Perché è fallito il Forum sociale europeo di Istanbul
Dal 1 al 4 luglio si è svolto ad Istanbul il 6° Forum sociale europeo. Parlare di fallimento può sembrare esagerato, ma chi c’è stato sa che non lo è.
Per comprendere a pieno di cosa stiamo parlando leggiamo lo scarno resoconto che troviamo sul sito della CGIL (che assieme ai Cobas formavano il grosso della delegazione italiana):
«Almeno 3mila persone – secondo il comitato organizzatore turco – hanno partecipato alle diverse attività del forum, in circa 250 tra seminari e incontri sui diversi temi. Centrale è stata la questione della crisi economica, dei suoi drammatici effetti sulle condizioni dei lavoratori e dei diversi soggetti sociali, sulle risposte da dare alle gravi decisioni di molti governi europei di tagliare ulteriormente la spesa sociale, penalizzare i lavoratori pubblici e privati, deprimere l’occupazione e ridurre i diritti dei lavoratori.
Il tema dell’unificazione delle lotte tra sindacati e movimenti sociali è stato al centro dell’assemblea dei movimenti tenutasi domenica mattina, nella quale, oltre a raccogliere le proposte di analisi e mobilitazione venute dalle diverse aree tematiche del forum, è stato lanciato un appello per far convergere, attorno al 29 settembre, giornata di azione europea promossa dalla CES, tutte le iniziative di mobilitazione delle reti, associazioni, campagne che si riferiscono al Forum Sociale Europeo».
Se tremila persone vi sembran tante, provate a fare un confronto con le decine di migliaia che parteciparono a quelli precedenti, in particolare a quello di Firenze del 2002. Di acqua, da allora, ne è passata sotto i ponti, anzitutto è sopraggiunta una crisi gravissima del capitalismo internazionale e di quello europeo in particolare. Si sarebbe potuto pensare che questa crisi avrebbe dato slancio al movimento no global, ed invece è accaduto l’esatto contrario. Proprio quando la storia ha chiamato questo movimento alla prova decisiva, a diventare cioè il perno della resistenza sociale e di una nuova e ampia opposizione, il Social forum si è avvitato su sé stesso, ha anzi subito un crack strutturale dal quale difficilmente potrà riprendersi.
Quali sono le cause di questa implosione? Come si sarebbe detto una volta, esse sono di natura oggettiva e soggettiva. L’avvento della crisi non ha prodotto, o almeno, non ha ancora prodotto, né la radicalizzazione del conflitto sociale, né la sua estensione. Sotto gli occhi di tutti sono le difficoltà della resistenza sociale, sindacale e politica. Ad un organismo quale il Social forum, che pretende di essere un grande collettore di movimenti, è venuta dunque a mancare la linfa vitale.
Questo processo di essiccamento è stato aggravato dal fatto che la crisi economica e lo sfilacciamento del tessuto sociale che ne è conseguito hanno prodotto non una tendenza al conflitto anticapitalista ma, al contrario, all’intesa corporativa e interclassista, di cui il populismo è una delle espressioni politiche. Le sacche di resistenza proletaria sono minoritarie e per di più prive di un’adeguata rappresentanza sindacale e politica.
Peggio ancora: siccome i sindacati e le sinistre tradizionali, per un ventennio, hanno adottato la strategia della corresponsabilizzazione con le politiche neoliberiste, siccome proprio le sinistre di numerosi paesi si sono fatte campioni della cosiddetta “globalizzazione”; ciò ha prodotto e sta producendo, proprio nel mondo del lavoro non solo un distacco disincantato da partiti e sindacati di sinistra, ma addirittura l’avanzata di spinte profonde reazionarie e xenofobe, giunte fino ai massimi livelli istituzionali. La storia presenta sempre il suo conto, prima o poi. Il Social forum paga a caro prezzo il suo decennale e imperdonabile collateralismo verso le sinistre sistemiche. Se se ne fosse sbarazzato per tempo forse non staremmo a parlare oggi di fallimento.
Cause oggettive e soggettive non sono separate da una muraglia. La crisi e l’attacco capitalistico alle condizioni di vita e ai diritti dei lavoratori, dei giovani, degli immigrati chiedevano e chiedono una risposta politica complessiva, se non univoca, unitaria; risposta che il Social forum non è stato e non è in grado di fornire. Non può fornire per sua natura, per suoi limiti intrinseci. “Un altro mondo è possibile”, ma quale? Proprio mentre la situazione obbiettiva richiede sia indicata con nettezza un’alternativa, la fuoriuscita dal capitalismo, il Social forum ha mostrato tutta la sua smisurata inadeguatezza. Rottura rivoluzionaria e socialismo sono ancora due tabù, e il solo evocarli suscita o rimbrotti o un’alzata di spalle. In fin dei conti il resoconto della CGIL è fedele: non si è andati al di là della proposta di una mobilitazione (ma nessuna piattaforma è stata indicata con nettezza) attorno al 29 settembre: guarda caso proprio la giornata che i sindacati di regime avevano già scelto, per fatti loro, come data per una liturgica e inconsistente manifestazione a Bruxelles. Il che esprime bene, più d’ogni altro proclama massimalistico, un codismo neanche malcelato verso i grandi apparati sindacali sistemici.
Ma parlavamo dei limiti intrinseci del Social forum. Essi sono di quattro tipi. Il primo attiene proprio alla configurazione organizzativa che esso si è dato. La preoccupazione di tenere dentro tutto e il contrario di tutto, se ha pagato nella “gloriosa” fase iniziale, è diventata un limite micidiale. Il Social forum non voleva essere un fronte nel senso classico del termine. Un fronte implica infatti che dei soggetti politici convergano su una piattaforma politica e un orizzonte non meramente tattico, e siano in grado di dar vita ad un centro operativo unitario. Il Social forum ha invece respinto questa forma “novecentesca”, al posto del patto tra soggetti politici ha preferito la convergenza orizzontale tra “movimenti”, che spesso era solo un travestimento di precise soggettività politiche. Era l’apoteosi della cosiddetta “società civile”, la rivalsa della rappresentazione puntiforme e americanista dei movimenti “single issue” su quella classista tradizionale. Questa conformazione, che non è caduta dal cielo ma era un prodotto di una determinata fase e composizione sociale, non poteva che andare in frantumi con la crisi sistemica, la quale ha mostrato tutta l’inadeguatezza del movimentismo civilista — che non è caduto dal cielo ma è stato il sigillo impresso al Social forum dalla generazione dei sessantenni e dei cinquantenni, visivamente dominante, cresciuta nella cultura del ribellismo libertario sessantottesco. Il contenuto è stato insomma subordinato alla forma, all’amore estetizzante per l’orizzontalità (dietro alla quale, come sempre, si nasconde uno scaltro verticismo).
Il secondo limite attiene di conseguenza alla compresenza di una molteplicità sconclusionata di voci, linee e idee, che proprio perché il Social forum è una specie di suk in cui ognuno può recarsi per presentare la sua mercanzia, non starebbero insieme per più di un istante. Nell’ambiente questo caravanserraglio politico è chiamato “ricchezza” o “contaminazione”. Salvo scoprire che dietro a questa “ricchezza” c’è la pura e semplice paralisi, visto che ognuno esce dai consessi socialforumisti così come c’è entrato. Quello che viene dipinto come “confronto” è il più delle volte un dibattito tra sordi, sordi i quali non potendo fare a meno l’uno dell’altro, alla fine decidono sempre di sottoscrivere un formale trattato di non belligeranza.
Il terzo limite riguarda la composizione sociale del Social forum, quanto meno quello europeo. Per quanto ci si sforzi di rappresentare il mondo del lavoro salariato, salta agli occhi che esso è, in quanto a composizione sociale, un aggregato di classi medie, spesso anzi di vere e proprie elite, certo marginalizzate, ma pur sempre quella che si potrebbe definire crema sociale. Nessun operaio resisterebbe più di mezza giornata ai dibattimenti sfiancanti del Social forum, che si attagliano invece perfettamente all’intellighentia occidentale. Ciò contribuisce a spiegare i limiti di cui sopra e le enormi difficoltà ad intercettare il lavoro salariato, a calarsi in un sociale che non sia quello delle battaglie civiliste per i diritti democratici delle donne, delle minoranze, ecc.
Il quarto limite, che noi andiamo denunciando da tempo e che è emerso in maniera chiarissima a Istanbul, è l’eurocentrismo. Cos’è l’eurocentrismo? E’, in parole povere, l’idea che l’Europa sia ancora l’ombelico del mondo, la malcelata presunzione di essere più avanti degli altri, di poter dare lezioni politiche, di considerarsi “migliori”. Dietro a questa pretesa c’è al fondo un pregiudizio, quello per cui la civiltà Europea, nel bene e nel male, sia ancora il faro del progresso. Ove progresso significa anzitutto l’aperta rivendicazione della tradizione illuministica di radicale secolarizzazione della politica. Se c’è stato un sostrato “terzomondista” nel movimento no global, esso si è dissolto. Bastava assistere ai lavori del Social forum, per verificare quanto fosse alto il grado di occidentalismo, che sprizzava da tutti i pori anzitutto dalle delegazioni francesi. L’occidentalismo patogeno si esprime in maniere spesso sottili, a volte sfrontate. Consiste in un stile di lavoro, nella maniera spocchiosa di articolare il discorso o di stabilire il rango delle questioni all’ordine del giorno. Ma si esprime anzitutto nel pregiudizio, al limite del razzismo, verso culture altre da quella europea, anzitutto quella islamica, al fondo considerata una sopravvivenza retrograda, un grumo di oscurantismo della modernità.
Alcuni si sono stupiti che il Social forum di Istanbul si sia svolto nella più totale indifferenza della metropoli, dei cittadini, dei media. In effetti si percepiva la siderale distanza tra i convenuti e il mondo circostante, a partire dai dipendenti dell’università in cui si sono svolti i lavori, del tutto ignari di cosa fosse il Social forum, non in grado nemmeno di dare le informazioni più elementari. La qual cosa è stata fraintesa come un limite riferibile alle organizzazioni locali, a come esse hanno organizzato e gestito il Social forum stesso. Vero è che la disorganizzazione è stata grande, a partire dalle traduzioni. Certo il caos è dipeso dallo scollamento in seno al comitato organizzatore turco, e dalle divisioni politiche al suo interno, vero è che ogni corrente politica ha anzitutto fatto il suo gioco.
Tuttavia queste deficienze hanno una causa più profonda, tutta politico-cuturale. Per quanto divisi fossero tra loro, gli organizzatori turchi erano accomunati da un comune sentire, da un medesimo approccio generale. Il problema si chiama proprio secolarismo, di cui la sinistra turca è permeata fino nelle midolla. E’ questo che spiega la distanza che la separa dagli strati più profondi della popolazione, anzitutto quelli più poveri. In Turchia il secolarismo, nella forma di un virulento e fascista laicismo, è stato incarnato anzitutto dal kemalismo. In nome della modernizzazione autoritaria il kemalismo ha impresso al sistema un carattere indelebile, che sprizza ancora da ogni poro della società. Era buffo che in ogni aula ove si svolgevano i lavori campeggiava alla spalle della presidenza il ritratto di Kemal Atataurk. Nessuno ha osato rimuovere quelle effigi, tanto meno gli organizzatori turchi, perché essi sanno bene che le autorità di polizia (che restano in mano ai kemalisti) avrebbero semplicemente chiuso il Social forum e cacciato tutti i convenuti. E’ come, tanto per fare un esempio, se il forum si fosse svolto in Cile all’ombra dei ritratti di Pinochet, o in Spagna con ancora quelli di Francisco Franco. Ed era il colmo dell’assurdo che proprio all’ombra di Kemal Ataturk si era costretti ad ascoltare, tra l’altro, violente invettive libertarie di questo o quello contro i tiranni Putin o Ahmadimejad, la dittatura cinese o birmana.
Il Social forum si è svolto nella più totale indifferenza non solo perché i settori politici kemalisti, ancora fortissimi in Turchia, non vedono di buon occhio le sinistra radicali. Queste ultime, proprio a causa del loro secolarismo non hanno voluto neanche minimamente interloquire con la società civile islamica, nemmeno con quella collocata apertamente a sinistra, per non parlare dell’islam antimperialista. E’ come minimo curioso che nel paese che ha promosso la Freedom Flotilla, il Social forum non si sia posto nemmeno il problema di dialogare con i suoi organizzatori.
Neanche una parola, almeno a quanto abbiamo potuto sentire, è stata spesa per ricordare i nove martiri turchi ammazzati dai sionisti. Mentre anche l’ultimo e più spoliticizzato dei cittadini turchi da un mese non parla d’altro, visto che la questione è stata al centro dello scontro politico in Turchia e nel mondo intero.
E’ chiaro quindi perché il forum si è svolto nella totale indifferenza, perché non ha nemmeno cercato di entrare in contatto e di farsi ascoltare dalla parte più sana della società turca, quella parte che da sempre combatte il modernismo autoritario di regime e che considera il governo di Erdogan, un “male minore” rispetto all’ipotesi che tornino al potere, con il lasciapassare degli Stati Uniti e di Israele, i militari kemalisti. Vi sembra normale che in un Social forum che in tre giorni ha visto susseguirsi quasi 250 seminari, non ci sia stato spazio per discutere della situazione turca, della svolta geopolitica che Erdogan sta imprimendo al paese, o del peso dell’Islam nella società e delle ragioni del conflitto, che tocca anche i massimi vertici istituzionali, tra i settori islamisti e quelli kemalisti?
E’ dunque chiaro perché il forum è sembrato una spedizione marziana, perché è scivolato come acqua sul corpo dilaniato della società turca. Gli europei pagano il prezzo della loro spocchia culturale, dell’aver scelto un paese senza l’umiltà di capirlo, di essersi infine affidati a forze locali in virtù, non della loro effettiva internità alla società turca, quanto della affinità culturale alla sinistra occidentale.