Il fumo e l’arrosto della farsa fiscale

 

Prima sì, poi no; poi ancora sì e di nuovo no. Ora siamo al nì, ma di sicuro non è finita.
Se si trattasse soltanto di rincorrere gli annunci ed i controannunci sulla riduzione della pressione fiscale potremmo limitarci ad un po’ di ironia, a commento di una farsa un po’ stantia ma recitata con tanto impegno anche in queste prime settimane dell’anno. Ma dietro al fumo c’è anche l’arrosto, e se la diminuzione del carico fiscale è semplicemente impossibile, il vero obiettivo è una ulteriore redistribuzione della ricchezza verso l’alto. La cosa significativa – in un paese dove tutti amano riempirsi la bocca con la Costituzione – è che questo aspetto sia dato per scontato non solo da Berlusconi, ma anche dai suoi “oppositori” ufficiali.

«Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» (art. 53 della Costituzione). Come mai questo principio costituzionale è dato ormai per dissolto? Come mai questa dissoluzione integrale è perseguita sia da chi la Costituzione la vuole stravolgere, sia da chi almeno a parole dice di difenderla?
La chiacchiera politica di queste settimane si svolge infatti secondo uno schema ben preciso, in cui la discussione è su riduzione sì, riduzione no; mai sul tipo di redistribuzione da attuare, come se tutti fossero già d’accordo sulla drastica riduzione del numero di aliquote, cioè sull’affossamento del principio della progressività.

«Vorrei, ma non posso»

Ripercorriamo intanto le ultime tappe della farsa fiscale.
Il 9 gennaio Berlusconi annuncia che il 2010 sarà l’anno della riduzione delle tasse. Passano quattro giorni e c’è subito il contrordine: «L’attuale crisi economica non permette di ridurre le tasse. Oggi non c’è alcuna possibilità di tagliare le imposte. Sento solo illazioni in giro» (adnkronos, 13 gennaio)
Come faccia tosta niente male. Ma leggiamo la risposta di Bersani: «Quando si tratta di fare propaganda si fa la riforma fiscale, quando si tratta di passare all’atto pratico si fa la giravolta».
«Riforma fiscale», o piuttosto ulteriore controriforma di classe a favore dei redditi più alti? Su questo la ditta bersaniana non ha niente da dire.
La stessa sceneggiata si è riprodotta nello scorso fine settimana, con il centrodestra che fa un passo avanti e due indietro ed il Pd che si limita a registrarne le contraddizioni, senza mai entrare nel merito delle ipotesi in campo.
Questa guerra della propaganda è in verità piuttosto ridicola. Se Berlusconi vuole accreditare il solito «Vorrei, ma non posso», dall’altra parte il gioco di rimessa appare quantomeno stucchevole.

Ma qual è l’arrosto?

Se dal punto di vista propagandistico le cose sono chiare, non meno evidente è la direzione di marcia che si vuole imprimere con forza ad una controriforma che – per ora in stand by a causa della crisi – le classi dominanti vorranno prima o poi incassare. E mai come in questo caso il verbo «incassare» è da intendersi in senso letterale.
Quale sia questa direzione di marcia è ben noto: 1) ridurre le 5 aliquote attuali (23, 27, 38, 41, 43 per cento) lasciandone soltanto due, al 23 ed al 33%, 2) recuperare almeno in parte i minori introiti sulla tassazione dei redditi con un aumento dell’IVA.
L’effetto combinato di queste due operazioni colpirebbe a morte quel poco di progressività che ancora esiste nel sistema fiscale italiano. E che resiste soltanto nel campo della tassazione dei redditi (l’attuale Ire, l’ex Irpef) perché, come noto, non solo l’IVA è uguale per tutti, da Berlusconi al lavoratore precario, ma non esiste nessuna progressività neppure nella tassazione delle rendite finanziarie. Per capire quanto sia bassa la progressività, basti pensare che l’Ire copre soltanto il 20% delle entrate fiscali. Ebbene, anche questa residuale progressività dà evidentemente fastidio a lorsignori. Ecco allora la proposta di arrivare a due sole aliquote, con un enorme beneficio per i redditi più alti.
Per non perderci in troppi calcoli, facciamo l’esempio di quanto guadagnerebbe un professionista con un imponibile di 200mila euro annui, in base all’ipotesi apparsa sulla stampa di un’imposizione del 23% fino a 100mila euro e del 33% al di sopra di questa soglia. Con il sistema attuale, la tassazione è pari a 79.170 euro (aliquota media del 39,6%), con quello proposto la sua tassazione scenderebbe a 56.000 euro (aliquota media del 28%), ottenendo un risparmio di ben 23.170 euro all’anno. Ovvio che tale risparmio è destinato a crescere con l’aumentare dell’imponibile: insomma un vero e proprio meccanismo di redistribuzione verso l’alto, a tutto vantaggio dei redditi più elevati.
Per rendere meno indigesta questa operazione il governo sta pensando ad uno strumento compensativo, il cosiddetto «quoziente familiare»,  che determinerebbe comunque un riequilibrio minimale, utile più che altro a fini propagandistici.
Questo, in sostanza, è l’arrosto che si sta preparando. Il fatto che non possa ancora andare in tavola non cambia la natura del piatto che si sta cucinando. Ed il silenzio sulla natura classista di questa operazione dà la misura di quanto la politica italiana sia tutta interna alle logiche del pensiero unico turbo-capitalista.

Dove sta la ricchezza

La scelta di rendere ancor più ripida la piramide sociale si colloca in un quadro segnato da profondissime disuguaglianze.
Secondo i dati di Bankitalia, il 45% della ricchezza complessiva (ben 8.500 miliardi di euro) è detenuta dal 10% delle famiglie. All’interno di questo 10% c’è un nucleo del 2,5% che possiede più del 21% delle attività finanziarie, pari a 779 miliardi di euro. Questa enorme ricchezza è tassata in maniera irrisoria. Basti pensare che il totale delle imposte sulle attività finanziarie è di circa 14 miliardi, una cifra ridicola di fronte ai 121 miliardi di tasse pagate dai lavoratori dipendenti sui 417 miliardi del monte retribuzioni.
Si potrebbe continuare, ma probabilmente non è necessario: tutti conoscono le iniquità crescenti nella nostra società in generale e quelle del sistema fiscale in particolare. Resta il fatto che «non gli basta mai» e che vogliono un sistema ancora più ingiusto. Questo è il succo della «grande promessa» berlusconiana, da contrastare radicalmente per quello che è, non per l’impossibilità attuale di mandarla in porto come fanno invece i dirigenti del Pd.