In occasione del decimo anniversario dall’inizio dei bombardamenti sulla Jugoslavia, cui l’Italia guidata da D’Alema contribuì con convinzione, pubblichiamo – riprese dal Manifesto del 22 marzo scorso – le considerazioni di Danilo Zolo.

 

Target UMANITARIO
di Danilo Zolo

Dieci anni fa, il 24 marzo 1999, i bombardamenti della Nato contro la Jugoslavia. Durarono per 78 giorni, in assoluta violazione della Carta dell’Onu. Fu un sanguinoso vulnus del diritto internazionale che aprì la stagione delle guerre «umanitarie»

Sono trascorsi dieci anni da quando, il 24 marzo 1999, iniziarono i bombardamenti della Nato contro la Repubblica Federale Jugoslava. Durarono ininterrottamente per 78 giorni, in assoluta violazione della Carta delle Nazioni Unite. Oltre diecimila furono le missioni d’attacco da parte di circa mille aerei alleati, furono usati più di 23 mila ordigni esplosivi, fra missili e bombe, senza contare le decine di migliaia di proiettili all’uranio impoverito. Ormai è ampiamente riconosciuto che la motivazione umanitaria della guerra – la liberazione del Kosovo dalla «pulizia etnica» praticata dalla Serbia – erano infondate e pretestuose . Tanto che potrebbe ricredersi persino l’allora presidente del consiglio italiano, Massimo d’Alema, che di quella aggressione fu un convintissimo sostenitore. Lo strumento bellico si è subito rivelato, com’era facile prevedere, incommensurabile e contradditorio rispetto alla difesa dei diritti della minoranza kosovaro-albanese, che gli aggressori proclamavano come il loro nobile obiettivo. La «guerra dal cielo» voluta dal presidente Clinton non ha portato la pace, la democrazia e la stabilità nei Balcani. L’odio, la violenza, la corruzione, la povertà, la prostituzione, lo squallore ambientale sono stati il lascito di questa guerra, come di molte altre guerre di aggressione. I territori e i centri urbani colpiti dai bombardamenti – da Pristina a Nis, a Belgrado, a Novi Sad, all’area danubiana – sono stati ridotti in condizioni preindustriali e ancora oggi, dopo dieci anni, portano i segni profondi della «guerra umanitaria». Migliaia di serbi e di albanesi hanno perso la vita o hanno subito gravi mutilazioni a causa dei bombardamenti. Ed altre persone innocenti hanno continuato ad essere vittime delle mine che le cluster bomb hanno lasciato sul terreno, e della contaminazione prodotta dai proiettili all’uranio impoverito sparati dagli aerei statunitensi. Com’è noto, nel Kosovo la «pulizia etnica» non è stata fermata dalla guerra: ha soltanto mutato direzione. Dopo la «liberazione» sono stati gli estremisti kosovaro-albanesi ad usare spietatamente la violenza contro quello che è rimasto della minoranza serba. E altrettanto si può dire per il dramma dei profughi. I kosovaro-albanesi, che in gran numero avevano abbandonato la loro patria dopo l’inizio dei raid della Nato, sono rapidamente rientrati nei loro territori. Ma centinaia di migliaia di serbi e di rom – in parte già cacciati con la forza dalla Krajina e dalla Slavonia orientale – sono ancora oggi ammassati in territorio serbo, in condizioni altamente precarie. Stessa sorte è toccata a oltre duecentomila serbi e rom che vivevano nel Kosovo. Quali sono state le vere motivazioni e i veri obiettivi strategici della guerra di aggressione degli Stati Uniti e della Nato contro la Repubblica Federale Jugoslava? Questo è un punto cruciale, ancora oggi di grande attualità. È sempre più evidente che la «guerra umanitaria» della fine del scolo scorso ci ha definitivamente introdotti nel New World Order progettato dagli Stati Uniti dopo il crollo dell’impero sovietico: il disegno strategico di un assetto unipolare delle relazioni internazionali dominato dalla superpotenza americana. La principale lezione che la guerra per il Kosovo ha impartito è che i processi di globalizzazione e di concentrazione del potere internazionale richiedono nuove forme di uso della forza. Come hanno sostenuto Alvin e Heidi Toffler, gli Stati Uniti, già a partire dalla Guerra del Golfo del 1991, si sono mostrati pronti ad affrontare la nuova situazione del mondo puntando, oltre che sul loro assoluto predominio nucleare, su sofisticate strategie informatico-militari. In poco più di dieci anni le strutture militari degli Stati Uniti hanno subìto una trasformazione radicale – tecnologica, organizzativa, strategica, logistica – e questo è stato perfettamente confermato dalla «guerra dal cielo» contro la Repubblica Jugoslava, che ha traumatizzato il mondo intero poiché ha mostrato l’irraggiungibile superiorità militare della potenza americana. La vittoria degli Stati Uniti è stata assoluta. La costruzione (illegale) dell’immensa base militare di Camp Bondsteel a Urosevac, nel cuore del Kosovo, ne è ancora oggi la più concreta, irrefutabile dimostrazione. È la prova che, grazie alla «guerra umanitaria» della Nato, gli Stati Uniti hanno ottenuto il controllo militare dell’intero Mediterraneo orientale e del Vicino Oriente, oltre che dei Balcani. È sullo sfondo di questo contesto che si spiega sia l’imponente sviluppo del terrorismo internazionale a partire dalla guerra del Golfo del 1991, sia la serie di guerre preventive scatenate dagli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati contro l’Afghanistan nel 2001 e contro l’Iraq nel 2003. E si spiegano le pressioni che oggi vengono esercitate, con la complicità dello Stato di Israele, nei confronti della Siria e soprattutto dell’Iran. Quella che chiamiamo «globalizzazione» non è un processo spontaneo di unificazione del mondo grazie alla leggi del mercato, secondo la retorica neoliberista. La globalizzazione, per le crescenti discriminazioni economiche e politiche che comporta, richiede una costante vigilanza a livello globale, come emerge dalle strategie geopolitiche elaborate dai «cartografi» statunitensi nei primi anni Novanta del secolo scorso. Gli interessi vitali dei paesi industriali – si è sostenuto – sono diventati più vulnerabili per quanto riguarda l’accesso alle fonti energetiche, la sicurezza dei traffici marittimi ed aerei, la stabilità dei mercati finanziari, il controllo della produzione delle armi biologiche, chimiche e nucleari. L’uso preventivo della forza nella guerra globale contro il terrorismo deve essere perciò previsto e pianificato dalle potenze occidentali per la semplice ragione che esso è inevitabile: la globalizzazione deve essere sostenuta da robuste protesi militari. Si vedrà nei prossimi mesi, soprattutto in Afghanistan – se con la presidenza di Barack Obama il modello della guerra umanitaria e preventiva verrà abbandonato per una strategia almeno tendenzialmente multilaterale e post-egemonica. Oggi nessuna previsione ottimistica è legittima. L’ottimismo è impedito dall’idea, espressa dal nuovo presidente e dal suo Segretario di Stato, Hillary Clinton, che il terrorismo si sconfigge in Afghanistan e che per questo è necessario intensificare e concentrare nell’area afghano-pakistana l’impegno militare degli Stati Uniti e dei loro alleati europei, ancora una volta sotto l’egida illegale della Nato.