Il ruolo di Sel e della FdS dopo le elezioni amministrative

Notizia di ieri: Standard & Poor’s ha tagliato l’outlook dell’Italia da stabile a negativo. Notizia di ieri l’altro: l’agenzia Fitch ha declassato il rating della Grecia di tre gradini, da BB+ a B+. Notizia di questi giorni: in Spagna il Movimento 15 maggio protesta non solo per la disoccupazione e la corruzione dilagante, ma anche, guarda un po’!, contro il bipolarismo e la legge elettorale ultra-maggioritaria.

Notizie interessanti, che se da un lato confermano le previsioni di tempesta in arrivo, con l’occhio del ciclone centrato sul Mediterraneo, dall’altro ci parlano anche di nuove forme del risveglio sociale, che in qualche modo si ricollegano anche alle sollevazioni arabe di questi mesi.

Detto in linguaggio dipietrista: cosa c’azzecca tutto questo con l’analisi del voto delle elezioni amministrative che si sono tenute in Italia lo scorso fine settimana? C’azzeccherebbe, eccome, se solo il nostro fosse un Paese un po’ più serio. Ma non lo è, ed il cosiddetto «dibattito politico» parla d’altro, continuando ad avvitarsi su questioni assolutamente secondarie, accuratamente selezionate per rimuovere i veri nodi della politica nazionale.

Ci addentreremo perciò nell’analisi della situazione post-elettorale con questa avvertenza. Un’analisi, però, che non intende essere esaustiva, volendosi concentrare – come dice il sottotitolo – sul futuro della cosiddetta «sinistra radicale», alias «ex Arcobaleno», alla luce del quadro politico che viene delineandosi.

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Partiamo dunque dalle tendenze generali che sono emerse, che qui riassumiamo in maniera molto sintetica:

1. Elezioni amministrative assai parziali – che hanno interessato circa un quinto del corpo elettorale – hanno finito per assumere un significato altamente politico. La ragione è assai semplice: la situazione determinatasi dopo la scissione del Pdl avrebbe imposto lo scioglimento delle camere e l’indizione di elezioni politiche anticipate. Così non è stato, ma in questo modo era inevitabile che le amministrative si caricassero di significati squisitamente politici, come è poi avvenuto.

2. In questo quadro l’aumento dell’astensionismo è da considerarsi ben superiore a quel che ci dicono i numeri. Cinque anni fa si votò in queste stesse città e province un mese e mezzo dopo le politiche che avevano riportato Prodi a Palazzo Chigi. L’interesse fu dunque assai minore, ed il fatto che in un contesto totalmente rovesciato, di totale politicizzazione – come l’attuale – si sia comunque registrato un ulteriore aumento dell’astensionismo indica come l’esodo popolare dal sistema politico sia tutt’altro che finito.

3. La destra ha perso nettamente e niente lascia presagire una riscossa ai ballottaggi. E’ una sconfitta in primo luogo di Berlusconi, del suo partito ed anche del suo principale alleato (la Lega). Viene confermato il declino elettorale che (vedi Uno su sei) avevamo nettamente individuato già un anno fa dopo le regionali, quando commentatori d’ogni tipo descrivevano un paese ormai irrimediabilmente berlusconizzato. In questo anno Berlusconi si è salvato grazie alla debolezza e alla pittoresca imperizia dell’opposizione parlamentare, ma il consenso ormai non c’è più.

4. Così come tutto lo schieramento berlusconiano ha perso in voti e percentuali, quasi tutte le forze del centrosinistra hanno avuto risultati positivi. Unica eccezione l’Idv, che era andato in controtendenza già alle europee, ed in controtendenza (ma ora logicamente verso il basso) si è ritrovato quest’anno.

5. Alcuni si dicono stupiti del risultato del Pd, partito assai scialbo e dilaniato da innumerevoli conflitti interni, ma il fatto è che in un sistema dell’«alternanza» non si vince solo per propri meriti, dato che molto spesso è sufficiente giocare sui demeriti dell’avversario. E quel che vale per il Pd vale anche per Fds e Sel.

6. In un sistema che resta fortemente bipolare l’accozzaglia terzopolista, incentrata sulle misteriose virtù di un «centro» senza altre qualificazioni, non poteva che naufragare miseramente. Era prevedibile e così è stato.

7. Infine, oltre al consistente dato dell’astensionismo, un voto anti-bipolare si è espresso attraverso i consensi registrati dal Movimento Cinque Stelle. Un voto se vogliamo facile, come è facile farsi trainare da un comico in una società dello spettacolo, ma pur sempre un voto di rottura con il sistema politico. E’ difficile ora valutare le prospettive di questo movimento, ma sarebbe del tutto sbagliato limitarsi a segnalarne i limiti politici, del resto del tutto evidenti.

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Quale sia la risultante dell’insieme di queste tendenze è presto detto: la spinta verso un nuovo governo di centrosinistra, a guida Pd, con dentro le componenti cosiddette «radicali». Vedremo se nell’assetto finale questa coalizione avrà al proprio interno almeno una parte dell’attuale «Terzo Polo», vedremo chi sarà il candidato premier, ma questo è all’ingrosso il quadro che si profila.

Naturalmente, qualora la crisi del debito pubblico dovesse precipitare in breve tempo (ecco l’importanza degli accenni fatti all’inizio) si aprirebbero ben altri scenari, del tipo «governo tecnico» o di «unità nazionale». Uno scenario di questo tipo si determinerebbe anche nel caso Berlusconi fosse in qualche modo costretto alle dimissioni o dal proprio partito o dalla Lega. Nell’immediato la situazione presenta dunque diverse variabili, ma resta il fatto che al più tardi tra due anni dovranno comunque svolgersi nuove elezioni politiche.

Ragionare su quella prospettiva non è dunque un mero esercizio astratto.  Ed è quello che vogliamo fare con particolare riferimento al ruolo che si profila per i due tronconi della sinistra ex arcobalenica, un ruolo che ripropone quell’eterna «coazione a ripetere» verso la subalternità che caratterizza da sempre queste formazioni.

Ma partiamo dai risultati elettorali di Sel e FdS. Il partito vendoliano è cresciuto, ma restando attorno alla metà delle percentuali previste dai sondaggisti. Insomma, un mezzo successo che ridimensiona le ambizioni sulla leadership del governatore pugliese. E’ difficile indicare un risultato medio tra provinciali e comunali e proiettarlo su base nazionale, ma all’ingrosso possiamo dire che Sel vale oggi circa un 4% mentre la FdS un 3%. Così come il risultato dei vendoliani è deludente se rapportato ai sondaggi, quello della FdS – che non si discosta dai dati delle regionali 2010 – è assai superiore invece alle indicazioni degli istituti demoscopici. Anche qui un mezzo successo, ma con qualche brindisi in più data la grande paura di scomparire davvero dalla scena politica.

In breve, Sel + FdS valgono circa un 7%. Qualcuno vorrebbe sommarvi i voti dell’IdV per prefigurare l’ennesimo “polo”. Lasciando qui da parte i dipietristi, abbiamo comunque che gli ex Arcobaleno, ridotti al 3,1% nel 2008 hanno ormai risalito la china benché divisi in due tronconi concorrenti tra loro. Così come non è difficile prevedere che i vendoliani continueranno a sventolare la ridicola bandiera delle primarie, è altrettanto facile immaginare il destino della FdS. Un destino di portatori d’acqua ad una coalizione che per certi aspetti si presenta peggiore di quella prodiana del 2006.

Se si leggono le analisi dei dirigenti della FdS il discorso è chiaro: «andiamo bene dove siamo nella coalizione, male (vedi Torino) quando ci contrapponiamo». E’ sbagliata questa analisi? No, è giustissima! Il fatto è che avendo educato il proprio elettorato ad una logica subalterna, oggi questo spirito gregario è stato totalmente introiettato dalla base elettorale della FdS. Anche volendo, e non ci pare che sia questo il caso, sarebbe  davvero ben difficile uscire da questa trappola che costoro si sono pazientemente costruiti nel tempo.

Certo, acquartierati nelle terze file dello schieramento antiberlusconiano, riusciranno a rientrare in Parlamento. Dal loro punto di vista una questione di vita o di morte. Ma a cosa servirà, quando avverrà, questo rientro? Semplice, a portare acqua ad un governo che non potrà che essere atlantico, europeo e confindustriale. Una riedizione del tragicomico biennio 2006-2008, ma in un contesto di crisi decisamente più grave.

Se per i vendoliani la prospettiva di governo è assunta da anni come naturale e pienamente conforme all’opportunismo della loro politica, per la Fds le cose sono un po’ più complicate, perché ad una componente pienamente disponibile a reimbarcarsi in un’avventura governista, se ne affianca un’altra che vorrebbe barcamenarsi con la formula «accordo elettorale sì, accordo di governo no». Peccato che questa idea acrobatica della politica abbia poche probabilità di realizzarsi, come del resto la stessa storia del Prc dovrebbe insegnare.

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Piaccia o non piaccia la FdS si troverà ben presto ad un passaggio assai stretto. La questione del governo si riaffaccerà come centrale, sancendo quanto sia stato inutile il congresso di Chianciano del 2008, quando furono in molti a giurare che i vecchi errori che avevano portato alla disfatta arcobalenica non si sarebbero ripetuti.

Invece no. Un’altra politica non la sanno neanche immaginare.
Rinunceranno così a combattere il vendolismo, questo esito estremo e pernicioso del bertinottismo, lasciando per altro ampi spazi ai Grillini.

In definitiva niente di nuovo sotto il sole. Se non fosse che la crisi del debito pubblico annuncia un massacro sociale da far impallidire quello già compiuto in questi anni. E chi starà con il Pd starà con la Ue, con la Bce, con le oligarchie finanziarie. Chi vorrà continuare a portare acqua in quella direzione dovrà sapere di stare aiutando non un tranquillo governo socialdemocratico in Scandinavia, bensì un governo oligarchico e ferocemente antipopolare in un’Italia nella morsa delle banche e della speculazione finanziaria. Un governo che avrà come riferimenti esterni Draghi e Marchionne, più l’inquilino della Casa Bianca chiunque esso sia.

Facciano quel che vogliono, ma non pensino di schivare in questo modo la tempesta sociale che si sta approssimando.