Cina: chi è davvero Xi Jinping?

Secondo Mark Wu, giurista ad Harvard, interpretare la struttura sociale cinese come un “capitalismo di stato” potrebbe essere fuorviante.

Vi sono sei elementi fondamentali da prendere in considerazione. 1) il ruolo della Commissione per la supervisione e la revisione dei beni di proprietà statale secondo il Consiglio di Stato (SASAC) che attualmente supervisiona 100 conglomerati statali. 2) Il controllo statale o dei vari governi centrali regionali delle banche. 3) La Commissione della Pianificazione con le sue decisioni risolutive. 4) L’integrazione dei differenti conglomerati su scala mondiale. 5) L’influenza politica sulle cariche economiche principali. 6) La capacità di etero-dirigere le forze del mercato privato che sono state fondamentali e decisive per il grande sviluppo cinese.

E’ molto difficile per gli osservatori occidentali districarsi in questa correlazione di forze economico-politiche in simbiosi o in lotta tra di loro. Uno studioso occidentale che ha vissuto a lungo in Giappone, Vittorio Volpi, ha sostenuto a tal riguardo che il dominio della mano visibile politica sul mercato avvicina i modelli nazionalisti corporativisti nipponico o sudcoreano più alla Cina di Deng Xiaoping che alle strutture sociali individualistiche occidentali. La comprensione occidentale del modello cinese è stata inoltre messa a dura prova dal cosiddetto “fallimento sulla Cina”. Gli analisti americani erano infatti certi che lo sviluppismo di Deng Xiaoping avrebbe condotto la Cina al fallimento o all’instaurazione di una democrazia liberale capitalista. Ciò non si è affatto verificato.

Secondo Ezra Vogel, il più grande biografo di Deng Xiaoping nel mondo occidentale, quest’ultimo è stato “il più grande statista del Novecento”. Lo studioso presenta Deng all’insegna di tre aggettivi: ultranazionalista, autoritario, pragmatico. Ezra Vogel non risponde alla domanda fondamentale, ovvero se Deng continuò a essere comunista anche dopo l’apertura mirata al mercato internazionale, ma si limita a affermare, sulla base di uno studio poderoso, che per lui esisteva una sola entità sacra: il partito comunista cinese, in quanto partito che aveva liberato definitivamente la Cina dagli occidentali e che aveva saputo restaurare la grandezza nazionale degli antichi Han.

La direttrice strategica di Deng fu, come noto, il “basso profilo” ma secondo molti analisti cinesi la politica estera di Xi Jinping è in continuità con Deng, in quanto quest’ultimo avrebbe appunto voluto riportare i cinesi al centro del mondo come oggi Xi Jinping ha in definitiva fatto.

Deng era consapevole che la centralizzazione cinese sul piano della catena globale del valore avrebbe condotto a lotte di frazioni probabilmente più acute di quelle stesse del periodo maoista. Fedele al principio maoista secondo cui “l’uno si divide in due” Deng istituì quasi ufficialmente nell’élite del Partito due frazioni che avrebbero dovuto condividere, con tutti gli estremi formalismi rituali del caso che non stiamo qui a elencare o a ricordare, il potere con concordia in vista dell’affermazione cinese come potenza imperiale mondiale: una l’élite proposta dalla “Shangai Gang” (SG), espressione della zona più produttiva e modernista della Cina e l’altra era invece l’élite che avrebbe dovuto costantemente esprimere la Lega della gioventù comunista cinese (LGCC), in teoria più ideocratica. Questo appunto sul piano teorico.

Nella pratica politica e di lotta di frazione, gli eventi di questi anni hanno enormemente cambiato le carte in tavola. Ad esempio, Xi Jinping è appunto espressione della SG, che in teoria avrebbe dovuto rappresentare la linea economicistica; viceversa, l’attuale presidente della Repubblica popolare dopo aver conquistato il potere grazie al sostegno dell’élite della SG e dei cosiddetti “principini rossi” che hanno fatto blocco contro quello che era diventato lo strapotere della LGCC, ha ridimensionato enormemente proprio la SG, mettendone al muro molti tra gli esponenti più significativi e di punta con la linea strategica della “lotta totale alla corruzione”.

Ancora: quando rinacque ufficialmente il cosiddeto “maoismo cinese”, sotto la guida di Bo Xilai, figlio di Bo Yibo “un immortale” dell’era di Mao, e di Wang Lijun, che puntavano a occupare posti preziosi, in vista del 18° congresso del partito, nel Comitato permanente del Politburo (il gruppo dei nove che gestisce la politica e l’economia della Repubblica popolare), fu proprio la frazione emergente di Xi Jinping a sbarrare la strada ai “maoisti” con il sostegno dei militari più nazionalisti dell’Esercito di Liberazione popolare. L’ accusa contro la fazione Bo fu quella di essere troppo legati all’agenzia militare spionistica britannica MI6; veniva tirato in ballo Neil Heiwood, in stretti rapporti affaristici e politici con la consorte di Bo e Wang si rifugerà dopo l’offensiva dell’Esercito in un consolato britannico prima, in quello Usa di Chengdu poi per chiedere asilo. Il complotto spionistico esula dalla logica di questo articolo, il dato di fatto  sociale da trarre è che il nazionalismo di Xi, con il supporto dei principini, fece completamente fuori la proposta neomaoista.

L’ascesa di una nuova élite sotto il patrocinio del presidente Xi rappresenta il più grande sviluppo nella storia politica e sociale cinese degli ultimi trent’anni. Non solo perché ha emarginato completamente quella che potremmo considerare, usando termini sicuramente impropri ma più familiari al pubblico occidentale, la frazione di Shangai, quella più vicina, per molti versi, all’élite socialdemocratica e globalista occidentale (per quanto sarebbe erroneo appiattirla sul classico globalismo angloamericano); ma anche perché la frazione Xi ha finito per identificarsi totalmente con il destino millenario della “grande” Nazione cinese. La vittoria totale, politica, sanitaria, economica, contro quello che è sempre più percepito, dalla stragrande maggioranza dei cinesi, come il “ terribile e mostruoso Virus Occidentale” (ovvero il Covid 19), ha ancora di più accresciuto il carisma del leader presso i cinesi di tutte le fasce sociali.

Guoguang Wu (University of Victoria) nel suo studio, “The King’s Men and Others: Emerging Political Élites under Xi Jinping”, ha rilevato come la mobilità sociale e politica dell’era Xi è tipica di un regime nazionalista rivoluzionario fondato sulla mobilitazione popolare. Non si assisteva a un processo simile dall’epoca di Mao, per quanto Xi Jinping non sia per Wu un maoista quanto un vero nazionalista imperiale. Wu elenca nuovi sette sottogruppi sociologici e regionali che, negli anni di Xi, hanno raggiunto il grado élitista di vertice. La carriera politica di Xi ha avuto inizio nella contea suburbana di Zhengding, nella provincia di Hebei. Qui Xi ha sviluppato una stretta amicizia con Li Zhanshu, che ora è il terzo leader della Cina. La provincia del Fujian è il luogo in cui Xi ha trascorso la parte più lunga della sua carriera (1985-2002), scalando gradualmente i ranghi. Le élite politiche più significative emerse dal Fujian includono Cai Qi, ora segretario del partito di Pechino e considerato tra le stelle nascenti del partito, e Huang Kunming, che ora è un membro del Politburo e dirige l’importantissimo dipartimento di propaganda. Dopo il periodo trascorso nel Fujian, Xi è stato segretario del partito dello Zhejiang dal 2002 al 2007, dove aveva il controllo completo su tutti gli affari organizzativi e del personale.

«Pertanto, lo Zhejiang rappresenta la principale base di potere di Xi, con ancora più élite dello Zhejiang che si unisce al governo centrale rispetto alle élite del Fujian; il termine speciale di Zhijiang xinjun, che significa “nuove truppe dallo Zhijiang”, con Zhijiang come soprannome per Zhejiang, è stato di conseguenza creato per riferirsi a quelle stelle politiche nascenti nella Cina di Xi con un background del Zhejiang», scrive Wu.

Infine, l’ultimo gruppo è Shanghai, dove Xi è stato segretario del partito per un breve periodo. A differenza dello Zhejiang, Xi era in grado di controllare Shanghai solo in parte, a causa dell’enorme influenza di Jiang Zemin. Inoltre, le persone che provengono da un background di Shanghai non possono essere interamente attribuite, come abbiamo cercato di spiegare, alla frazione Xi, principalmente a causa dell’influenza di Jiang su Shanghai. Xi non solo ha nominato i suoi lealisti in quasi tutte le posizioni significative in tutta la Cina, ma lo ha fatto con l’intento di schierare i membri delle due precedenti fazioni dominanti, la “Shanghai Gang” e la Lega.

«La leadership del PCC enfatizza l’esperienza amministrativa acquisita servendo come un importante segretario del partito cittadino durante l’era delle riforme, questi incarichi sono trampolini di lancio fondamentali per gli aspiranti candidati al Comitato permanente del Politburo e ad altri posti di vertice nella leadership nazionale»,  sostiene Li, uno studioso delle frazioni interne dell’élite cinese. Pertanto, nominando i suoi protetti nelle principali città e province, Xi ha assicurato che la futura leadership di organismi come il Politburo sarà in futuro dominata dai membri della sua stessa fazione, limitando ulteriormente il ruolo delle altre due.

Un altro elemento dell’era Xi di fondamentale rilievo è l’ascesa dell’élite nazionalista militare, che la Cina “comunista” nella sua storia non ha mai conosciuto a tale livello qualitativo; la decisiva lotta contro il “Virus Occidentale” è stata fondamentalmente vinta grazie al lavoro meticoloso e circoscritto dell’Elp e tutta la futura battaglia strategica della Cina.  Xi Jinping, che ha scommesso molto sul primato tecnologico cinese, ha nei militari e negli analisti dell’intelligence i propri reparti di punta e di avanguardia.

In conclusione se la centralità del partito, depositario di una lunga tradizione di sinistra, non può assolutamente essere messa in discussione, essendo “sacra”, essa si accompagna però a altri elementi politici fondamentale dell’era Xi che non possiamo ignorare: nazionalismo, modernismo militarista, elitismo strategico “machiavellico”.   (Fine prima parte – segue)