Bye Bye Euro

Le decisioni dell’Ecofin e il contagio certo

L’11 febbraio scorso, nell’articolo «Sopravviverà l’Euro fino al 2015»,  sull’onda del piccolo cataclisma greco, sostenevamo, dati alla mano, che da Atene si sarebbe propagato un contagio che avrebbe finito per travolgere la moneta unica. Alcuni fecero spallucce, ritenendo il nostro pronostico sesquipedale. I dati, com’è ovvio, da soli dicono poco o nulla. Noi li portavamo a sostegno di una tesi: che l’immensa liquidità messa in circolo dopo il crollo del settembre 2008 (che continua ancora oggi con il quantitative easing varato dalla Federal Reserve USA e la liquidità a basso costo assicurata dalla Bce mediante l’acquisto di titoli pubblici rischiosi e il finanziamento delle banche) lungi dal rianimare il ciclo economico, cioè dal finanziare investimenti produttivi, andava ad alimentare le pulsioni predatorie della rendita-speculazione-finanziaria, il circuito perverso del capitalismo-casinò, e quindi a gettare le basi di una nuova gigantesca bolla, lasciando questa volta sul tappeto, non questo o quell’agglomerato bancario ma, appunto, la moneta unica.

Come afferma Marcello Messori: «I settori bancari e finanziari, che hanno ripristinato comportamenti pre-crisi o che si sono esposti nei confronti del debito sovrano europeo a più alta probabilità di default, lucrano così un duplice vantaggio. Essi dispongono di accessi pressoché illimitati alla liquidità e continuano a fruire di un’implicita assicurazione pubblica [in caso di insolvenza, Nda]. Insomma: dopo aver innescato la più grave crisi degli ultimi 75 anni e gli squilibri nei bilanci pubblici, molti settori bancari e finanziari appaiono come i veri beneficiari delle politiche fiscali di stabilizzazione e delle politiche monetarie espansive». [CORRIERE ECONOMIA, del 29 novembre]

Il salvataggio in extremis della Grecia, approntato agli inizi di maggio dell’Ecofin e dalla Bce, fece sì che i nostri critici ripetessero a pappagallo quanto allora andavano sostenendo i tecnocrati di Francoforte: «Il peggio è passato, la moneta unica è al riparo». Spiegammo invece che il peggio doveva ancora venire. Nell’articolo «Il rimbalzo di Pirro» non solo dicemmo che il salvataggio della Grecia era avvenuto a tutto vantaggio dei creditori (banche tedesche e francesi anzitutto), dicemmo che il collasso della Grecia era solo posticipato, che sarebbe venuta la volta dei PIGS, anzi dei PIIGS (Italia quindi inclusa). Passeranno infatti pochi mesi e sarà la volta dell’Irlanda, sull’orlo del tracollo, non tanto a causa del debito pubblico o sovrano, ma delle colossali passività del sistema bancario irlandese. Un sistema che aveva artificialmente alimentato la bolla immobiliare e che ora si trovava alle prese con crediti inesigibili.

Di salvataggio in salvataggio

Dopo settimane di incertezza, dovute anzitutto alle resistenze tedesche a correre in soccorso a Dublino  – settimane culminate nell’affermazione minacciosa della Merkel che non solo un default dell’Irlanda era plausibile, ma non era più da escludere l’uscita dall’eurozona dei “maiali”, poi formalmente ritrattate – il vertice Ecofin del 28 novembre ha deciso di prestare all’Irlanda 85 miliardi di dollari.

Tanto per farsi un’idea di ciò di cui stiamo parlando, il PIL dell’Irlanda ammonta a circa 130 miliardi di euro, mentre la capitalizzazione del sistema bancario irlandese è circa otto volte più grande. Una colossale montagna di carta straccia: «Il circolo vizioso è spaventoso. La situazione è per certi versi simile a quella islandese. Mentre in Grecia il problema è prevalentemente di finanza pubblica, in Irlanda il tema è soprattutto bancario. Il paese, come l’Islanda, ha istituzioni finanziarie troppo grandi e troppo indebitate rispetto al peso specifico dell’economia nazionale».
[Il Sole 24 Ore del 24 settembre 2010]

Soldi prestati, com’era ovvio, a tutto vantaggio dei creditori, cioè ad un congruo tasso d’interesse (attorno al 6%, superiore al 5,2% del tasso strappato dalla Grecia). Si è voluto così salvare il colabrodo del sistema bancario irlandese, per precisione è stata data assicurazione alle banche, agli hedge fund, ai fondi d’investimento ad alto rischio, ai possessori dei titoli di stato in genere esteri più esposti in Irlanda, che non perderanno una lira. O quasi.

Il vertice Ecofin è infatti andato incontro alla sacrosanta richiesta tedesca per cui, in caso di bancarotta o default, non solo i debiti sovrani potrebbero essere ristrutturati, ma che a pagare lo scotto di eventuali crack sarebbero stati gli stessi creditori privati. Non è ancora chiaro in quale percentuale i creditori privati dovrebbero pagare (haircut in gergo) lo scotto di eventuali insolvenze o “crisi di liquidità”. Per di più, ancora una volta sotto la pressione tedesca, l’Ecofin ha stabilito che, sempre in caso di insolvenza di un paese, la precedenza nell’incassare i quattrini dei salvataggi l’avranno i creditori sovrani, gli stati insomma, non quelli privati. E’ a questa condizione che la Germania ha finito per accettare l’istituzione di una specie di Fondo monetario europeo (European Stability Mechanism-Esm) con una dote di 440 miliardi.
Il fatto eclatante tuttavia, è un altro. Per la prima volta viene contemplata la possibilità del default, della ristrutturazione del debito sovrano (ad esempio: taglio dei tassi o del valore dei titoli, allungamento delle scadenze): una prospettiva solo pochi mesi fa impensabile.

Malgrado la clausola che prevede siano anche gli speculatori a pagare i prossimi default entrerà in vigore non prima del 2013, i diretti interessati, leggi i protagonisti del capitalismo-casinò, hanno subito reagito, facendo crollare (lunedì 29 novembre) le borse europee, automaticamente scatenando una fuga dai titoli di stato, la qual cosa ha accresciuto, portandoli ai massimi storici, i differenziali tra i titoli dei PIIGS e quelli tedeschi. L’Ecofin sperava con le sue mosse di scongiurare la diffusione del contagio, ovvero l’allargamento della crisi dei debiti sovrani a Portogallo e Spagna, ha invece ottenuto l’effetto opposto: il contagio ha sfiorato anche l’Italia. E quindi ci risiamo: non PIGS, ma PIIGS.

All’ultima asta dei Btp di lunedì 29 novembre, il Tesoro italiano ha si piazzato la sua mercanzia «… ma ha dovuto cedere alle pressioni della domanda, con un aumento di oltre mezzo punto rispetto all’emissione di ottobre. Il Btp triennale è stato aggiudicato al tasso lordo annuo del 4,43%, in rialzo di 54 punti base contro l’asta precedente». [Il Sole 24 Ore del 30 novembre 2010]

Un serissimo campanello d’allarme per il governo italiano, se si pensa che solo nel 2011 il Tesoro dovrà mettere all’asta qualcosa come 200 miliardi di euro di titoli di stato. Se la tendenza alla fuga dai titoli pubblici dei PIIGS (vogliamo chiamarli finalmente “titoli tossici”?), quindi dall’euro, proseguirà nei prossimi mesi, come tutto lascia pensare, quale sarà la quota d’interessi che il Tesoro dovrà garantire per mandare in porto le prossime aste? Gli analisti sono pessimisti. La  speculazione predatoria sta già travolgendo Portogallo e Spagna, dopo toccherà all’Italia. In definitiva, colpendo i PIIGS, essa scommette contro l’euro, ovvero da per certo che in caso di default di questi paesi, non ci sarà piano di salvataggio che tenga. Chi ha in tasca titoli di questi paesi potrebbe trovarsi con un pugno di mosche in mano: di qui la fuga degli speculatori dai titoli a medio-lunga scadenza e la preferenza per quelli a breve. Solo la Spagna, tanto per dire, ha un Pil che è il doppio a quello di Grecia, Irlanda e Portogallo messi assieme. Quello Italiano è ancora più grande, e si aggira attorno al milione e mezzo di miliardi. Nessuno potrà salvare, né la Spagna né il Belpaese.

Facciamo due conti a titolo esemplificativo. Non sembrino quisquilie gli 85 miliardi prestati all’Irlanda: essi corrispondono al 65% del suo Pil. Cosa accadrebbe, ad esempio, se avessimo una crisi del debito sovrano italiano? La cosa potrebbe succedere l’anno prossimo ove l’Italia non riuscisse a finanziarsi sul mercato dei titoli se non garantendo interessi decisamente più consistenti rispetto agli attuali (si tenga conto che i titoli decennali greci rendono oggi l’11,9%, quelli irlandesi il 9,37%, quelli portoghesi il 7,17%, quelli spagnoli il 5.21%, a fronte del 2,74% del bund tedesco). 
Tremonti e Berlusconi ripetono il mantra che l’Italia è al riparo da una bancarotta, in quanto i “fondamentali” sarebbero a posto, considerando il basso debito privato e quello delle banche. Più che un mantra la cosa sembra, ogni giorno che passa, un fare gli scongiuri. Il debito pubblico continua a crescere (quest’anno è passato dal 116 al 118,9% del Pil, e si ritiene salga al 120,2% nel 2011) mentre della crescita economica non si vede neanche l’ombra.

L’Euro-Germania vorrà, o meglio, potrà salvare l’Italia in caso di scoppio del debito sovrano con il deposito appena istituito di 440 miliardi? Ovviamente no, date le dimensioni ciclopiche di un eventuale crack italiano. Tanto per fare un esempio: se si dovesse aiutare l’Italia rispettando le proporzioni dell’Irlanda (65% del Pil), avremmo che l’euro-germania dovrebbe sborsare qualcosa come mille miliardi di euro. Una cifra da capogiro che nessuno potrebbe accollarsi.

I nodi della creazione dell’euro vengono inesorabilmente al pettine. Viene a galla l’insostenibile discrasia di aver voluto una moneta unica e una politica monetaria unica, fermi restando differenti debiti, differenti politiche fiscali, differenti differenziali economici, differenti politiche sociali, in ultima istanza ferme restando alcune prerogative politiche sovrane degli stati nazionali. Ed è su questa discrasia che i mercati, leggi i grandi speculatori, fanno e faranno leva per trarne il massimo guadagno. Tremonti-Pinocchio lo ammette a suo modo: «Di solito lo Stato è più forte del mercato, ma in Europa è diverso perché i mercati sono uniti dai propri interessi e a volte dalla logica della speculazione, mentre l’Ue è ancora troppo divisa da logiche nazionali degli Stati membri». [Corriere della Sera, 29 novembre 2010]
Per cui, udite! udite! Martin Wolf afferma perentoriamente:
«Il grande interrogativo quindi non è se la zona euro è in grado di evitare un’ondata di crisi finanziarie e dei conti pubblici. L’interrogativo è se la moneta unica sopravvivrà. È un problema più politico che economico.» [Il Sole 24 Ore del 1 dicembre]

Uscita dall’euro, uscita obbligata

Quando diciamo che dal marasma finanziario del capitalismo-casinò ci guadagnano  anzitutto la rendita e la speculazione, non si deve dimenticare l’avverbio, l’anzitutto. Ci guadagna, e come!, il capitalismo tedesco, caratterizzato per una strutturale simbiosi tra finanza, banche, industria e potere politico.
Qual è il grande vantaggio di cui gode il capitalismo tedesco? Che l’euro è un marco sotto mentite spoglie, che a causa della preponderanza economica tedesca l’euro è de facto la loro valuta sovra-nazionale. Certo, la Bce non è la Bundesbank, ma quest’ultima ha, in seno alla Bce una indiscutibile golden share e Trichet, per quanto figuri come un super partes, alla fine è un ostaggio dei tedeschi.

Sempre stando alla sfera dei titoli, la Germania può andare sul mercato pagando costi decisamente più bassi dei PIIGS. Il tasso d’interesse ai minimi storici consente infatti alla Germania di rifinanziarsi risparmiando come non era mai avvenuto prima. Ognuno può immaginare quale vantaggio questo rappresenti per la stessa industria tedesca quando deve a sua volta prendere a prestito i soldi per gli investimenti (che costano quindi molto meno che per l’industria italiana). «Quello che pesa è lo svantaggio competitivo con la Germania. Si consideri che nel 2011 Berlino e Roma emetteranno più o meno lo stesso ammontare di titoli di stato: qualcosa in più di 200 miliardi di euro. Il problema è, però, che il Belpaese dovrà pagare 3,5 miliardi di euro di interessi in più: qualunque sia il livello dei tassi, se gli spread restassero uguali ad oggi, questo sarebbe l’extra-costo per l’Italia. Cosa mai accaduta da quando esiste l’Unione europea». [Morya Longo, Il Sole 24 Ore del 29 novembre]

Ma seguiamo quanto la Longo afferma subito dopo: «Il problema è ancora maggiore se si confronta l’Italia agli Stati Uniti: loro hanno creato la crisi e hanno il maggiore  debito pubblico, ma dato che hanno una banca centrale a loro disposizione e un nome solido, pagano tassi d’interesse molto bassi. La domanda potrebbe sembrare retorica, ma in fondo è corretta: quante cose si potrebbero fare con 3,5 miliardi di euro, se non fossero buttati via causa-crisi? Guadagnano gli speculatori, perdono i cittadini». [Ibidem]

La Longo, dalle insospettabili pagine del giornale della Confindustria, evoca quindi il problema della sovranità monetaria, mostrando come l’adesione all’Euro incateni l’Italia alla depressione e, quel che è peggio, al rischio di essere travolta dalla crisi dei debiti sovrani dei PIGS. Altro che i pistolotti “europeisti” sulla bassa produttività italiana! Se la questione cruciale è rilanciare l’economia e se per rilanciarla, come mostra proprio il caso tedesco, occorre incrementare le esportazioni, bisognerebbe avere la sovranità monetaria per agire autonomamente sui cambi e sui tassi (1). L’Italia ha invece le mani legate e, causa del debito pubblico, è come se l’economia avesse il freno a mano tirato. La sovranità monetaria, consentendo alla Banca centrale di agire sui cambi e sui tassi, non solo potrebbe dare ossigeno alla ripresa, ma pure proteggere la propria valuta, e il proprio debito, contrastando la speculazione finanziaria.
Ergo: il nostro paese non uscirà mai dalla crisi del debito restando nell’euro, ovvero facendo leva prima di tutto sui tagli alla spesa pubblica e ai salari,  sull’aumento dell’imposizione fiscale. Altro che ripresa economica! Questa politica porta dritto il paese nella depressione e, di conseguenza, nell’abbisso del crollo economico e dell’insolvenza.
Che un lungo periodo di sacrifici spetti all’Italia, su questo non c’è alcun dubbio. Si tratta di capire però due cose: la prima è chi debba anzitutto farli e come debbano essere ripartiti, e la seconda, ovviamente legata alla prima, dove reperire risorse, quali sono le misure di politica economica davvero cruciali e inderogabili.

Sul primo punto va detto che debbono pagare coloro che in questi decenni hanno guadagnato dal capitalismo-casinò e che continuano ad ingrassarsi grazie alla crisi. Sul secondo punto le misure davvero imprescindibili sono: l’annullamento del debito pubblico detenuto dalla rendita, interna ed estera; la riconquista della sovranità monetaria con l’immediata svalutazione della moneta nazionale e un controllo rigido sui cambi; la nazionalizzazione del sistema bancario e la messa sotto controllo pubblico della Banca d’Italia; la nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia, tra cui quello energetico e quelli industriali di rilevanza nazionale; una radicale riforma fiscale che premi i comparti produttivi a danno della rendita; un grande piano di investimenti statali che premi la tutela dell’ambiente, i trasporti pubblici, la ricerca e la scuola.
Il caso della Grecia, avvitata nella spirale della depressione e di un debito crescente, è li a dimostrarci quale sarà il futuro del nostro paese ove si continuasse a seguire il solco sin qui seguito e a rispettare l’euro come un totem sacro. E proprio sul caso greco avemmo modo di sostenere “provocatoriamente” che le politiche di massacro sociale adottate da Papandreu su pressione europea, sarebbero comunque fallite, e che l’alternativa era la “nazionalizzazione del default”.

E’ in questo contesto, per concludere, che si gioca la partita politica della sorte del governo Berlusconi-Tremonti, e del perché lo spettro dell’insolvenza italiana, cioè delle conseguenze tremende delle speculazioni sull’euro e i debiti sovrani, dia forza, come sostenevamo già nel febbraio scorso (2), ad un “governo d’emergenza”, “istituzionale”, o comunque lo si voglia chiamare, da Fini fino alla sinistra del PD. Pare evidente che fuori e dentro l’Italia, i cosiddetti “poteri forti”, puntino a scalzare il Cavaliere, ben guardandosi di indire elezioni anticipate. Vedremo nelle prossime settimane quanto “forti” siano questi poteri, e se non sia invece la resa dei conti tra le cosche politiche  ad avere la meglio.

Note

(1) «Solo un quinto del crollo del Pil  nel 2009 è stato causato dalla riduzione dei consumi, che in Italia, essendo già più bassi che in altri paesi europei, sono diminuiti di meno rispetto a questi ultimi. Quasi il 60% della recessione è stato causato dalla diminuzione delle esportazioni (-24,5%) e da quello di investimenti in capitale fisso (macchinari e mezzi di trasporto). Non è che la competitività rispetto alla concorrenza sia diminuita (visto che qui abbiamo i salari più bassi dell’Unione), è che tra la fine del 2008 e la prima parte del 2009 il commercio mondiale ha subito la profonda contrazione di 1/3. In termini monetari l’export italiano è diminuito di circa 67 miliardi di euro. Più precisamente l’economia italiana paga la recessione che ha colpito i primi cinque mercati d’esportazione: in particolare Stati Uniti, Regno Unito e Spagna, subito dietro Germania e Francia.
In altre parole la possibilità che l’Italia esca dalla recessione viene a dipendere, più ancora che dal rilancio dei consumi interni, dalla ripresa mondiale e in particolare dall’uscita dalla recessione dei paesi imperialisti con cui è più forte l’interscambio commerciale. Ipotesi altamente improbabile visto che il vero e proprio boom esportativo italiano del biennio 2006-2007 (+22% in due anni, un risultato superiore a quelli tedesco e giapponese), fu determinato dalla “bolla globale” dei consumi drogati e degli investimenti a debito.»
(“Giocando a Mosca cieca“)

(2) «Politiche di durissimi sacrifici attendono dunque anche gli italiani. Il cui risveglio dopo il sogno dell’opulenza e della crescita senza fine, sarà senz’altro doloroso. Se poi all’Italia dovesse accadere, a breve, qualcosa di simile a ciò che sta accadendo alla Grecia, il populismo berlusconiano, quello che meglio di tutti ha incarnato quel sogno, salterà come un birillo, un ramo secco che sarà travolto dalla piena. Il cavaliere si farà da parte o sarà costretto a digerire il piatto che da anni stanno preparando nelle  retrocucine: un governo di unità nazionale d’emergenza. Un’Unione sacra, che per conto del regime plutocratico, scaricherà  sulla povera gente i costi salatissimi per salvare il salvabile, ovvero per salvare con l’Euro tutto l’edificio di Eurolandia. Noi ribadiamo che siamo solo agli inizi di una crisi epocale, destinata a ferire a morte non solo qualche “maiale” ma tutta l’Unione europea. Saranno gli eventi a fare spazio ad una soluzione rivoluzionaria, ad un’uscita non solo dalla crisi, ma ad una fuoriuscita dal capitalismo. La cui prima irrinunciabile misura sarà nient’altro che l’annullamento del debito pubblico, fatte salve le fasce sociali più deboli che dovessero avere in tasca qualche migliaio di Euro di titoli di stato».

da Rivoluzione Democratica