La rabbia e il dolore
Non c’è pace a Gaza. Non ci sarà pace nemmeno a Natale, e queste feste, per quanto care, arrivano quasi incuranti, nel momento peggiore dell’offensiva israeliana.
Non è più sopportabile assistere allo sterminio in atto. E’ eticamente intollerabile vedere civili massacrati dalla ferocia, abitazioni distrutte, rastrellamenti e deportazioni orrendi, infrastrutture abbattute, financo ospedali ridotti in macerie.
Chiese, moschee, scuole, case… nulla rimane dopo la feroce devastazione sionista.
Cosa rimane di noi, dovremmo chiederci.
Cosa di noi, fiorito giardino europeo, e democratico occidente che, con quelle macerie dobbiamo fare i conti.
Cosa e come faremo a salvarci e a perdonarci per non aver fatto abbastanza… cosa è fare abbastanza? Esiste questa categoria dell’azione? O è solo un concetto astratto? O entrambe le cose?
La cosa certa è che dilaga sempre più un senso di profonda rabbia e dolore, e intanto che dilaga porta con sé l’onda torbida e avvelenata del senso di impotenza.
Dovremmo riflettere bene su questo. Forse smettere di cercare notizie e aggiornamenti sui mezzi di informazione (tanto quella libera quanto quella di regime), e cercare invece di orientare i nostri sforzi nel tentativo, ancora non vano, di salvare quel briciolo (di più temo sia impossibile) di umanità che resta.
L’empatia, la solidarietà, la condivisione hanno un costo. Altissimo.
Per un bene che tuttavia, Inshallah!, è senza prezzo. Perché di inestimabile valore: restare umani.
Fin dall’inizio della violenza sionista, agìta in risposta dell’operazione della resistenza palestinese, sono sempre stata convinta che su quel preciso fronte, in quel minuscolo angolo del mondo, la guerra si giocasse con poste inconsuete, inedite. Nulla di già visto.
L’esproprio, la deportazione, l’uccisione, il massacro di innocenti, la strage di bambini, la privazione di cibo, acqua, medicine, beni di prima necessità (così che chi non sarà perito sotto le macerie è destinato a morire di inedia o di incuria) sono state l’unica strategia politico militare finora adottata da Israele.
Si contano ad oggi circa 20.000 morti a Gaza. Sappiamo bene tutti che sono molti di più, e indipendentemente da quale sia la percentuale tragicamente alta di donne e bambini, sappiamo bene – come lo sa tutto il mondo – che sempre di vittime indifese, civili inermi e disarmati, si tratta.
E’ stato detto, e scritto dagli autorevoli esperti legali del Center of Constitutional Rights, che tali azioni si sostanziano e possono correttamente essere qualificate solo in un modo: genocidio.
“La più grande prigione a cielo aperto”, così battezzata dal Human Rights Watch, rappresenta così, e nel modo più integrale, radicale e plastico, l’orrenda ideologia sionista. “Un campo di concentramento a cielo aperto”, come definizione, va altrettanto bene. Soprattutto perché riannoda quei legami ideologici che sono sempre più evidenti con quel Nazismo che abbiamo imparato a riconoscere come il male supremo. Diciamo che è in buona compagnia…
Ma cosa e perché accade, e cosa ci dice quanto accade?
Accade la più cieca ferocia del più forte sul più debole, del sopraffattore sul sopraffatto, e accade perché l’oppressore non ha scrupolo alcuno, nessun codice morale, nessun riferimento etico. A qualunque costo, costi le vite che dovrà costare, quella terra va invasa, impastata col sangue di chi l’ha amata, coltivata, accudita, affinché da quella terra venga estirpata ogni traccia, ogni radice e tradizione culturale, religiosa e politica espressa dal popolo che l’ha abitata. Fino al più tenero germoglio di vita palestinese.
Cosa ci dice tutto questo?
Certo ci dice che il volto arcigno e crudele dell’oppressore si manifesta a Gaza nella sua forma più terribile e spietata.
Ma ci dice di più.
Ci dice che quelle stesse forze (che laicamente voglio chiamare malefiche se non maligne) sono tragicamente attive e infuriano anche in quella parte di mondo occidentale, dominato e oppresso, invaso e colonizzato ben oltre i confini di Gaza: in Italia, in Europa, come in Australia e persino oltre Oceano…
Non è un caso se le piazze che più si sono riempite per esprimere autentica indignazione e veemente protesta, urlando contro lo scempio sionista, appartengano proprio a quel quadrante geografico e culturale che chiamiamo l’Ovest del mondo, ai cui sistemi politici economici e sociali i popoli si rivoltano, si ribellano e a cui, in sintesi, si vergognano di appartenere. Dico bene, si vergognano…
Ci vergogniamo di appartenere a un’Italia che si astiene dal voto – così come molti americani, ne sono certa, si vergognano di essere tali di fronte al veto assassino degli Stati Uniti – alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per un immediato cessate il fuoco.
La posta in gioco è alta, altissima. E la vergogna non aiuta. Nemmeno l’indignazione aiuta.
Così come l’empatia, la solidarietà e la condivisione non bastano da sole. Nemmeno per potersi definire davvero tali.
Ci vuole invece coraggio.
Prima di tutto nel capire che se nemmeno davanti a tali orrori sapremo esprimerci, allora come sapremo batterci per… il caro vita? Per l’emergenza sanitaria? Per le vaccinazioni estorte? Per gli eventi avversi? Per le tante donne bambini, uomini (sempre civili) che saranno caduti sotto l’attacco indiscriminato delle élite tecno farmaceutiche? Anche essi, inermi, indifesi, ingannati e violentati. Come potremo batterci contro le sanzioni alla Federazione Russa, e la conseguente crisi energetica ed economica che ha danneggiato quel poco che rimaneva della spina dorsale dell’economia italiana, le piccole e medie imprese, che come pesci senz’acqua muoiono di debito, muoiono di tassi di interesse troppo alti imposti da banche centrali troppo avide, sorde e cieche per comprendere che solo rinforzando le economie locali e i loro mercati pubblici, si potrà trovare una soluzione alla disoccupazione e al precariato crescente? Come potremo denunciare l’ennesima finta emergenza climatica, voluta dalle Grete (rectius grette, o gretine) di turno, per costringere famiglie e aziende all’esproprio valoriale di case, strutture produttive, mobilità dignitosa, conducendoci verso l’abisso dell’impoverimento e della miseria? Come faremo a riappropriarci della sovranità economica e politica, dell’autodeterminazione e della dignità di popolo? O dei diritti fondamentali dell’uomo, perché l’evoluzione scientifica e tecnologica non finisca per immolare sull’altare del profitto spregiudicato anche l’ultimo essere umano? Come resisteremo all’ipnosi dell’unico racconto autorizzato, e quindi possibile, che ci ha resi incapaci di comprendere cosa distingue la pecora dal muflone?
Davvero non capiamo che Gaza è la nostra patria? Davvero non comprendiamo che la resistenza del popolo palestinese è modello ed esempio per noi tutti? Davvero non riusciamo a intendere che ogni bimbo che muore a Gaza, muore anche per noi? Non solo a causa nostra – perché di quell’Occidente, che ci piaccia o meno, ne facciamo parte – ma per la nostra causa.
L’ho detto, l’ho scritto. Ci vuol coraggio…
Certo, diversamente da loro, che restano la resistenza più eroica e nobile, per durata e prezzo pagato, noi abbiamo ancora casa, lavoro, cibo, acqua e qualche straccio di diritto… seppur ridotto a crisalide secca, quasi materiale inerte.
Combattere a loro fianco non è solo un nostro dovere. E’ nostro diritto.
Perché la difesa di Gaza, è la difesa di noi tutti contro un sistema imperialistico e capitalista criminale che non intende ascoltare più niente e nessuno, al cui confronto la stessa “arroganza del potere” di cui parlava sessant’anni fa il senatore Fullbright al Congresso americano, a proposito delle politiche americane adottate durante la guerra in Vietnam, impallidisce, scolora, degrada quasi a peccato veniale… il potere è arrogante, forse tale non sarebbe se non lo fosse. E’ sempre stato così.
Oggi siamo oltre.
Ma è nostro dovere assimilare, assorbire, fare nostra una profonda verità: la politica imperialista degli Stati Uniti è politica sionista, criminale e liberticida. E’ la politica della sopraffazione, delle operazioni segrete e delle rivoluzioni colorate, della guerra perpetua e dell’emergenza continua, climatica, energetica, sanitaria…è la politica che soddisfa le fameliche brame delle élite degli apparati dell’industria militare così come di quella farmaceutica, petrolifera quando non tecnologica, mediatica, e cybernetica.
E’ una politica che spinge e costringe l’intera umanità verso quelle colonne d’Ercole oltre le quali non è dato tornare.
E’ questa la linea maginot che dobbiamo difendere, presidiare, fortificare. La trincea che ci deve far comprendere quanto si sia tutti indissolubilmente uniti.
Con e per Gaza.
Perché, caduta Gaza, idealmente non ci sarà più alcun baluardo se non avremo compreso cosa accade, se non avremo capito dove ha origine il disastro che si consuma davanti ai nostri occhi. A Gaza, e oltre i suoi confini. Nessun organo di diritto internazionale autorevole, né alcuna regola etica interiore che imponga il rispetto, persino di noi stessi.
Caduta Gaza, saremo tutti precipitati nell’orrore della barbarie, disumana, spietata e predatoria, come han saputo dar prova di essere coloro che già oggi considerano il resto del mondo, esseri inferiori, sub umani. Esattamente come noi, Gazaui.
(14 dicembre 2023)