Il berlusconismo oggi dopo 15 anni di alti e bassi
Analisi concreta della situazione concreta. Le riflessioni che seguono sono ispirate unicamente a questo criterio.
Da 15 anni la vita politica italiana ruota intorno ad un personaggio: Berlusconi da Arcore, l’uomo più ricco e più potente del paese. Figlio naturale del (contro)riformismo della sinistra pentita ed omologata, conseguenza diretta della sua scelta maggioritaria del 1993, il berlusconismo è oggi ad un passaggio decisivo.

Dopo 15 anni di alti e bassi, di vittorie e di sconfitte, di governo e di opposizione, ci sono oggi – per la prima volta – le condizioni per l’edificazione di un autentico regime reazionario.
Con questo articolo cercheremo di mettere a fuoco le ragioni, le caratteristiche, le possibili evoluzioni di questa situazione.
A scanso di equivoci diciamo subito che il berlusconismo 2009 non è il berlusconismo 1994. In mezzo ci sono state vicende piuttosto complesse, che qui non possiamo approfondire troppo, ma che ci dicono con chiarezza una cosa: l’attuale tendenza al regime è figlia di una degenerazione della vita politica nazionale, che ha come responsabile principale la catena fallimentare Pds-Ds-Ulivo-Pd con le sue varie ramificazioni.
Naturalmente, come vedremo, questo non è l’unico fattore. Ma senza la piena comprensione di questo elemento non sarebbe possibile alcuna analisi razionale.

Che cos’è un regime
Ovviamente, mettersi d’accordo sulle parole non è un fatto meramente terminologico.
Possiamo definire regime un assetto di potere che ha queste tre caratteristiche: 1) capacità consolidate di dominio politico, non limitate al solo controllo del governo nazionale; 2) durata e stabilità temporale; 3) egemonia culturale ed ampio consenso sociale.
Guardando alla storia italiana del secolo scorso è certamente corretto parlare di regime fascista, che aveva tutte e tre queste caratteristiche, ma anche di regime democristiano. Quest’ultimo era apparentemente meno forte sul piano del controllo politico, da qui la necessità di una politica delle alleanze, ma questo handicap era ampiamente compensato dal ruolo assegnatogli dagli Usa nel mondo disegnato a Yalta. La sua egemonia nella società non era di tipo totalitario, ma esprimeva comunque un consenso sociale stabilmente maggioritario.
Sulla base di questi criteri, che ci paiono gli unici oggettivi, possiamo definire regime il berlusconismo del quindicennio 1994-2009? Assolutamente no. Possiamo invece prevederne oggi una sua rapida evoluzione verso una nuova forma di regime? Assolutamente sì.

Dal bipolarismo al bipartitismo imperfetto?
Giorgio Galli, uno degli studiosi più seri della politica italiana, ha previsto recentemente un’evoluzione del bipolarismo in una nuova forma (Galli definiva così anche il regime democristiano) di bipartitismo imperfetto. Dove l’“imperfezione” sta appunto nel dominio sostanzialmente stabile di un partito.
Siamo a questo passaggio? Difficile non vedere una serie impressionante di elementi che spingono in quella direzione. Guardiamo i fatti principali dell’ultimo anno: 1) Berlusconi vince nettamente le elezioni dell’aprile 2008; 2) l’opposizione parlamentare è inesistente e quasi sempre subalterna (vedi il voto sul federalismo, la politica estera ecc.); 3) il Partito Democratico è allo sfascio e vive una crisi politica di cui non si vede la fine; 4) il grosso del centrodestra si unifica nel Pdl (marzo 2009); 5) siamo alle porte di elezioni europee ed amministrative nelle quali i sondaggi annunciano un ulteriore avanzamento delle forze di governo.
La tendenza all’egemonia berlusconiana potrebbe essere più chiara?
Se poi i risultati delle europee incoraggeranno Berlusconi a spingere per il sì al referendum del 21 giugno il gioco sarà fatto.

Il moto reazionario che percorre l’Italia
Finora abbiamo indicato dei precisi fatti politici. Ma un regime non si costruisce solo con manovre tattiche, elezioni, fondazione di partiti. Un regime si costruisce anche (per certi aspetti, soprattutto) con il consenso sociale. Ed un regime reazionario necessita di un moto reazionario nella società.
Questo moto oggi esiste, eccome. La questione del razzismo (ma non solo essa) è lì a dimostrarcelo.
E’ una spinta potente, che affonda le sue radici nella sconfitta del comunismo novecentesco, ma che oggi ha un carburante formidabile: una crisi sistemica del capitalismo in presenza di un’assenza totale di prospettive di trasformazione sociale.
Questa è la differenza fondamentale con il quindicennio precedente. Un popolo lasciato allo sbando da una politica ridotta a governance, da una sinistra ultra-capitalista o al più menopeggista, è oggi largamente in balìa delle peggiori tendenze reazionarie. D’altronde, se i capitalisti non sono più nemici, ci sarà pure da qualche parte un nemico con cui prendersela.
Il frutto più velenoso del berlusconismo è stato l’antiberlusconismo da salotto, l’idea di un’alternativa a Berlusconi fondata su una identificazione ancora più organica con gli interessi delle oligarchie dominanti, la pazzia di gridare “abbasso Berlusconi, viva Montezemolo”, “abbasso Tremonti, viva Padoa Schioppa”.
Ora che il gioco si fa duro i nodi vengono al pettine: quel tipo di antiberlusconismo non ha più spazio alcuno, l’amata borghesia con la puzza sotto il naso si adatta ed ampi strati popolari si gettano nelle braccia del Salvatore. Il regime sarà infatti non solo reazionario ma anche bonapartista. Al popolo non è stato forse insegnato che non bisogna più fidarsi dei partiti, ma solo dei capi?

A forza di gridare “al lupo”
Non ci siamo mai associati a chi, avendo perso la testa, gridava “al lupo” nel 1994, nel 2001 e neppure nel 2008. I gridatori in questione si dividevano in due categorie fondamentali: gli imbroglioni del ceto politico di centrosinistra, gli imbrogliati da quel ceto politico.
I primi gridavano al regime perché non sapevano spiegarsi le ragioni delle loro sconfitte. Loro, così bravi, precisi e puntuali nel dire sì ai banchieri senza fare le corna in pubblico proprio non se le sono mai spiegate le sconfitte. I secondi gridavano al regime come si può dare del cornuto all’arbitro allo stadio, con la differenza che allo stadio si ha in genere una maggiore consapevolezza di quel che si sta dicendo.
Il risultato è che oggi che bisognerebbe gridarlo tacciono tutti. E se a volte (siamo in campagna elettorale) tornano a strillarlo, nessuno più gli crede. Come ci insegna la favola di Esopo, chi mente sempre non può sperare di essere più creduto, nemmeno se per una volta dice la verità.

Il veleno di un quindicennio di bipolarismo
Il vero regime che ha intossicato l’Italia per un quindicennio non è stato il berlusconismo, bensì il bipolarismo. Il fatto che oggi il bipolarismo tenda ad evolversi in bipartitismo, ed ancora in regime bonapartista, è solo la dimostrazione di quanto esso sia stato velenoso.
In questo quindicennio Berlusconi ha vinto le elezioni politiche tre volte (1994, 2001, 2008) e le ha perse due (1996, 2006). La prima volta, però, è stato disarcionato dopo pochi mesi, con il famoso ribaltone del dicembre 1994. Nel complesso, dal maggio 1994 ad oggi, il centrodestra ha governato per 6 anni ed otto mesi, il centrosinistra per 8 anni e quattro mesi: un po’ difficile parlare di regime!
Non solo. Le principali scelte economiche e sociali di questo periodo sono targate centrosinistra. Proviamo ad elencarle? Controriforma delle pensioni (governo Dini, 1995), precarizzazione del lavoro con il pacchetto Treu (governo Prodi, 1997), privatizzazioni (governi D’Alema ed Amato, 1999-2000), giganteschi sgravi fiscali alle imprese (governo Prodi, 2006). Nell’intermezzo 2001-2006 il governo Berlusconi non fece altro che sviluppare quelle scelte, ad esempio sulle pensioni e sulla precarizzazione del lavoro, mentre fallì l’assalto (2002) allo Statuto dei lavoratori.
Cose simili possiamo dirle sulla politica estera. Se Berlusconi (2003) mandò le truppe in Iraq per assecondare la guerra di Bush, che dire del D’Alema bombardatore della Jugoslavia (1999)? Del resto le scelte sull’Europa, la Nato ed il rapporto con Washington sono ancora oggi rigorosamente bipartisan. E non è forse così sull’Afghanistan?
Nel quindicennio considerato le differenze sono state più di forma che di sostanza. Forse la diversità più evidente è che mentre il centrosinistra è stato il partito dei giudici e dei poliziotti, il centrodestra lo è stato solo di questi ultimi. Ma se è rimasto solo questo a far la differenza tra democrazia ed autoritarismo siamo messi davvero bene!
E se oggi il tratto più caratterizzante della spinta reazionaria in atto è il securitarismo, non dimentichiamoci che nell’autunno 2007 il governo Prodi (con il prode Ferrero totalmente allineato e coperto) si riunì addirittura di sabato sera per varare delle misure straordinarie a seguito dell’omicidio di una signora romana. Un fatto di cronaca in un paese di 60 milioni di abitanti portò il governo, spinto da Veltroni, ad un decreto d’urgenza sulla sicurezza. Il decreto poi decadde, Prodi pure ed a seguire anche Veltroni, ma quell’episodio ancora ci parla di una totale internità del centrosinistra alle politiche securitarie e repressive.

Ed ora?
Abbiamo premesso che oggi, per la prima volta, grazie anche ai veleni consegnatici da un quindicennio di bipolarismo, il berlusconismo ha la possibilità di rafforzarsi e di stabilizzarsi nella forma di un autentico regime reazionario.
Breve digressione: è giusto usare il termine “reazionario”? La domanda non è peregrina ed il termine è probabilmente inadeguato, un po’ perché abusato, un po’ perché qui non si tratta di una semplice reazione ad un movimento di trasformazione che peraltro non c’è.
E’ però il termine migliore che ci è concesso dall’attuale vocabolario della politica. Non abbiamo di fronte, infatti, né un semplice conservatorismo, né una riedizione rivista ed aggiornata del fascismo. Quest’ultimo fu un fenomeno reazionario proprio nel senso letterale. Oggi la riproposizione del fascismo sarebbe semplicemente impraticabile, pensiamo a quanti abiti ha dovuto cambiare Fini.
Il berlusconismo 2009 non è neppure semplice autoritarismo. Questo ingrediente c’è, ma è un autoritarismo populista, demagogico quanto basta ad alimentare il consenso e perfettamente integrato nella forma bonapartista che sta assumendo il potere berlusconiano, una forma che si presenta sempre più come mero potere del capo.
Un capo che non solo vuol presiedere e dirigere tutto, ma che è il vero collante dell’armata Brancaleone che gli si raccoglie attorno. Indicativo, in questo senso, il breve percorso che ha portato alla nascita ufficiale del Pdl. Questo partito non potrebbe vivere senza Berlusconi. Egli ha creato Forza Italia e l’ha allargata nel Pdl. Da notare che mentre An ha dovuto fare un congresso di scioglimento, Forza Italia non ne ha avuto bisogno – di cosa avrebbe mai dovuto discutere del resto?
Alleanza Nazionale ha di fatto dovuto subire un processo di assorbimento in una sorta di Forza Italia un po’ più grande, e questo spiega forse il grande nervosismo dell’insulso Fini che ha probabilmente capito che non potrà mai essere il delfino del Cavaliere.
Forte di questo successo, Berlusconi avrà ora, in rapida successione, due passaggi decisivi: le elezioni europee ed il referendum del 21 giugno. Le difficoltà di queste settimane – dalle vicende familiari, alla pubblicazione delle motivazioni della sentenza che ha condannato il suo avvocato Mills – potrebbero indurlo ad un’accelerazione, per cogliere con il referendum, che gli è stato messo gentilmente a disposizione, un’occasione più unica che rara.
Vedremo se ciò accadrà o se prevarranno altre considerazioni, in primo luogo la necessità di preservare il rapporto con la Lega. Quel che conta è comprendere che la costruzione di un autentico regime reazionario è oggi possibile.

Perché oggi è possibile un regime reazionario?
Tante sono le ragioni che rendono possibile una profonda svolta reazionaria.
In primo luogo c’è la famosa trasformazione della quantità in qualità. Dopo tanto parlare di “sicurezza”, non c’è da stupirsi che oggi sia questo il tasto decisivo sul quale costruire il consenso. E dopo tanto parlare di presidenzialismo, c’è forse da sorprendersi se oggi gli italiani vogliono l’uomo “forte”?
In secondo luogo, altri fattori quantitativi – dal crescente consenso elettorale, ad una maggioranza parlamentare quanto mai larga – hanno il loro peso nel determinare una situazione qualitativamente diversa.
In terzo luogo c’è da considerare il diverso atteggiamento dei cosiddetti “poteri forti”, un tempo tanto ostili a Berlusconi ma oggi costretti a tenerselo (basti pensare agli applausi all’assemblea di Confindustria, ma non solo). Il metro di questa mutata situazione ce lo da il panorama della stampa italiana che, salvo le solite eccezioni, è sempre più tenera nei confronti del governo e del suo capo.
In quarto luogo c’è l’incredibile debolezza delle forze politiche che dovrebbero fare opposizione, sia in parlamento che fuori.
Infine, l’elemento più importante: la crisi economica, con le ansie e le incertezze che produce in una società in disfacimento priva di veri ancoraggi politici e culturali.
C’è quindi un accumularsi di fattori, ma senza il dispiegarsi della crisi essi avrebbero probabilmente provocato l’ulteriore incancrenirsi della situazione, non ancora un deciso salto qualitativo.

La crisi non ammette terze vie (almeno non in Italia)
Ma la crisi c’è, spazza via molte certezze lasciando però intatte troppe illusioni. In questo varco tra le certezze che non ci sono più e le illusioni che continuano a prosperare si inserisce il moto reazionario di massa che investe l’Italia. Non si tratta di un moto eterodiretto, bensì della “naturale” risposta ad una crisi che non si vuole guardare negli occhi. Del resto non è stata proprio la sinistra a promuovere la deideologizzazione, decantando le virtù del mercato e del liberalismo? Ed allora perché sorprendersi se anche i lavoratori hanno introiettato da tempo l’idea dell’impossibilità di fuoriuscire dal capitalismo?
E’ chiaro che se si rinuncia alla critica del capitalismo bisognerà pure andare a scovare altri responsabili della crisi, ed è abbastanza “naturale” che essi vengano individuati tra gli “ultimi arrivati”, tra coloro che hanno modificato sensibilmente il panorama cromatico dell’insieme della forza lavoro. E non c’è alcun solidarismo che possa contrastare la spinta reazionaria se non si fonda su un aperto e radicale anticapitalismo.
In sintesi: la crisi non ammette terze vie. Perlomeno non in Italia. O verrà ricostruita e rilanciata una rinnovata prospettiva socialista o sarà bene prepararsi ad una svolta reazionaria, di fronte alla quale il vecchio berlusconismo sembrerà una cosa da ragazzi.
Contro ogni illusionismo la crisi continuerà a produrre disoccupazione, precarietà, impoverimento, incertezza. Il tutto con sullo sfondo la classica soluzione bellica.
Chi scrive non è mai stato troppo convinto dello slogan “O socialismo o barbarie”. Ma forse in questo momento ha una sua grande attualità.

La sinistra di fronte alla crisi
Cosa propone invece l’opposizione di fronte alla crisi? Le forze parlamentari del centrosinistra sanno solo polemizzare con il governo Berlusconi, come se la crisi fosse un fatto meramente italiano. La critica poi non è mai sul merito dei provvedimenti, ma soltanto sulla loro inadeguatezza. In quanto alle proposte, non se ne trova traccia.
La sinistra ormai extraparlamentare dice ovviamente qualcosa di più, ma le proposte non vanno mai oltre il rivendicazionismo sindacale. Mai che si provi a dire la verità sulla crisi e sui suoi inevitabili effetti. In questo modo non si fa altro che alimentare l’illusione, anziché dire chiaramente che si profila un drastico impoverimento di larghissimi strati sociali, ovviamente a partire da quelli meno protetti del lavoro dipendente.
Insomma, mentre nessuno ritiene di doversi dedicare alla ricerca di una prospettiva anticapitalista, tutti accorrono al capezzale del capitalismo. Chi scommettendo sul mercato, chi su una più efficace politica governativa, chi mirando ad una diversa redistribuzione della ricchezza. Ma tutti uniti dalla volontà di salvare il paziente.
Così facendo tutti costoro non fanno altro che portare acqua al mulino berlusconiano, che ha dalla sua un indiscutibile punto di forza, quello di dire concretamente chi dovrà pagare la crisi: gli immigrati ed i lavoratori precari in primo luogo.
Senza dubbio anche questa “soluzione” è illusoria. Ben più ampi saranno gli strati sociali che – in un modo o nell’altro – pagheranno. E tuttavia essa ha una sua efficacia, quella di mantenere aperta la speranza (l’illusione) di poterne restare fuori per milioni di lavoratori italiani.
La posizione della sinistra è dunque non solo inefficace, ma proprio disastrosa, perché non si ricostruisce un’alternativa né con l’antiberlusconismo d’antan, né con la semplice coltivazione (per di più elettoralistica) del simbolo della falce e martello, che ormai non ha più relazione alcuna con la politica dei partiti che lo utilizzano.

Per la cacciata immediata di Berlusconi
La svolta reazionaria è dunque in corso e richiede una risposta immediata. Nessuna sottovalutazione della sua portata può essere accettata.
Questo non vuol dire che si debbano escludere altre variabili. La politica non è una scienza esatta ed a volte gli aspetti secondari possono momentaneamente prevalere su quelli strutturali.
Bloccata per legge (Lodo Alfano) la variabile giudiziaria, siamo oggi di fronte a quella inerente alla vita personale di Berlusconi.
Su questa questione c’è ben poco da dire, se non rilevare il tipico delirio d’onnipotenza del premier, con il corollario esibizionista che ben gli si addice. Sotto questo profilo Berlusconi fa semplicemente pena. E forse un primo ministro che fa pena non è l’ideale neppure per un paese devastato come l’Italia, ma su questo è consigliabile prudenza.
In ogni caso è meglio non farsi illusioni. Berlusconi non toglierà facilmente il disturbo, ed anzi le attuali difficoltà lo spingeranno probabilmente ad un’accelerazione.
I centri del potere economico gli preferirebbero certamente un governo “tecnico”, ma non siamo più nel 1994 e la forza che gli è stata concessa è tanta, e senza dubbio non esiterà ad usarla. La borghesia italiana, che dopo la frana del Pd è ancora alla ricerca del suo “partito ideale”, continua a non amarlo ma sa di doverci convivere.
Una forte campagna per la cacciata immediata di Silvio Berlusconi dal governo è dunque urgente e necessaria. In maniera apparentemente paradossale l’ostacolo più serio al suo dispiegarsi sta proprio nei danni prodotti dall’antiberlusconismo da salotto di questo quindicennio melenso e velenoso.
Ma di fronte al berlusconismo 2009, inteso come concreto progetto reazionario, occorre un “nuovo antiberlusconismo” che niente – ma proprio niente – dovrà avere da spartire con quello distillato dalla bottega concorrente nell’ambito del regime bipolare e delle sue condivise compatibilità.
La campagna per la cacciata di Berlusconi deve essere una chiamata alla lotta, un invito alla rivolta, non solo e non tanto contro una persona, ma contro tutto ciò che rappresenta.

Risposte preventive ad alcune prevedibili obiezioni   
Lo scopo di questo articolo è quello di aprire un dibattito. Né più, né meno. Tesi più strutturate sui caratteri ed i compiti della presente fase potranno scaturire solo da un’ampia discussione. Sarà dunque necessario confrontarsi con diverse obiezioni, alcune prevedibili fin da adesso.

Prima prevedibile obiezione: il berlusconismo di oggi è identico a quello di ieri, o comunque quello odierno è da lì che viene.
A questa obiezione – che definiamo per comodità di destra (Pd, Prc, Idv) –, sensata solo in apparenza, bisogna rispondere che l’attuale tendenza al regime è la concreta risultante di un quindicennio dove berlusconiani ed antiberlusconiani hanno fatto a gara a demolire ogni spazio di democrazia in nome del mercato e dell’atlantismo. La catena che dal sistema maggioritario ha portato al bipolarismo, e da questo ad un bipartitismo tendenzialmente ad egemonia Pdl deve essere l’oggetto della critica più severa e spietata. Questa è la condizione di partenza per poter avviare una vera battaglia politica.

Seconda prevedibile obiezione: le classi dominanti, o se preferite “i poteri forti”, non consentiranno la nascita di un regime incentrato su un uomo che non controllano fino in fondo.
Questa è una classica obiezione di sinistra, alla quale non è difficile rispondere.
Siamo certamente tra coloro che in questi anni hanno respinto in maniera ferma e decisa l’antiberlusconismo, individuando viceversa nel Pd il tentativo più compiuto di dare alla borghesia italiana un proprio partito. Non possono esserci dubbi, le banche ed i maggiori gruppi capitalistici italiani avrebbero preferito avere al governo Veltroni piuttosto che Berlusconi. La ragione è semplice: le classi dominanti vogliono un potere politico che difenda i propri interessi generali di classe, non quello di alcuni gruppi particolari, né tanto meno quello di un singolo capitalista in particolare.
Resta il fatto che il PPB (Partito Perfetto della Borghesia) sembra non sia possibile nella concreta situazione italiana. Le vicende del Pd sono lì a dimostrarlo. Al tempo stesso la borghesia – che, per definizione, è governativa, come ricordava spesso Gianni Agnelli – riesce sempre a stabilire rapporti egemonici anche con partiti imperfetti della propria sponda.
E’ quello che avveniva ad esempio con la composita ed interclassista Dc, alla quale i vertici del padronato italiano avrebbero preferito magari il Partito Repubblicano, ma un governo monocolore presieduto da La Malfa non sarebbe mai andato oltre il 3% dei seggi parlamentari… Dunque, viva la Dc e le sue correnti che già ci va di lusso…
La cosa si ripete oggi. Il puro governo della borghesia non avrebbe in alcun modo i numeri per governare. Dunque bisogna ottenerli per altra via, e nell’odierna situazione il populismo è la forma necessaria per la costruzione del consenso.
Insomma, è vero che i poteri forti vorrebbero un altro governo. L’ideale sarebbe un cosiddetto governo “tecnico” in grado di condurre in porto tutte le peggiori contro-riforme. E’ altrettanto vero, però, che una simile soluzione cozza frontalmente con i concreti rapporti di forza esistenti nel paese.
Da qui la necessità della borghesia italiana di accordarsi con Berlusconi. Questo accordo non sarà mai un matrimonio d’amore, ma solo un incontro di interessi. Tuttavia, almeno per un certo periodo, non si vedono alternative a questa coesistenza.

Terza prevedibile obiezione: i poteri forti cercheranno di uscire da questo rapporto “coatto” costringendo, con le buone o le cattive, Berlusconi ad andarsene.
Questa è la tesi dei complottisti. Una tesi che in questi giorni va assai di moda sia sulle pagine di alcuni giornali berlusconiani, sia in alcuni blog che confondono la politica con la fantapolitica, l’economia con il Monopoli e la geopolitica con il Risiko.
Sia chiaro: i complotti esistono. Sia ancora più chiaro: esistono sempre. Ma – premesso che leggere i fatti sociali, politici ed economici attraverso la lente deformante del “complotto” porta a giganteschi errori di comprensione della realtà – resta comunque il fatto che bisognerebbe capire quando i complotti hanno davvero qualche concreta possibilità di riuscita.
Sarà per un certo grado di inefficienza tipico del nostro paese, ma solo negli ultimi anni si è a lungo vociferato di accordi segreti per approvare leggi elettorali bipartisan. Mai nessuno di questi progetti, certamente esistiti, è andato in porto. Detto per inciso, lo “spirito bipartisan” funziona su quasi tutto (economia, politica estera, securitarismo), ma non esiste nella determinazione delle regole per aggiudicarsi la posta in palio nelle dinamiche interne del sistema bipolare. In altre parole: i due poli si accordano certamente se c’è da tagliare la pensione alla povera gente, ma non se c’è da aggiudicarsi qualche scranno parlamentare o qualche poltrona alla Rai.
Se non vanno a buon fine neppure gli accordi segreti largamente condivisi, potranno mai funzionare i complotti di piccole èlite che vorrebbero rovesciare il tavolo degli attuali rapporti di forza interni al blocco dominante?
Ed in concreto, potrà funzionare questa volta il complotto, magari con l’accusa di pedofilia nei confronti del capo del governo alla vigilia del G8 in terra abruzzese, come dicono di temere a destra? Ci permettiamo di invitare alla cautela.
In molti, nei palazzi del potere, gradirebbero – per ragioni opposte alle nostre – un Berlusconi a testa in giù. Ma Berlusconi, ed il blocco sociale che gli si raccoglie attorno, non è uno scherzo. E’ una realtà sociale potente che non può essere facilmente cancellata con un semplice complotto.
Ovviamente la sua egemonia non sarà eterna. Eterno non è stato il fascismo, e neppure la Dc. Ma pensare che possa essere tolto di mezzo con una semplice congiura è davvero ingenuo.
Naturalmente sono possibili diverse variabili, ma nell’analisi politica è sempre necessario prefigurare in primo luogo lo scenario più probabile, con l’ovvia avvertenza che “più probabile” non significa certo.

Quarta prevedibile obiezione: porre l’obiettivo primario della “cacciata di Berlusconi” non vuol forse dire predisporsi, volenti o nolenti, all’accettazione di una politica delle alleanze piuttosto sbracata?
Si tratta di un’obiezione seria. Estremamente seria.
Siamo talmente immersi nella logica bipolare che se uno pone questo obiettivo, gli altri pensano quasi immediatamente ad un fronte da Draghi (Bankitalia) a Bernocchi (Cobas), o se preferite da Casini (Udc) a Ferrando (Pcl).
Inutile dire che se di questo dovesse trattarsi, sarebbe meglio, ma molto meglio, lasciar perdere.
Tuttavia l’obiezione è fondata, non fosse altro perché individua un rischio tutt’altro che inesistente.
Diciamo di più: se la campagna per la cacciata di Berlusconi dovesse basarsi sulle forze e sui contenuti della vecchia “Unione” di prodiana memoria l’esito politicista ed opportunista sarebbe non un rischio, bensì una certezza.
Occorre allora rovesciare i termini del problema. Possiamo rimanere indifferenti di fronte al rischio di una forte svolta reazionaria? Certamente nessuno risponderebbe di no a questa domanda. Ma se è così, cosa c’è di più forte di una campagna riassunta in uno slogan che evidenzi la necessità assoluta di far fuori Berlusconi?
Una campagna di questo tipo non è immaginabile con l’addizione aritmetica di tutti le forze politiche, sociali e culturali oggi all’opposizione, ma solo con l’attivazione di settori di massa oggi ancora alla finestra.
Anche qui gli sviluppi della crisi saranno decisivi.
Non si tratta soltanto di basarsi su forze fresche e sane, piuttosto che su partiti decotti e corrotti. Si tratta anche di contenuti. Ad esempio, ad un Berlusconi che populisticamente parla di ridurre drasticamente a 100 il numero dei parlamentari, non si risponde con la difesa dell’esistente, ma dicendo che una camera di 100 deputati ci va benissimo a condizione che si ripristini il principio democratico della proporzionale assoluta senza soglie di sbarramento.
Al populismo bisogna opporre la democrazia popolare, non il politicantismo e tanto meno l’elitarismo.

Quinta prevedibile obiezione: chi andrà al governo dopo l’eventuale cacciata di Berlusconi?
Qui la risposta deve essere piuttosto secca. Dato che non siamo così illusi da immaginarci un governo popolare dietro l’angolo, sappiamo che il governo che verrà non sarà certo un governo “amico”.
Ma siamo per la stabilizzazione di un regime o per l’instabilità nel governo del fronte capitalista?
Per le ragioni su cui ci siamo già soffermati in questa fase la stabilizzazione può avvenire solo nella forma reazionaria e bonapartista rappresentata da Silvio Berlusconi.
Ogni altro tentativo di stabilizzazione, con complotto o senza, appare nettamente più debole.
Viva l’instabilità, dunque. L’unico terreno sul quale potrà un giorno riaprirsi una credibile finestra rivoluzionaria.
E viva dunque la cacciata di Silvio Berlusconi. Non perché è “meno presentabile” di altri all’estero, come argomentano i “politicamente corretti” del centrosinistra, ma perché è attorno al Paperone di Arcore che si aggrega il blocco sociale reazionario oggi ampiamente maggioritario in Italia.