Che cos’è il partito-non-partito dei beni comuni?
A proposito del «Manifesto per un soggetto politico “nuovo”»

«Non è la prima volta che si è tentato di uccidere il marxismo. Siamo anzi davanti all’ennesimo parricidio imperfetto, anzi fallito. Del vecchio marxismo vanno certo risolte le aporie, e Marx va oltrepassato, ma, se ci è permesso, nel senso positivo-razionale dell’aufhebung hegeliano, l’atto che mentre toglie, conserva, e solo in ciò supera».

Il 29 marzo scorso, il quotidiano Il manifesto, con grande risalto, pubblicava un lungo testo dal titolo «Manifesto per un soggetto politico nuovo».
Tra i primi firmatari del documento, alcuni noti intellettuali di sinistra: Marco Revelli, Guido Viale, Stefano Rodotà, Paul Ginsborg, Luciano Gallino, Pietro Bevilacqua. Si è aggiunta subito la Norma Rangeri, che in quanto direttrice de il manifesto quotidiano, ha fatto di quest’ultimo il trampolino di lancio dell’iniziativa. 

Dato che promotori fanno sul serio, si sono dati un sito web dedicato. Lanciata una raccolta di firme. I sostenitori hanno ottenuto la ragguardevole cifra di 3500 sostenitori. Ha quindi presto preso il via, sulle colonne del giornale, una discussione, a cui han preso parte alcuni maître à penser della sinistra. I favorevoli all’iniziativa ben poco hanno aggiunto al documento iniziale. Né ha aggiunto nulla Paolo Ferrero, segretario del Prc, che si è gettato nella mischia con un pezzo che poteva tranquillamente finire nel titolo Facciamo fronte, alla francese — come dire, “Hei, ragazzi, ci sono le elezioni, venite con noi”.

In effetti, i malevoli, hanno liquidato l’iniziativa del “soggetto politico nuovo” come un triviale tentativo da parte di certi intellettuali indipendenti di farsi largo nella mischia pre-elettorale, per trovare qualche strapuntino, per contare in vista della formazione del listone unitario della “sinistra radicale”. In effetti, nel tram di sinistra che porta alle elezioni, c’è un bel casino. Si va dal Pd al Prc, passando per Vendola e la Lista civica nazionale di De Magistris, e tutti devono fare i conti con il Movimento Cinque Stelle dato in forte ascesa. Senza contare le liste testimoniali d’estrema sinistra.

Forse le cose stanno proprio così, ma ciò non può essere un alibi per sottovalutare gli argomenti dei promotori dell’iniziativa.

Degno di nota il dissenso espresso dalla Rossana Rossanda (Benecomunismo che passione), che ha stroncato il documento in malo modo, [1] che però non ha potuto, o voluto, dirla tutta sull’approdo di certi suoi pargoli.

Il «Manifesto per un soggetto politico nuovo» è certo prolisso, ma non è improvvisato né abborracciato. I promotori non lo dicono, ma ritengono di aver compiuto la definitiva resa dei conti con la interminabile crisi teorica del marxismo e di prospettive della sinistra comunista, nonché con le rifondazioni annunciate, incompiute o fallite. Una presunzione esorbitante, come vedremo.

Alle spalle di un linguaggio pallido e introverso, senza annunciarlo con la fanfara, il documento espone infatti una mezza-teoria-politica (vedremo dopo quale sia la sua scaturigine e il suo statuto politico-filosofico), articolata attorno a tre idee principali: quella di società, quella di democrazia, quella della forma-partito.

La società… bene-comunista

E’ vero che il documento si sofferma anzitutto sui concetti di democrazia e forma-partito, ma è del tutto evidente che essi si incardinano attorno all’idea cardinale dei beni comuni. E’ questa loro centralità  e inalienabilità che fonda il discorso della loro gestione democratica partecipata, e quindi di un soggetto politico “post-ideologico”, “post-classista”, orizzontale e territoriale.

Ma cos’è una società fondata sulla centralità dei beni comuni? Va bene che essi sono “inalienabili” e vanno gestiti democraticamente, ma quali e quanti propriamente sono? E qual è il loro rango? Quali beni sono sottratti alla sfera mercantile e quali no? Qui l’argomentazione è omissiva, trascurata, evanescente. Ci tocca rendere esplicito ciò che è tuttavia implicito. 

Salta in aria, di tutta evidenza, ogni discorso marxiano sul modo di produzione, sui rapporti sociali di produzione, sulla merce, sul capitale e sul salario, sulle contraddizioni insite al modo capitalistico di produzione, sul sovrapprodotto sociale e la sua forma capitalistica di plusvalore. E’ questo sovrapprodotto un bene comune? E quale dovrebbe essere la sua destinazione? Sono i mezzi di produzione un bene comune e quindi sottraibili al capitale e alla sfera mercantile? Domande senza risposta.

Parrebbe sottintesa la prospettiva della “decrescita”, ma non è così, troppo improbabile, eccessivamente oltranzista, troppo indigesta alla sinistra mainstream.

Vien fuori quindi una visione dualistica della società, fondata sulla coesistenza tra due sfere, quella capitalistica tradizionale e quella socialistica dei beni comuni. Si badi, non una coesistenza storicamente transitoria o antagonistica, inscritta nella prospettiva del superamento del capitalismo, no. L’idea della fuoriuscita dal capitalismo è rimossa come un’erba voglio, un orizzonte irraggiungibile e utopistico. I due settori, quello capitalistico e quello benecomunistico, sono destinati a coabitare nel medesimo spazio sociale. Punto. 

Il problema quindi, data per assodata l’ineliminabilità dell’economia capitalistica — per cui tutta una serie di sfere economiche sono destinate a soggiacere alle leggi mercantili — è semmai l’allargamento progressivo dell’economia dei beni comuni, e quindi l’attenzione è tutta spostata sulle forme istituzionali e di governo, sulle modalità di rappresentanza della sfera sociale benecomunistizzata.

Democrazia imperiale… ma dal basso

Il secondo asse portante del documento si esprime in questo concetto: «Diffondere il potere, non concentrarlo», la tesi, per niente spaventevole, è quella della “riforma delle istituzioni”, una riforma basata sul superamento definitivo della democrazia rappresentativa e delegata per riampiazzarla con quella partecipativa e diretta, con tanto di vincolo di mandato per i rappresentanti — il “mandato imperativo”, per cui un eletto, in seno all’assemblea legislativa, può solo fungere da replicante dell’istanza che lo ha eletto.

Ovviamente qui occorre distinguere tra la sostanza e la fuffa che la avvolge, tra ciò che è effettivamente “nuovo” e ciò che è vecchio. Il “nuovo” è in gran parte fuffa, mentre la sostanza non è solo vecchia, ma addirittura stantia. Il discorso dei primi firmatari si condensa in questa frase: «Bisogna innescare un processo che destituisca, ceda, decentri, abbassi, distribuisca, diffonda il potere. Bisogna riaffermare la validità della dimensione territoriale locale (non localistica), espandendo tutti quegli spazi in cui il governo e il cittadino sono vicini l’un l’altro. Il comune [inteso proprio nel senso di municipio, Nda] è uno di questi. (…) Ridare spazio ai comuni, metterli in contatto tra loro sarebbe già in sé una cosa grande».

Cosa abbiamo oltre alla messe di aggettivi? Un modello federalista e municipalista, l’idea di un decentramento e di un’atomizzazione dello Stato, che non andrebbe più dall’alto verso il basso ma, al contrario dal basso verso l’alto. Quest’idea, spacciata come nuova, è in verità antidiluviana e, anche volendo omettere le sue scaturigini medievali, Marx se l’era già trovata davanti (vedi la polemica con proudhoniani e anarchici).

Chi scrive non ha nulla, in linea di principio, contro l’idea che una società socialista futura debba fondarsi su un modello federativo di tipo municipalista. Dio ce ne scampi dalle storture congenite del centralismo statalista e delle economie pianificate di comando. Il difetto del modello che ci propongono i Nostri è che esso sta con la testa all’in giù e, ammesso che sia fattibile, va messo con i piedi per terra. Ammettiamo, in punto di teoria, la possibilità di una società duale fondata sulla coesistenza del settore capitalista e quello benecomunista.  E ammettiamo pure che buona parte della sua sovrastruttura istituzionale sia municipalista. In mano a chi sarà il sistema produttivo e di scambio? E quello bancario e finanziario? Che fine faranno banche, aziende e fondi i cui fatturati superano i Pil di interi paesi? Chi gestirà la moneta e la sua emissione? Chi potrà disporre delle forze armate? In breve: chi deterrà le leve decisive del potere statale, economico e politico?

Le cose sono due e due soltanto: o anche mezzi di produzione, di scambio, moneta ecc., sono da considerare beni comuni, anzi supremi beni comuni, e quindi non solo sottoposti al controllo pubblico ma proprietà collettiva — e quindi avremo, né più e né meno che il socialismo; oppure essi restano nella sfera privatistica e quindi appannaggio di grandi monopoli privati, della ristretta oligarchia capitalistica. 

I Nostri glissano, ma fanno capire che escludono la prima ipotesi. Resta solo la seconda ma, appunto, ne risulta una struttura a testa in giù. In questo secondo caso ognuno capisce infatti che tutta la narrazione sulla “democrazia dal basso” va a farsi friggere, poiché basterebbe una scoreggia di uno solo di questi mostri monopolisti per far crollare come un castello di carte il modello orizzontale municipalista. 

Apparentemente consapevoli dell’irrealismo intrinseco del loro modello i Nostri tentano in effetti di metterlo coi piedi per terra. La pietanza che ci propinano è sorprendente. Essi, allo scopo di “diffondere il potere dal basso” e derubricata la Costituzione (troppo centralista, troppo fondata sui partiti),  si appellano, pensate un po’, alle «proposte della Commissione europea ai sensi del Trattato di Lisbona e del regolamento Ue n.211/2001″ e ai principi della Convenzione europea di Aarhus, legge dello Stato a partire dal 2001».

Non solo non si batte ciglio rispetto alla sottrazione di sovranità operata dalla Unione europea, non solo non si dice una parola contro la Ue e la sua moneta unica come principale piede di porco con cui si è scassato ciò che restava della democrazia. I Nostri, più realisti del Re, si appellano alla Ue, ai suoi Trattati capestro. In poche parole concepiscono la democrazia municipalista non contro ma entro lo spazio imperiale europeo. 

Sbaglieremmo a stupirci. L’idiosincrasia dei Nostri per la forma Stato-nazione (guai a tornare agli Stati nazionali sovrani!) non poteva che condurre a questo: alla difesa del modello imperiale. Non si vuole abbattere l’Impero come becchino delle democrazie, non si vuole ripristinare le sovranità nazionali; si vuole riformare l’Impero, suggerendo un sistema misto, un combinato disposto tra forte potere centrale (a cui vengono lasciate prerogative sostanziali) e decentramento coriandolare per cui ai municipi sarebbe devoluta la gestione di alcuni beni comuni. Non sappiamo se ridere o se piangere.

Qui, a ben vedere, non abbiamo nemmeno una riedizione delle pur nobili tradizioni federaliste del proto-socialismo. Qui è tutto nuovo, anzi nuovissimo: un nuovissimo e inaccettabile adeguarsi all’ordine di cose esistenti (e alla sua rappresentazione ideologica post-moderna), evidentemente considerato come non solo irreversibile ma ragionevole e accettabile. Siamo davanti ad un supino adattamento al presente, anzi, di fronte ad una vera e propria capitolazione ai “dati di fatto”. Da una parte l’ineluttabilità della forma-impero, dall’altra lo sfascio del tessuto sociale indotto dalla globalizzazione imperialista, alla sua natura coriandolare, alla sua atomizzazione. Nessuna ricomposizione sociale e politica è concepibile, solo un plastico e flessibile adagiarsi al marasma presente.

Se al modello che ci viene proposto, strappiamo di dosso la sua veste democratica anarchicheggiante, abbiamo niente di più che una coerente e ragionevole architettura imperiale post-liberale, poiché in effetti, ogni struttura politica imperiale collasserebbe se fosse troppo centralista, se non fosse in grado di decentrare e devolvere verso il basso, nel nostro caso verso i Municipi, una serie di prerogative e poteri da esso considerati non primari. E’ non solo plausibile ma realistico che l’Impero ceda, ad esempio ai municipi, ai distretti e alle regioni, la gestione di quelli che i Nostri, con enfasi, chiamano beni comuni. All’impero la strategia, ai municipi la tattica. Al centro il potere di vita e di morte, ai comuni le briciole, l’autogestione comunitaria delle celle penitenziarie (“democrazia partecipativa e di prossimità”).

Partito-non-partito-anzi-anti-partito

Su queste basi i Nostri edificano la loro idea di nuovo soggetto politico, che anzi, con meschino rovesciamento semantico, definiscono “soggetto politico nuovo”. 
L’incipit è rancido: “Occorre farla finita coi modelli partitici novecenteschi basati sulla delega” — en passant: qui si compie una mistificazione colossale, mettendo sullo stesso piano liberali e fascisti, democratici e comunisti —, ovvero «con la stretta identificazione di sfera pubblica e di sfera politica». 

I Nostri privilegiano la prima, la sfera pubblica (ovvero amministrativa e gestionale dell’attualmente esistente), presumono di separarla ontologicamente rispetto a quella politica (ovvero la prassi fondata su una visione del mondo altra, su un’idea di futuro a cui la società dovrebbe tendere). Non viene detto ma dietro viene rigettata ogni tensione tra essere e dover essere  — se solo il presente esiste, mentre il domani è aleatorio, solo il primo va preso in considerazione. Qui e ora è la sola dimensione plausibile. 

A nessuno sfugge che una simile concezione è anch’essa figlia dei tempi, viene dalla sconfitta dello slancio rivoluzionario degli anni settanta, figlia della vittoria del pensiero filosofico post-moderno e neoliberista per cui, ogni presunzione di verità, ogni idea di liberazione radicale, hanno in grembo il totalitarismo. Non ci sarebbe dunque alcuna verità storica e morale, se non diversi e tutti legittimi punti di vista etici. Nessuna analisi della società può pretendere di essere scientifica, ma tutte sono parziali. Gli ideali per primi finiscono spappolati nel tritacarne dell’eterogenesi dei fini.

Da questa concezione filosofica dipende l’idea di soggetto politico il quale, respinta come la peste la “ossessione” illuministica dei marxisti di costruire un ordine sociale non solo eticamente ma razionalmente fondato, è concepito come strumento di supporto alla gestione dell’ordinaria amministrazione dei beni comuni. I liberali direbbero “di selezione della classe dirigente”. La differenza coi liberali non è quindi sulla concezione del partito, che anche per i Nostri dev’essere minimalista, possibilmente “liquido” anzi gassoso, ma solo sui meccanismi relazionali tra rappresentati e rappresentanti. Liquidata anche l’idea lavorista e costituzionale che i partiti rappresentino legittimi interessi sociali e di classe omogenei. Il soggetto politico, per i Nostri, è piuttosto la proiezione di una comunità territoriale, dove contrasti sociali e antagonismi, semmai ci fossero, verrebbero tutti ricomposti nel leggiadro cazzeggio della democrazia partecipata.

Siccome è la sfera pubblica delle decisioni amministrative locali l’alfa e l’omega del racconto dei Nostri, il loro piatto forte è basato sulle forme e i meccanismi decisionali della comunità municipale, quelle che danno sostanza alla cosiddetta “democrazia partecipativa e di prossimità”. Ne viene fuori un miscuglio di ingredienti fatto di modalità neo-movimentiste anglosassoni, portoalegriane, grillismo, e una spruzzata di napoletanità. Abbiamo così: le consulte per macro-aree, il referendum on-line, il PARTY (partecipazione attiva riunendo tavoli interagenti), gli Street-meeting e le primarie per scegliere i candidati. [1] Beati i Nostri, che definiscono questa come “una vera e propria rivoluzione culturale”. 

Non abbiamo nulla, in linea di principio, contro la “democrazia partecipativa”. E’ di certo una modalità plausibile e positiva per coinvolgere i cittadini alla vita pubblica e per superare il distacco, diventato insopportabilmente siderale tra rappresentati e rappresentanti. Il problema è non farne un totem. La democrazia partecipativa non è nulla di più di un metodo, di una forma, di una procedura. Al pari, del resto, del sistema democratico in generale. Alla fine resta che si decide a maggioranza, e che le decisioni prese a maggioranza sono vincolanti e debbono avere forza di legge. Ma questo per quanto attiene alla forma. Per quanto riguarda la sostanza, resta che in un sistema democratico borghese, i voti non si contano ma si pesano, e che la minoranza che detiene il monopolio della ricchezza (sia nella sua forma astratta di denaro che in quella di mezzi di produzione) non solo è una classe predatoria, ma proprio per questo conta mille volte di più della classe dei lavoratori salariati e dei nullatenenti.

E dunque, scrivono i Nostri, occorre “Riscrivere le regole della democrazia”.

Tutto qui? Tutto qui! Ed è su una simile base che essi pretendono di fondare un “soggetto politico nuovo”. Nulla vien detto della crisi sistemica che attanaglia il capitalismo, nulla della crisi irreversibile dell’Unione europea, del mostro della moneta unica, del sistema di capitalismo-casinò globale, di come uscire dal marasma, dei rischi che l’umanità finisca nell’abisso della guerra, della minaccia che incombe sull’ecosistema.

Ci risulta difficile pensare che faranno lunga strada, e non tanto perché il perimetro politico in cui i “nuovisti” agiscono è sovraffollato, prima di tutto perché, una crisi sistemica come quella che stiamo attraversando, chiede idee forti, proposte che vanno alla radice. Del Manifesto del manifesto, entro pochi mesi nessuno ne parlerà più, non resteranno che qualche frase ammiccante in qualche programma elettorale e un po’ di nomi nelle liste dei candidati. Nel frattempo le cose andranno sempre peggio e energie sociali enormi cercheranno di rompere il guscio che le racchiude.

Non è la prima volta che si è tentato di uccidere il marxismo. Siamo anzi davanti all’ennesimo parricidio imperfetto, anzi fallito. Del vecchio marxismo vanno certo risolte le aporie, e Marx va oltrepassato, ma, se ci è permesso, nel senso positivo-razionale dell’aufhebung hegeliano, l’atto che mentre toglie, conserva e solo in ciò supera.

Note
[1 ]«Il “nuovo soggetto politico” non si perde sull’analisi dello stato e dei poteri forti, politici ed economici. Né nelle teorie sociali del movimento operaio o, all’opposto, del liberismo: le prime neppure le nomina, al secondo i beni comuni, terreno di convinzione generale, tagliano le unghie. In questo senso il documento di Firenze presenta una tranquilla riedizione della spontaneità, l’universalmente umano bastante a se stesso, che il ’68 aveva portato avanti polemicamente ma adesso, rifiutando assalti al cielo troppo pericolosi, sarebbe in condizione di attuarsi attraverso una saggia rete di relazioni e consultazione popolare permanente».

[2] «In questo senso il Laboratorio Napoli “Per una Costituente dei beni comuni” prevede sedici consulte divise per macro-aree che si interfacciano con i singoli assessorati attraverso il ruolo dei facilitatori. L’informazione deve costituire il presupposto per una reale partecipazione. Il processo partecipativo è normato e calendarizzato, la sua violazione può determinare l’annullamento degli atti amministrativi. Ciò rende certo il processo evitando forme fasulle e confusionarie della partecipazione, ponendosi come un esempio del necessario connubio tra rappresentanza e partecipazione.

Un altro esempio di partecipazione, disegnato per la consultazione di un grande numero di cittadini, è il referendum on line che, preceduto dalla necessaria dispensa di informazione bi-partisan, può portare alle decisioni in tempi rapidissimi.Un altro ancora viene chiamato PARTY (partecipazione attiva riunendo tavoli interagenti). E’ un metodo ispirato a due fra i più diffusi (Town meeting e Open Space Technology), che permette di discutere e decidere insieme sia su questioni locali che nazionali. Un’assemblea, ad esempio, viene divisa in tavoli di dieci-quindici persone ciascuno. I/le partecipanti, che possono non conoscersi affatto, affrontano i temi a loro sottoposti. Per ogni tavolo si sceglie una persona per facilitare il dibattito, un’altra per prendere appunti. Dopo una lunga e informata discussione in un arco di tempo prestabilito, ogni tavolo cerca di esprimere nel report un’opinione collettiva che può anche comprendere proposte diverse. Alla fine, una sintesi di tutto il lavoro svolto viene presentato alla plenaria. L’interazione tra chi partecipa ai tavoli e la possibilità di essere praticata a costi contenuti e con un uso ottimale delle tecnologie informatiche, costituiscono un pregio particolare di questo tipo di democrazia partecipativa. Di tutte le forme di democrazia partecipativa, quella iniziata nella città di Porto Alegre in Brasile rimane una delle più convincenti, e per tre ragioni principali: la prima perché la partecipazione è calendarizzata, con un forte senso di continuità temporale durante l’anno, non limitata a una singola occasione. La seconda perché prevede un gran numero di luoghi e livelli di partecipazione, dagli incontri di strada (street meeting) di gennaio al Consiglio di bilancio in settembre, alla solenne adozione del bilancio partecipativo da parte del consiglio municipale e del sindaco a fine anno. E la terza perché è un processo, non un momento, che contribuisce così alla formazione di un prezioso capitale per qualsiasi democrazia – gruppi crescenti di cittadini informati, attivi e con idee chiare su che cosa costituisce una cultura democratica. Dobbiamo trovare, declinando in più di un modo la democrazia partecipativa, la forza per portare avanti una vera rivoluzione culturale fatta di trasparenza e responsabilità».