo la forma patologica di questa atavica avversione.

Dice qualcosa o no che il proditorio attacco con cui il Pentagono ha giustiziato Suleimani non ha suscitato tra le masse arabe oppresse alcuno slancio di solidarietà verso l’Iran? Sintomatici, al contrario, alcuni festeggiamenti avvenuti, sia in Iraq che in Siria. Si possono certo biasimare quanto si vuole queste lugubri esultanze, ma queste sono la punta di un iceberg, il sintomo di un dato di realtà a cui non si può sfuggire, e che obbliga i vertici della Repubblica Islamica dell’Iran a riflettere con senso strategico e, secondo noi, a compiere una necessaria autocritica.

E’ stato giusto o sbagliato dare il semaforo verde all’invasione e allo squartamento dell’Iraq da parte della coalizione imperialista capeggiata dagli USA per poi giungere all’abominio di amministrare con essi il Paese in more uxorio? E’ stato strategicamente corretto, all’inizio della guerra civile siriana, invece che adoprarsi per una soluzione politica negoziata con i settori meno oltranzisti della maggioranza sunnita e la sinistra nazionalista siriana, schierarsi armi e bagagli con la minoranza alawita — come del resto Ahmadinejad, quando era ancora al potere a Tehran, sembrava invece suggerire? E’ stata una mossa che ha dato frutti spingere il governo iracheno nonché le milizie filo-iraniane di Shibl al-Zaidi (Forze di Mobilitazione Popolare) a sparare facendo più di un centinaio di vittime contro le enormi manifestazioni di protesta popolare (ancora in corso) culminate nell’occupazione, a Baghdad, della centralissima Piazza Tahrir.

Ergo: sono sicuri, a Tehran, che siano state azzeccate le ultime mosse strategiche e tattiche volute da Suleimani? Detto con parole più chiare: è stato forse perspicace aver fatto leva sulla divisione settaria e confessionale e con ciò, invece di smorzare la “fitna”, di alimentarla? Non corre l’Iran il rischio che ciò si risolva in un boomerang con il rischio che il malcontento interno contro l’austerità — vedi le proteste di un mese fa e quelle attuali per i funerali delle vittime dell’aereo civile abbattuto dai Pasdaran per errore — dilaghi?

Di sicuro queste domande se le stanno ponendo a Tehran, prova ne sia la risposta di molto basso profilo data agli americani dopo l’assassinio di Suleimani, segno inequivocabile che una guerra guerreggiata con gli USA e i loro alleati il regime iraniano non la desidera e vuole evitarla.

La Repubblica Islamica dell’Iran sembra finita in un vicolo cieco. Pare a noi che sia necessaria, e probabile, una doppia svolta, sul piano interno e della politica estera. I prossimi mesi ci diranno che tipo di svolta avremo, se consisterà in un’apertura all’imperialismo americano e alle pressioni della borghesia nazionale o se al contrario, si farà appello alla fine della “fitna” e verrà messo in discussione il modello capitalistico di rapina verso un potere effettivamente popolare.