Si dice che l’esplosione del 4 agosto sia per il Libano un 11 settembre. No, è qualcosa di molto peggio.
Impazzano i tentativi di spiegare come sia accaduta la catastrofe: incidente o attentato? E se attentato, bomba o missile? E chi mai l’avrebbe perpetrato?
Tra i miei amici libanesi nessuno crede alla fatalità, tutti sono sicuri che si sia trattato di un attentato. In un Paese già spappolato dall’antagonismo politico, religioso e sociale, da decenni al centro delle trame più oscure, il complottismo la fa da padrone.
I miei amici, siano essi cristiani o musulmani, sunniti o shiiti, sono tutti certi che dietro a questo attentato ci sia la mano di Israele. Prove non ce ne sono e, come spesso accade in Libano, mai saranno trovate. I miei amici usano la logica: chi poteva avere interesse a far saltare i fragilissimi equilibri sociali, politici e istituzionali libanesi? Chi altri se non Israele poteva avere interesse a destabilizzare in modo letale un Paese che, data la centralità di Hezbollah, si posiziona su una linea geopolitica anti-israeliana?
C’è, al di là di ogni congettura, dell’inevitabile in quanto accaduto: non poteva essere che il Libano non sarebbe stato prima o poi travolto dall’ecatombe della madrepatria, la Siria storica — ne venne staccato infatti, dopo millenni di comunanza, per scellerata decisione dei colonialisti francesi.
L’albero si riconosce dai frutti o, per dirla col razionalismo occidentale, dall’effetto si risale necessariamente alla sua causa. E sull’effetto non ci possono essere dubbi: davvero, adesso, “nulla in Libano sarà come prima”.
La catastrofica esplosione avvenuta al porto di Beirut — 154 morti, 5mila feriti (ed è una stima ancora provvisoria), i quartieri di Beirut in prossimità del porto devastati, 300mila cittadini senza casa. Il sindaco della città ha calcolato che i danni si aggirano attorno ai 15miliardi di dollari, più di un quinto del Pil annuale di tutto il Paese — getta nell’abisso un Paese che era già in ginocchio.
Per immaginare le conseguenze della catastrofica esplosione avvenuta nel porto di Beirut serve infatti riportare una frase che circolava sulla bocca di tanti libanesi prima del 4 agosto: “Non può andare peggio di così”. Invece al peggio non c’è limite.
Il Libano era già ferito a morte dal combinato disposto dell’impatto della guerra in Siria (tanto per farsi un’idea il Libano ospita in condizioni subumane circa 1,5 milioni di rifugiati siriani, un quarto dell’intera popolazione), e della gravissima recessione economica. Già prima del Covid, finita la fase delle vacche grasse, il Pil era crollato l’anno scorso del 4%) aveva già messo in ginocchio il Paese. Il risultato è stato un impoverimento generale della popolazione, in una misura si registrò solo ai tempi della guerra civile (1975-1990). Di qui le massicce proteste popolari dell’autunno e dell’inverno scorso fermate solo dal sopraggiungere della pandemia. L’arrivo della pandemia ha letteralmente fatto crollare l’economia, di qui il default sul debito in scadenza dichiarato dal governo (il primo della storia libanese) nel maggio scorso.
Il Libano entra ora in una fase altamente critica. L’instabilità potrebbe diventare caos. Il caos sfociare in una guerra civile. Il Paese potrebbe diventare, come la madrepatria siriana, terreno di una guerra per procura di dimensione regionale e forse globale.
Lo avevamo detto: la guerra civile in Siria era solo l’inizio di una mediorientale “guerra dei trent’anni”, dalla quale sorgeranno una nuova configurazione geopolitica e nuovi equilibri e assetti tra potenze. Giocoforza dal Libano si doveva passare. Non fosse perché è la più pericolosa spina nel fianco per Israele.
da sollevAzione