Lo tsunami finanziario fa traballare l’oligarcato capitalistico

di Dimitri Nilus

Fino ad oggi, la conduzione politica putiniana, così avversata dagli intellettuali americano – sionisti d’Occidente (i cui capofila strategici sono certamente H.B. Levy e Glucksmann, quello geofinanziario Soros e quello geopolitico Brezinskij), è stata caratterizzata, a nostro avviso, da tre fondamentali istanze, tra loro strettamente connesse:

1) Ridare prestigio mondiale alla Russia ed al popolo russo, talvolta giocando pragmaticamente sul fattore eurasista, talvolta su quello eurorusso, in particolare con la Germania. L’essenza del primo momento irriducibile del putinismo è stato chiaramente contrassegnato dalla cosiddetta “politica di potenza”, più nel senso russo della “derzava” che in quello occidentale del potere, ma risulta difficile fare una differenziazione netta, almeno quando ci si rivolge ad un pubblico occidentale. Non si riuscirebbe a comprendere il consenso di massa di cui gode Putin tra il popolo, nonostante le gravi ingiustizie sociali ancora ben visibili, senza avere chiaro questo fattore centrale. Il nazionalismo grande – russo, unito ad un fortissimo antiamericanismo, antioccidentalismo e ad un atavico antigiudaismo, si è radicalmente rafforzato nell’attuale coscienza popolare russa, in modo ancora più forte dopo i fatti dell’agosto 2008.
2) Modernizzare la Russia, sempre fedele a questa concezione di politica di potenza, nel senso appena specificato. Modernizzare in ogni settore, da quello tecnologico a quello militare.
3) Aprire la strada ad un “capitalismo moderno”, aperto, di stile occidentale ma guidato sempre dal Cremino, almeno nelle linee fondamentali. Ma questo tentativo strategico si è tradotto in un oligarcato supercapitalistico il quale, a differenza di quanto avviene in Cina, è sfuggito più volte di mano dalla direzione politica centrale, che presumeva poterlo guidare.

Va comunque precisato che il punto 3 è stato in un certo senso un passo obbligato per Putin, dal suo primo mandato sino ad ora, in quanto i disastri della precedente gestione imponevano la suddetta strategia economica, per realizzare adeguatamente il punto 1 ed il punto 2.
Va anche detto (senza ora stabilire rigorosamente le pur pesanti responsabilità del Cremlino) che il punto 3 è stato certamente fallimentare. Se, nonostante il caos strutturale, la corruzione diffusa, le ingiustizie sociali evidenti, l’economia russa fino ad oggi ha retto e parzialmente sostenuto la strategia che abbiamo riassunto nei punti 1 e 2, ora l’economia russa non reggerà certamente più tale strategia, che rimane al centro del disegno putiniano.
In effetti, tra i cosiddetti mercati emergenti quello russo è stato il più colpito dai recenti eventi finanziari. E questo perché la fuga dei capitali stranieri (e recentemente anche quella dei cosiddetti oligarchi russi), ancor prima dell’8 agosto 2008, connessa alla mancanza di liquidità, è andata a sommarsi alla diffidenza degli investitori verso una Russia che correva e corre sempre più il rischio di rimanere isolata.
Quest’esodo di capitali ha smascherato una industria finanziaria debole, vulnerabilissima, ed un settore bancario che non è certamente in grado di reggersi autonomamente in piedi di fronte ad una grande scossa finanziaria come quella verificatasi.
I problemi di liquidità delle aziende hanno così costretto il governo a sviluppare l’idea dell’utilizzo delle riserve in valuta, ma soprattutto di uno dei due fondi sovrani, per sostenere il rublo e rimettere in moto i prestiti interbancari. Di conseguenza, Putin e Medvedev hanno ridisegnato, nello specifico, la loro strategia: di fronte ad una scossa autenticamente tellurica che sembra finalmente colpire gli uomini simboli di questo oligarcato supercapitalista che ha prosperato e gozzovigliato fino ad ora, Putin inizia a restaurare il controllo totale dello Stato sui centri nevralgici dell’economia nazionale.
Il salvataggio delle aziende appartenenti ad esponenti dell’oligarcato capitalista andrà di pari passo con l’affidamento delle stesse alla gestione della Veb, banca di cui lo Stato presiede il consiglio di sorveglianza. Iniziano a cadere le prime teste degli oligarchi, politicamente sgraditi a Putin, come quella di Vladimir Potanin, ex guida dei giovani comunisti sovietici, protagonista poi, caduta l’URSS, di una spettacolare ascesa sociale ed economica che lo ha portato a entrare nella fascia dei 30 uomini più ricchi del pianeta, sostituito dalla Veb, in seguito ad una prestito straordinario, con Alexander Voloshin, ex capo di gabinetto di Putin.
Certamente Potanin è solo il primo oligarca a cadere, altri lo seguiranno. Tutte le maggiori aziende russe bussano ormai alla porta della Veb, per rimanere in vita. Anche la Severstal di Mordashov, padrona dell’acciaio russo dall’epoca delle privatizzazioni di Yeltsin, che in Italia ha rilevato la Lucchini, sembrerebbe essersi rivolta alla Veb per sopravvivere.
Di recente, il presidente Putin ha confermato l’obiettivo di portare la Russia nel giro di dieci anni tra le prime cinque economie mondiali, ha parlato di una necessità di una svolta economica che qui definiremmo “statalista” e “corporativa”, rafforzando certamente la salvaguardia dei diritti di proprietà ma nel contesto più equo, rispetto a quello attuale, di una accentuata regolamentazione ordinata dallo Stato, che promuoverà, ove indispensabile, veri e propri processi di nazionalizzazione.

Un elemento da considerare, al riguardo, per chiunque abbia presente l’attuale consapevolezza nazionale russa è che, nonostante i vari tentativi degli ideologi eurasisti vicini a Putin di presentare la Cina come un solido alleato russo, l’antiamericanismo popolare russo è associato paradossalmente ad una nuova percezione russa del “pericolo cinese”.
Il “pericolo cinese” appare oggi diverso rispetto al timore di una nuova invasione di tartari e mongoli come quella di sette secoli fa, timore che ha alimentato, nella spirito russo, lo spettro del “pericolo giallo”, nonostante non vi sia mai stata un’invasione cinese della Russia, prescindendo da schermaglie lungo le frontiere. Oggi, gran parte del popolo russo percepisce il pericolo cinese come la possibilità che la Russia resti un paese militarmente, politicamente ed economicamente arretrato rispetto all’ascesa economica e strategica cinese. Non va al riguardo dimenticato che vi è la seria possibilità che la Russia venga a dipendere, economicamente e, secondo molti analisti “nazionalisti grande-russi”, anche politicamente, dalla Cina. In effetti lo sviluppo cinese è sia di vari punti superiore a quello russo, fortemente penalizzato, tra le altre cose, dalla corruzione interna, sia qualitativamente superiore a quello russo.

Aprendo la via ad un superamento dell’oligarcato capitalistico, che ha infettato ancor più di occidentalismo la società e la cultura russe di quanto già non lo fosse, il Presidente Putin potrebbe, a nostro avviso, iniziare a radicalizzare, in termini mitici e simbolici, il ben radicato patriottismo grande – russo come scelta strategica di civiltà rispetto alle sfide cui il popolo russo è sempre più chiamato. Altrimenti, così pensano certi ambienti patriottici russi, la sua sfida con Occidente e forse con la stessa Cina sarà persa in partenza. I quali infatti perorano apertamente di revivificare nel tessuto culturale e morale del popolo, proprio come fece Stalin davanti all’aggressione nazista, i valori della Santa Russia.