La montagna delle «larghe intese» ha partorito il topolino del «decreto del fare». In attesa di nuovi rinvii sul fisco, aspettando una lieta novella da Berlino. Che non arriverà.

Finalmente una buona notizia, di quelle che lasciano il segno: da oggi, grazie al governo Letta, non sarà più necessario il certificato di «sana e robusta costituzione» per fare il farmacista. Il «decreto del fare» – lo ha decretato la grande stampa filo-lettiana – è però una cosa seria, dunque è vietato ridere. A riprova di ciò i media ci informano che è stato eliminato anche l’obbligo di presentare il certificato di «idoneità psico-fisica» per fare il maestro di sci. Un’innovazione davvero tranquillizzante.

Siamo nemici della burocrazia e dunque va bene così. Ma siamo ancor di più nemici delle prese in giro, e dunque va davvero malissimo. Perché il fatto è che le 80 misure (ottanta) prese ieri dal governo Pd-Pdl-Sc sono state presentate come misure per l’uscita dalla crisi. Misure magari modeste, misure «cacciavite» le ha definite il Corsera, ma pur sempre misure che indicano come «uscire dal tunnel». Un concetto reso più enfatico dall’ex direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, che assurto ormai al ruolo di portavoce quirinalizio, è oggi un ultras di Letta come ieri lo era di Monti. Questo il titolo del suo consueto pistolotto domenicale: «Lunga la strada, stretta la via. Ma la marcia è cominciata».

Ora, che si sia infine deciso di spuntare un po’ le unghie ad Equitalia, sancendo almeno l’impignorabilità della prima casa per i debiti tributari inferiori ai 120mila euro, è certo un piccolo fatto di civiltà, ma cosa c’azzecchi con la mitica ripresa proprio non sappiamo. Ci sarebbe semmai da ricordare come per arrivare a questa misura ci siano volute tante proteste, qualche attentato ed alcune decine di suicidi.

Ma andiamo oltre, soffermandoci su tre misure a loro modo assai emblematiche.

Partiamo dalla promessa di ridurre le bollette elettriche. Su questo il trionfalismo governativo, ed in particolare del ministro Zanonato, appare davvero fuori luogo. Intanto l’obiettivo verrà raggiunto, se verrà raggiunto, con un’ulteriore penalizzazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, e già qui ci sarebbe molto da ridire. Ma anche volendo tralasciare questo aspetto, quale sarà l’impatto reale per la famiglia media? Qualche giornalista più avvezzo alle quattro operazioni ha già notato che essendo le famiglie italiane 25 milioni, il risparmio medio sarebbe in realtà di soli 22 euro a famiglia (550 milioni/25 milioni =22). Ci dispiace deludere questi professionisti dell’aritmetica, ma il risparmio sarà assai inferiore. Le famiglie consumano infatti solo il 20% dell’energia elettrica venduta in Italia, dunque gli euri risparmiati saranno solo 4,40 (22×0,2 =4,40).
Circa 4 caffé e mezzo da sorseggiare ringraziando il mitico Zanonato.

Ma sono settimane che Letta ci dice, bontà sua, che la vera emergenza è il lavoro. Ed ecco spuntar fuori la norma sui cantieri. Tre miliardi momentaneamente sottratti alla Tav, al Ponte sullo Stretto ed al terzo valico Genova-Milano, per essere dirottati su altre opere, per lo più nelle aree metropolitane di Milano, Roma e Napoli. Anche qui lasciamo perdere il giudizio di merito su queste scelte, anche se va segnalato quantomeno il fatto che non si sappia minimamente uscire dalla logica delle grandi opere. Ma da dove tiri fuori il governo il numero di 30mila posti di lavoro nessuno lo sa. E nessuno ce lo spiega, dato che si tratta di una cifra improbabile quanto inverificabile. Cifra tanto più arbitraria, dato che deriverebbe da un momentaneo spostamento di risorse già stanziate, senza che vi sia alcun ulteriore investimento.

Ed infine un’annotazione su un curioso intervento fiscale, anch’esso motivato come misura anti-crisi. Da mesi il teatrino della politica discute di come ridurre l’IMU, come evitare un nuovo aumento dell’IVA, come intervenire sull’IRPEF… il tutto «restando in Europa», con l’impegno a rispettare il Fiscal compact. Ci siamo già occupati di questa gigantesca presa in giro (vedi L’allegra brigata degli europeisti anti-tasse), ma con il «decreto del fare» Letta ha deciso di superarsi. Qual è la prima tassa davvero tagliata dal governo? Semplice, quella sulle imbarcazioni: azzerata fino ai 14 metri di lunghezza, dimezzata per gli scafi superiori ai 14 metri. Un bell’esempio di redistribuzione della ricchezza verso l’alto.

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Si potrebbe continuare, ma non lo facciamo, perché è meglio concentrarsi sul contesto in cui sono state prese queste misure. Un contesto nel quale il governo ammette di essere incapace di far fronte alle sue stesse promesse su IMU ed IVA. Un’incapacità dettata dai vincoli europei che, com’era facilmente prevedibile, non hanno fatto registrare alcun allentamento. Da qui la politica del rinvio: si è rinviato il pagamento dell’IMU sulla prima casa in attesa di una rimodulazione dell’imposta in modo da non ridurre il gettito complessivo; si rinvierà probabilmente la decisione sull’IVA in attesa di definire un inasprimento dell’IRPEF attraverso la ridefinizione (ovviamente con nuovi tagli) di deduzioni e detrazioni. Insomma, stante la gabbia europea, tutto si può fare fuorché ridurre la pressione fiscale, che anzi andrà in futuro aumentata.

L’impossibilità di far fronte anche a cifre relativamente modeste come quelle in questione, la dice lunga sulla forza, l’autorevolezza, l’autonomia del governo Letta, un governicchio che galleggia in attesa di tempi migliori, che qualche inguaribile ottimista prevede per il dopo-voto tedesco del 22 settembre.

Qualcuno troverà ingeneroso ridicolizzare il governo per la pochezza delle sue azioni. Ma che dire allora della pretesa di affrontare il dramma della disoccupazione giovanile, che ha raggiunto il 38%, con un intervento di poco più di 400 milioni di fondi europei da spalmare in diversi anni?

La sproporzione tra la gravità dei problemi e l’azione del governo è sotto gli occhi di tutti. Emiliano Brancaccio ha detto che «si tenta di vincere la guerra con una cerbottana». C’è davvero poco da aggiungere a questo lapidario giudizio.

Quali siano i dati del disastro economico italiano dovrebbe esser noto, ma un breve (ed aggiornato) ripasso non può far male. Dal 2007 ad oggi il Pil italiano è calato del 7%, il reddito delle famiglie del 9%. Ma questa è ovviamente solo una media, perché in realtà milioni di famiglie hanno visto il tracollo del proprio reddito. La stessa Corte dei Conti ha stimato nei giorni scorsi una perdita di 230 miliardi di Pil in 5 anni. Ma la situazione è ancora più grave se guardiamo all’industria manifatturiera. La produzione industriale, in calo consecutivo da 20 mesi, è diminuita del 25% dall’aprile 2008 ad oggi, con punte superiori al 30% in quattro settori (metallurgia, mezzi di trasporto, gomma e plastica, apparecchiature elettriche). E recuperare non sarà facile, dato che si calcola che il 15% del potenziale produttivo (impianti, macchinari, eccetera) sia ormai andato perso.

Ecco, di fronte a questo disastro, e di fronte al massacro sociale che comporta, occuparsi dei certificati medici, o di altre questioni di identica portata, grida davvero vendetta. Ma tant’è, questa è l’Italia 2013.

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Ma per quali motivi è questa la situazione? Le ragioni sono sempre più di una, ma una è quella davvero decisiva: la subalternità delle classi dirigenti nazionali nei confronti dell’Unione Europea. Una subalternità, quella di Letta, perfettamente in linea con quella del suo predecessore. Il quale godeva addirittura (lo ha ora candidamente confessato un suo ministro) dei sacrifici imposti agli italiani. Forse Letta non mostra un identico sadismo, ma la sua politica non è certo diversa.

Diversa è semmai la situazione, perché sono ormai chiari gli effetti della politica di austerità. Si vorrebbe allora la botte piena e la moglie ubriaca. Cioè il mantenimento degli obiettivi di bilancio, sposato a qualche allentamento di quei vincoli. Ecco allora la comica corsa ad ipotizzare ogni trucco contabile, al fine di rispettare formalmente il rapporto deficit/pil al 3%, pur infrangendolo nella sostanza. Sulla materia si è proposto di tutto e di più: scorporare dal computo suddetto le spese per gli investimenti, quelle sulle infrastrutture europee, quelle per «combattere la disoccupazione», quelle causate dai disastri naturali e chi più ne ha più ne metta. Sta di fatto che i decisori europei al momento non si sono affatto commossi, né per i terremoti, né per i disoccupati e neppure per le spese infrastrutturali…

Cambieranno le cose in futuro? I patiti dell’Europa pensano di sì. Ma su quali basi si fondino queste speranze non è dato sapere. Venendo a Roma, l’altro giorno, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, ha ribadito che gli obiettivi di bilancio non si toccano e che di flessibilità in Europa ce n’é già anche troppa.

Il cambiamento potrebbe avvenire dopo le elezioni tedesche del 22 settembre? Davvero non si vede il perché. I sondaggi danno ancora favorita la Merkel. L’attuale cancelliera potrebbe essere sì costretta ad un’alleanza (peraltro non certo inedita) con la Spd, ma il partito socialdemocratico esprime davvero posizioni diverse da quelle della Cdu-Csu? Non sembra proprio, mentre sull’altro versante il possibile ingresso in parlamento di Alternative für Deutschland (favorevole ad una sorta di «euro del nord») di certo restringerebbe ancora i margini di manovra dell’immarcescibile cancelliera.

Non è un caso che in Italia si parli ben poco del dibattito in corso in Germania. Nei giorni scorsi la Corte costituzionale tedesca ha iniziato le udienze sui ricorsi presentati contro la Bce per l’adozione (l’estate scorsa) del programma Omt, che consente l’acquisto da parte della banca centrale di Francoforte dei titoli dei paesi dell’Eurozona che decidessero di farne richiesta. A difendere la Bce il membro tedesco del board, Jörg Asmussen; ad attaccarla il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Uno spettacolino che promette sviluppi.

Il fatto è che la maggioranza dei tedeschi è con Weidmann. Secondo un sondaggio il 48% vorrebbe bloccare il piano della Bce, mentre solo il 31% lo approva. Il problema non è tanto, dunque, il pronunciamento della Corte costituzionale (che avrà comunque tempi non brevi) quanto il sentimento diffuso in ampi strati della popolazione tedesca. Un elemento che ci dice già ora che niente di sostanziale potrà cambiare dopo il voto del 22 settembre. E se un cambiamento ci sarà, esso non sarà probabilmente nella direzione sperata dal governo italiano.

Ecco perché, al di là dei singoli provvedimenti, le misure del governo Letta mostrano una miseria senza precedenti. Frutto di una subalternità coltivata lungo l’ultimo ventennio, di un’impossibilità di cambiare senza ammettere il proprio fallimento, di una classe dirigente che merita solo di essere cancellata.

Non c’è alcuna luce in fondo al tunnel, ma solo nuove sofferenze per il popolo lavoratore. Quisquilie e pinzillacchere, così l’insuperabile Totò avrebbe definito le modeste trovate di Letta e del suo «decreto del fare» di fronte alla crisi senza sbocchi che viviamo da cinque anni. Ma sono quisquilie e pinzillacchere che preparano i nuovi sacrifici che verranno richiesti in nome del Dio Euro. Probabilmente assai prima di quanto si pensi.