Il colonialismo non è una macchina pensante,
non è un corpo dotato di ragione.
È la violenza allo stato di natura e non può piegarsi
se non davanti a una violenza ancora maggiore.
Frantz Fanon (I dannati della terra)
Il 7 ottobre resterà nella storia
Oggi gira in rete una foto (qui sopra) delle terribili distruzioni provocate dai bombardamenti israeliani su Gaza. Probabilmente è stata scattata in questi giorni, ma le stesse immagini le abbiamo viste nel 2008/2009 (Operazione “Piombo fuso”), nel 2012 (Operazione “Colonne di fumo”), nel 2014 (Operazione “Margine di protezione”), nel 2018 e nel 2021. Peccato che in occidente quasi nessuno se lo ricordi. Come quasi nessuno si ricorda delle migliaia di vittime (al 99% civili inermi) di quei vigliacchi raid degli aerei con la stella di Davide.
A Gaza, sabato scorso, un muro è stato abbattuto. E’ il muro che recinge da 16 anni il più grande campo di concentramento che la storia ricordi. Quello sfondamento è stata la vittoria di tutti coloro che amano la libertà delle persone e dei popoli. Ma quel coraggioso rilancio della lotta di liberazione è stato subito etichettato come “terrorismo”. Il linguaggio orwelliano si è imposto un’altra volta. Era inevitabile che così fosse nella nostra marcia società. Ma questa arroganza dei dominanti è pure il segno della loro straordinaria insicurezza. Hanno talmente paura del mondo così com’è, che lo raccontano a rovescio non solo agli altri ma pure a sé stessi.
Quel muro, del resto, deve piacere tanto al nostro politicantume benpensante, al nostro giornalistume disinformante, ad un mondo della cultura che ha girato da tempo la testa dall’altra parte. Se non gli piacesse non si spiegherebbe il loro ultradecennale silenzio, ma neppure la loro adorazione per Israele, per le sue violenze e le sue bombe.
Purtroppo, la narrazione ufficiale ha una sua efficacia anche nel campo di chi pure afferma di voler combattere il sistema. Tra questi c’è chi oggi balbetta sul significato dell’azione di Hamas, od addirittura chi ritiene che la Resistenza palestinese sia caduta in un gioco architettato proprio dai suoi nemici. Quante anime belle! Quanti analisti da psicoanalisi!
Una cosa è certa: chi oggi non si schiera con nettezza dalla parte del popolo palestinese, simbolo vivente di chi soffre l’ingiustizia e l’oppressione nel mondo, ben difficilmente potrà lottare domani in maniera credibile contro altre ingiustizie ed oppressioni.
Ma lasciamo queste anime candide al loro destino. Quel che qui ci interessa è mettere a fuoco il significato dell’attacco del 7 ottobre, una data che resterà nella storia.
Naturalmente, i soliti espertoni del nulla parlano di un autogol di Hamas, perché adesso Netanyahu “spianerà” Gaza. Vero, Israele non si farà di certo scrupoli (e non se li sta facendo, ma è sempre stato così) nell’attaccare case, ospedali, ambulanze, nel togliere acqua ed energia elettrica, nell’impedire l’afflusso dei generi alimentari. Ma “spianare” la Resistenza è un’altra cosa. Lo stato sionista ci ha già provato tante volte e gli è sempre andata male. Ci sarà pure un perché.
In ogni caso, dire che si è trattato di un attacco destinato alla sconfitta significa non capire gli obiettivi di chi lo ha pianificato e di chi lo ha realizzato, per molti con il sacrificio cosciente della propria vita.
Da quel che possiamo capire, l’azione del 7 ottobre si poneva tre scopi: due sono stati già raggiunti, il terzo sarà la partita delle prossime settimane. Per il futuro vedremo, perché gli sviluppi dipendono da tanti fattori ad oggi difficilmente prevedibili.
Ma su questo non ci addentriamo, mentre è invece utile capire quali sono i due obiettivi raggiunti e qual è il terzo in gioco.
Il primo obiettivo raggiunto era di natura politico-simbolica. Rendere chiaro al mondo che la Resistenza palestinese non solo è viva, ma che è più forte che mai. Da tempo si era diffusa l’idea di un progressivo spegnersi della “questione palestinese”. Uno spegnimento, pensavano in molti, frutto del tempo, del logoramento, della forza militare e tecnologica di Israele. Bene, il 7 ottobre ha dimostrato che quell’idea era un abbaglio, che non potrà esserci pace in Medio Oriente senza una degna soluzione che sia accettabile per i palestinesi. Non è poco.
Il secondo obiettivo raggiunto era quello di far saltare la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Arabia saudita. Obiettivo centrato. Nonostante sia impossibile fidarsi dei Saud, oggi quell’accordo è diventato impraticabile e presumibilmente resterà tale a lungo.
Ma l’offensiva di Hamas ha anche un altro obiettivo: la liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, attraverso lo scambio con i prigionieri catturati il 7 ottobre. Il raggiungimento di questo risultato non è scontato, ma chi pensa che l’esercito israeliano sia in grado di liberare i prigionieri con un’azione di forza o con blitz mirati verrà probabilmente smentito. Già in passato Israele ha dovuto trattare, e cedere, per riavere indietro i propri soldati. E lo stesso leader di Hamas nella Striscia, Yahya al-Sinwar, è stato liberato in uno di questi scambi dopo aver passato più di vent’anni nelle prigioni israeliane.
Come andrà a finire non lo possiamo sapere. Certo, il popolo palestinese dovrà piangere ancora tante vittime, ma questa volta la fionda del piccolo Davide con la kefiah ha colpito nel segno. Lo ha fatto con la forza, con il coraggio dei suoi combattenti, con l’intelligenza – da “golpe e lione” – dei suoi dirigenti. Per il momento non c’è altro da aggiungere.
(10 ottobre 2023)