Se questo è il Partito Democratico

L’intervista di D’Alema al Sole 24 Ore

Ci siamo occupati, l’altro ieri, del convegno di Parma di Confindustria. Segnalavamo come il basso clero della borghesia padana, non senza disappunto dei vecchi cardinali del Capitale, si sia spellato le mani per osannare l’archetipo di ciò che questi peones vorrebbero essere, ovvero  Silvio Berlusconi. A rappresentare il PD c’era Bersani il quale ha svolto, senza infamia né lode, il melenso discorsetto a cui ci ha abituati. Ben sapendo chi sia il demiurgo dei “democratici”, Il Sole 24 Ore, ha ben pensato di fare una corposa e programmatica  intervista a D’Alema, pubblicandola proprio domenica 11 aprile, affinché i peones padani se la trovassero per mano e si ficcassero bene in testa quale sia il cavallo di razza, il deus ex machina su cui le eminenze grigie del grande Capitale fanno affidamento per preparare l’agognato dopo-Berlusconi.

Consigliamo vivamente i nostri lettori, se vogliono farsi un’idea di ciò che bolle in pentola, di andarsi a leggere questa intervista. (clicca qui).
L’intervista verte essenzialmente sulla questione delle “rifome istituzionali”, eufemismo per significare come sancire, anche formalmente, la messa in mora della Costituzione e la trasformazione del Parlamento da organismo sovrano per eccellenza ad adunanza di passacarte.

Formalmente D’Alema ripropone il cosiddetto “modello tedesco”. Non abboccate, è fumo negli occhi. D’Alema sa infatti benissimo che nemmeno nel suo partito c’è consenso a quest’idea, che dunque ben altro si sta preparando nel retrocucina del Palazzo. Si capisce fra le righe che il piatto in elaborazione è il presidenzialismo gollista, chissà perché eufemisticamente chiamato “semi-presidenzialismo”. La disputa con Berlusconi verte piuttosto sul sistema elettorale, che D’Alema e Fini (e perché no, anche la Lega) vorrebbero con doppio turno, mentre il Cavaliere, preso dalla brama di diventare monarca, preferirebbe un turno secco, per cui potremmo avere un Presidente anche con una maggioranza relativa dei consensi (leggi minoranza). La risposta di D’Alema, rivelatrice delle sue effettive intenzioni, è chiara:
«E’ evidente che un presidente della repubblica eletto dai cittadini, sul modello francese, non può essere espressione di una maggioranza relativa. C’è un problema di legittimazione democratica. Per questo serve il doppio turno, perché attraverso il doppio turno si forma una maggioranza assoluta. Se non lo si vuole ci si dimentichi il presidenzialismo. Le due cose vanno di pari passo, come è evidente e come ha detto Fini».

In parole povere il PD, e vedremo se si trascinerà dietro i dipietristi, si siederà al tavolo negoziale con Berlusconi, accettando l’ordine del giorno da quest’ultimo proposto: come eviscerare il Parlamento per trasferire le sue prerogative ad un uomo solo, eletto più o meno plebiscitariamente. Da un’opposizione pusillanime cos’altro ci si poteva aspettare? Ma da questa disponbilità, da quest’inciucio, tanto caldamente perorato da Napolitano, non se ne deve dedurre che l’accordo sia davvero probabile. Non lo è invece, poiché Berlusconi non accetterà mai una legge elettorale alla francese. E dunque? E dunque l’ipotesi più probabile, se nel frattempo non giunge un terremoto che disarticoli gli equilibri usciti dalle urne, è la rissa, e quindi una controriforma unilaterale, adottata a maggioranza dai berluscones. Il Cavaliere avendo messo nel conto la defezione dei finiani, avrà fatto i suoi conti, e deve tenersi buona la Lega, senza la quale Addio sogni di gloria. Ammesso che Berlusconi voglia davvero andare dritto per la sua strada, avremo tuttavia, non solo la rottura coi finiani, ma il referendum confermativo un anno dopo l’approvazione in Parlamento delle modifiche costituzionali il quale, ricordiamolo, non abbisogna del quorum 50%+1 (si tenga a mente  quello sul “Titolo quinto della costituzione” o sulla devoluzione, voluto dal centro-sinistra, e che passò col misero 25% dei votanti).

Tuttavia D’Alema non si è fermato alle questioni di ingegneria costituzionale. Se non bastassero — a confermare che il PD è una seconda destra e che esso non è alternativo ma solo alternante al PDL — le posizioni sulla forma di governo, i dubbi ai dubbiosi vengono tolti dalla seconda parte, quella in cui si sofferma sull’economia e le ricette per uscire dalla crisi. Anzitutto D’Alema svolge una arrogante quanto disarmante difesa d’ufficio dei governi di centro-sinistra (“comunisti”, ma voi c’eravate!), sentiamo:

«Ha ragione Emma Marcegaglia: è tempo di fatti, non più di promesse. La destra si è presentata come una grande forza di modernizzazione del paese ormai 16 anni fa. Un tempo storico, sarebbe il tempo di fare un bilancio anziché insistere con le solite promesse. Si è seriamente ridotta in questi anni la pressione fiscale in Italia? No. Si sono realizzate la semplificazione della burocrazia e la riduzione della spesa corrente? No. Non si è fatto nulla. In 16 anni nulla. Le uniche riforme vere, anche se certamente in misura insufficiente, le abbiamo fatte noi: da quella delle pensioni alle privatizzazioni, all’entrata nell’euro, alle prime liberalizzazioni. Loro magari le hanno smontate, come avviene oggi sulle tariffe minime dei professionisti. Così i problemi da affrontare sono ancora lì: le incrostazioni corporative, la necessità di una maggiore mobilità sociale, la meritocrazia, la liberalizzazione dei mercati, la costruzione di un nuovo patto sociale più favorevole alle generazioni più giovani».

Nessun segno di resipiscenza, al contrario una boriosa rivendicazione delle politiche antipopolari, liberiste e privatizzatrici, quelle che hanno spostato quote enormi di ricchezza nazionale e sociale nelle tasche delle grandi corporazioni finanziarie. Infatti:

«Io credo che tra le riforme importanti che sono state fatte in questo paese ci siano quelle a firma Amato-Ciampi che hanno liberato il sistema bancario dal condizionamento della politica. È stato un passo decisivo per il paese, spero che non si torni indietro».

Riguardo all’idea di paese che ha D’Alema, ovvero quale potrà essere la politica di un eventuale governo a guida PD, tenetevi sulla seggiola:

«Sì, io dico più liberalizzazioni, più concorrenza, più incentivi al merito e alla qualità. E poi penso che sia maturo il tempo per discutere un nuovo patto sociale, con il grande tema delle tutele del nuovo lavoro. In Italia abbiamo, da una parte, la tendenza a proteggere eccessivamente chi è già garantito e, dall’altra, ci incrudeliamo sui nuovi lavoratori che sono davvero privi di garanzie e tutele. Dobbiamo invece costruire un nuovo patto solidaristico universale. Questa sì che è una delle grandi riforme fondanti necessarie».

Avanti tutta, quindi, con l’idea che il profitto capitalistico è la sola molla dello sviluppo, con la tesi che questo è il migliore dei mondi possibili. Avanti tutta con le privatizzazioni, con le politiche del rigore di bilancio, con la deregulation (all’americana) del mercato del lavoro, coi patti concertativi e neocorporativi (alla tedesca) che fanno degli operai soci del padrone e dei sindacalisti guardie giurate dell’azienda.

L’aveva detto a suo tempo il non compianto Avvocato, e visto cosa non riesce a fare il populista Berlusconi, aveva proprio ragione. “Qui in Italia, solo la sinistra può applicare politiche di destra”.