Il decreto “anti-crisi” e l’assenza di opposizione

Lo chiamano “decreto anti-crisi” e non si capisce il perché.
La sua portata è modesta prima ancora che iniqua. Sull’autobus del decreto approvato ieri alla Camera viaggiano i soliti regalini agli amici (scudo fiscale), le abituali regalie alle aziende (detassazione degli utili e sconto fiscale per gli aumenti di capitale), la sanatoria per quelle badanti bistrattate come immigrate ma evidentemente necessarie come “serve”.
Di strutturale non vi sarebbe niente, se non fosse – ma guarda un po’! –  per le norme sulle pensioni delle donne (e non solo).

Perché ancora le pensioni?

Cosa ci fa l’ennesima controriforma delle pensioni in un pacchetto che si vorrebbe “anti-crisi”?
Questa domanda non è così banale come potrebbe sembrare.
Ci sono infatti due possibili chiavi di lettura: la prima è che il governo abbia semplicemente colto l’occasione di un decreto omnibus per trasformare in legge le pressioni dell’Unione Europea in materia pensionistica; la seconda è che sia questa la prima avvisaglia di un ritorno in grande stile alla politica dei sacrifici, anche alla luce di un debito pubblico che ormai corre senza freni.
Naturalmente una cosa non esclude l’altra.
Quel che è interessante notare, però, è che il governo non si è limitato ad esaudire le richieste di Bruxelles sulle pensioni di vecchiaia delle donne del pubblico impiego, ma ha voluto fare di più: dal 2015 l’età pensionabile sarà agganciata per tutti alla cosiddetta “aspettativa di vita”.
Ci pare che quella pensionistica sia di gran lunga la questione più importante del decreto ora in discussione al Senato. Altre misure approvate sono certamente ingiuste e criticabili, ma hanno una rilevanza (specie se viste in prospettiva) del tutto secondaria.
E’ significativo che la politica italiana (vedi l’incontro tra Napolitano e Tremonti) sia tutta presa proprio da queste altre parti del decreto. Eccetto quella sulla sanatoria per colf e badanti, che meriterebbe un’analisi specifica, si tratta delle parti che determinano conflitti di interesse e di competenza tra varie istituzioni ed organi dello stato: si discute così animatamente della tassazione delle riserve auree di Bankitalia, delle competenze del ministero dell’ambiente, di quelle della Corte dei Conti in materia erariale, mentre non si discute affatto delle pensioni e degli effetti sociali della nuova normativa.
Questo giusto per dire qual è ormai il rapporto tra la politica del Palazzo e la vita concreta delle persone.

La nuova controriforma

Usiamo volutamente il termine forte “controriforma” perché l’opinione corrente, anche a sinistra, è che si tratti soltanto di un piccolo aggiustamento dei meccanismi previdenziali. Non è così.
Per le donne del pubblico impiego, a partire dal 2010, l’età per andare in pensione di vecchia salirà di un anno ogni due, passando dai 60 anni attuali ai 65 anni del 2018. Così come l’aumento della soglia d’età introdotta dal governo Prodi per le pensioni di anzianità era l’ovvia premessa di un aumento di quella per le pensioni di vecchiaia, una misura oggi limitata al pubblico impiego sarà il presupposto per il prossimo aumento anche per le lavoratrici del settore privato.
Ovviamente il tutto è stato fatto sotto l’insegna ipocrita della “parità tra i sessi”. Un’ipocrisia dettata dall’Unione Europea, ma evidentemente recepita in pieno dal governo italiano e non contrastata di certo dalla minoranza parlamentare (chiamarla opposizione sarebbe davvero troppo).

Non siamo tra coloro che pensano che i rapporti tra i sessi siano rimasti all’ottocento, ma la parità non esiste proprio. Primo perché la quota di lavoro domestico svolta dalle donne è ancora oggi nettamente prevalente, secondo perché la vita lavorativa delle donne resta assai più accidentata di quella degli uomini.
Il primo aspetto è quello che storicamente ha determinato le quote differenziate, e non possiamo pensare che sia superato – come dice qualcuno – “perché oggi tutti hanno la badante”. In quanto al secondo, esso darà luogo ad una vera discriminazione, dato che mentre buona parte degli uomini (almeno al centro-nord) riesce ancora ad andare in pensione con l’anzianità (dunque prima dei 65 anni), per moltissime donne questo sarà quasi impossibile.

L’ennesima truffa

E’ un dato di fatto che quando si parla di pensioni tutto ha l’odore della truffa. Truffaldini i meccanismi di calcolo, truffaldino il sistema delle “quote”, furfantesco quello dei fondi integrativi, e si potrebbe continuare.
Anche questa volta la creatività governativa ha voluto partorire un autentico imbroglio, legato all’aumento della vita media. Dal 2015 l’età pensionabile verrà agganciata a questo parametro, dunque si innalzerà inevitabilmente. Vorrebbero farci credere che, in questo modo, il sistema pensionistico troverà “finalmente” un suo “equilibrio”.
Ma questo equilibrio è già stato trovato – con effetti drammatici per il valore delle pensioni – con l’adeguamento dei coefficienti di trasformazione già previsti per il sistema contributivo. La legge del banchiere che più bipartisan non si può, Lamberto Dini (1995), confermata dal governo Prodi (2007) garantisce già il cosiddetto “equilibrio attuariale”, in concreto un taglio alle pensioni che già nel 2010 sarà del 6-8%, così tanto per cominciare…
Ora, con la nuova legge, ogni aumento dell’aspettativa di vita darà luogo da un lato ad un taglio delle pensioni, dall’altro ad un aumento dell’età pensionabile. I lavoratori, insomma, pagheranno due volte la grave colpa di provare a campare un po’ di più.

Non è scandaloso? A giudicare dalle reazioni nel paese non si direbbe che se ne siano accorti in molti. O forse sì, ma la rassegnazione la fa da padrona.
C’è però uno scandalo ancora più grande. Esso sta nel fatto che si colpiscano le pensioni quando nel 2008 l’Inps ha fatto registrare un attivo di 11 miliardi di euro, e la differenza positiva tra i contributi versati nell’intero sistema previdenziale italiano ed il valore delle prestazioni pensionistiche erogate è pari allo 0,8% del Pil.
Eppure continuano ad accanirsi con la previdenza. Con le controriforme iniziate nel 1992 hanno già tolto dal monte pensioni di questi ultimi 16 anni qualcosa come 250 miliardi di euro, ma ancora non gli basta.
Per portare avanti il loro massacro sociale hanno bipartiticamente avuto la faccia tosta di indicare una quota del Pil (attorno al 14%) da destinare alle pensioni.
Tutti comprendono come, con il forte aumento della popolazione anziana, la definizione di una simile quota (confermata anche nelle previsioni di lungo periodo del Dpef 2010) determini l’impoverimento progressivo dei pensionati, dato che la stessa fetta della torta dovrà essere spartita tra un numero sempre maggiore di individui.

La non opposizione europeista

La mancanza d’opposizione è forse la caratteristica politica più inquietante del nostro tempo. E’ la misura del pesante arretramento democratico che si è prodotto.
Non ce ne stupiamo di certo: questo è il capitalismo reale del XXI secolo, questa è l’Europa reale denominata UE.
La non opposizione – che ieri è giunta a garantire il numero legale alla Camera –  è nel codice genetico dell’attuale minoranza parlamentare (PD in particolare), che peraltro mai e poi mai oserebbe opporsi all’Unione Europea.
E’ questo un nodo che dovrà essere affrontato con la massima urgenza. Che l’attacco all’età pensionabile delle donne sia partita da lì, la dice lunga sulla natura antidemocratica e di classe dell’Europa. E’ prematuro cominciare a pensare ad una forte campagna per mandare al diavolo l’Unione Europea? 

In conclusione

Torniamo ora alla domanda iniziale: perché ancora un attacco alle pensioni?
Certamente per tanti motivi, non ultimo quello di spingere sempre di più verso le pensioni integrative, che fortunatamente (grazie anche alla crisi finanziaria) nel nostro paese trovano ancora una certa resistenza.
Ma probabilmente c’è uno scopo più profondo: rimettere all’ordine del giorno l’esigenza di pesanti sacrifici. Non che negli ultimi anni le classi popolari non abbiano dovuto subire sacrifici di ogni tipo, ma all’orizzonte si profila un salto di qualità e le pensioni hanno anche un alto valore simbolico.

Chi pagherà la crisi? Non scordiamoci mai questa domanda.
La paura del conflitto ha fatto allargare il ricorso agli ammortizzatori sociali, ma questo sarà sufficiente ad evitare le lacrime ed il sangue che necessariamente accompagnano una crisi di queste proporzioni?
Ovvio che no. E siccome non c’è forma di redistribuzione della ricchezza che sembri oggi praticabile dalle classi dominanti, non c’è che da aspettarsi i prossimi attacchi. Saranno ancora più duri, ma senza la consapevolezza di quanto sta avvenendo continueranno a trovarsi la strada spianata, secondo la tecnica boxistica per cui un pugno prepara quello successivo.
Ecco perché occuparsi delle misure odierne del governo, lavorare affinché si manifesti finalmente un’opposizione nel paese, è il modo migliore per cominciare a ricostruire un’alternativa.