Lo spauracchio del fascismo e come non si combatte contro di esso

E’ ancora presto per stabilire cosa resterà del Movimento del 9 dicembre, giornalisticamente liquidato come “i forconi”. Questa semplificazione ci aiuta tuttavia ad abbozzare una risposta, ovvero che esso potrebbe presto rioccupare la ribalta sociale.

Torniamo infatti al potente movimento che paralizzò la Sicilia nel gennaio 2012. Noi del Mpl fummo tra i pochi che, oltre a sostenerlo, intuimmo che esso non era una meteora. Non fu per caso se Mariano Ferro fu uno degli ospiti, nel marzo 2012, della nostra assemblea costitutiva.

Il Documento conclusivo di quella assise sosteneva:
«In questo contesto [di acutissima crisi sociale, Ndr] non c’è dubbio che emergeranno dal basso nuovi protagonisti. Come risultato del fallimento delle classi dominanti e dei loro partiti, entreranno in scena nuovi soggetti, sociali e politici, che saranno costretti a farsi largo nel solo modo che gli è consentito: la lotta diretta, la sollevazione. Che fisionomia avranno queste forze? Saranno quelle che la crisi economica e sociale, giunta dopo un ventennio di disgreganti politiche liberiste, ha già configurato. Tutto il popolo lavoratore è straziato dalla crisi sistemica: occupati e disoccupati, lavoratori dipendenti e autonomi, operai e commercianti, operai e artigiani, giovani e pensionati, agricoltori e impiegati». [Non c’è tempo da perdere]

Che dopo quasi due anni il Movimento del 9 dicembre si sia riallacciato alla rivolta siciliana del gennaio 2012 (non fosse che per il riconfermato ruolo di protagonista di Mariano Ferro e per le medesime modalità di lotta scelte) ci dice che vedemmo giusto, che i forconi erano il vagito di un neonato fenomeno sociale. Alcuni sinistrati snobbarono invece i forconi come una sicula jacquerie o, peggio, lo condannarono come fascistoide, malgrado la subitanea rottura dell’ala Ferro con quella minoritaria del trapanese Martino Morsello.

Lo stesso anatema, l’accusa di essere un fenomeno di tipo fascista, è stato inizialmente lanciato da certi “babbei” anche contro il Movimento del 9 dicembre. Siccome sin dall’inizio abbiamo preso parte al Movimento, i medesimi “babbei” ci hanno bollato come rosso-bruni, tacciati di esserci alleati ai fascisti e di agevolare dunque la loro avanzata.

L’incriminazione di rosso-brunismo è evaporata presto, non solo per come i militanti del Mpl hanno agito concretamente, ma anzitutto perché il giudizio su cui essa si fondava, ovvero che il 9/12 era un fenomeno fascista e reazionario, si è rivelato completamente sballato. I suddetti “babbei” han dovuto infatti compiere una maldestra e opportunistica marcia indietro. Resipiscenza? Per niente! Essi hanno raddrizzato il tiro solo dopo che da più parti, a sinistra, gli hanno tirato le orecchie per le loro analisi tanto primitive e grossolane. I “babbei” possono scoprirsi furbi, ma non gli si addicono né saggezza né onestà intellettuale. Vanno presi sul serio, ma senza esagerare.

Non tutti i sinistrati tuttavia sono in malafede o affetti da opportunismo. Ad altri si deve riconoscere onestà intellettuale, per quanto involucrata in un disarmante dottrinarismo. Questi dogmatici dopo aver sostenuto che:
«E’ completamente fuori strada chi, dopo aver appoggiato il M5S, ora appoggia e partecipa a movimenti di questi tipo per cercare di “spostarli” a sinistra. Sono posizioni pericolose che contribuiscono solo a rallentare la vigilanza nei confronti del pericolo di destra, a ostacolare la mobilitazione del proletariato nella lotta contro l’offensiva reazionaria, e che rischiano di gettare nelle braccia della reazione più nera i suoi settori arretrati»;
hanno quindi esibito un noto passaggio del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels:
«I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancora più, essi sono reazionari, essi tentano di far girare all’indietro la ruota della storia. Se sono rivoluzionari, lo sono in vista del loro imminente passaggio al proletariato; cioè non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, abbandonando il proprio modo di vedere per adottare quello del proletariato».

Per costoro questa frase è univoca, una specie di sentenza passata in giudicato: la piccola borghesia, nel caso entri in rotta di collisione con la borghesia, non può che farlo per scopi reazionari, poiché  reazionario sarebbe da parte sua opporsi alla propria rovina, alla ineluttabile proletarizzazione.

Dal punto di vista psicologico siamo davanti ad un irrazionale e cieco disprezzo della piccola borghesia poiché essa, ove si ribelli alla classse dominante, può solo partorire fascismo. Poggia forse, questo timor panico, su basi storiche? Ovviamente no. Su che poggia allora? Siamo in presenza di una trasposizione sul piano politico del discorso metafisico del male, l’idea innatistica che senza la Grazia, a prescindere da ogni loro opera, gli uomini avrebbero incise sulla loro carne, a causa del peccato originale di Adamo ed Eva, le stimmate della perdizione.

I dogmatici rassomigliano come gocce d’acqua e anche per altri versi ai rigoristi ed ai tradizionalisti religiosi. Per questi ultimi tutto ciò che doveva essere detto riguardo alla Verità starebbe scolpito nei Sacri libri. I comuni mortali potrebbero semmai limitarsi a rendere esplicito, della parola Divina, ciò che è implicito, decodificando i passaggi eventualmente esoterici e criptici.

Non è che ci piaccia trastullarci nell’esegetica, ma la frase che i dogmatici ci oppongono ha un carattere evidentemente anfibologico, contiene una doppia chiave interpretativa. Marx non dice infatti che i ceti medi sono metafisicamante condannati ad essere reazionari. Egli ammette, anche se lo fa con locuzione ellittica, che possono assolvere la funzione opposta, addirittura rivoluzionaria.

Marx ci invita dunque, per giudicare la natura di un dato movimento sociale, a non fermarsi alle sue premonizioni, ma a svolgere un’indagine specifica e multilaterale, ovvero non meramente sociologica, ma politica e oseremo dire morale e spirituale.

E’ certo che dal punto di vista sociologico il Movimento del 9 dicembre è stato principalmente (ma non solo, come vedremo) un sussulto di ceto medio imbestialito. E non c’è dubbio che si è trattato di una rivolta causata da uno dei macroscopici effetti della crisi sistemica: la sua pauperizzazione.
I dogmatici a questo punto esclamano: “Ecco, vedete?! Questi schifosi bottegai si rifiutano di diventare dei proletari”. Come se si dovesse esser contenti per l’essere gettati sul lastrico; come se, per dar prova del proprio carattere anticapitalistico, i ceri medi non dovrebbero incazzarsi contro chi li spinge alla fame, ma dovessero fare salti di gioia per il fatto di diventare finalmente schiavi salariati.

Lasciamo questi discorsi puerili ai mistici della (inesistente) verginità proletaria.

Fascista è la rivolta del ceto medio quando, invece di identificare nelle oligarchie capitalistiche il proprio nemico, in combutta con esse, lo individua nel proletariato rivoluzionario e gli si scaglia contro per schiacciarlo con la forza.

Corrisponde a questo elementare ma decisivo criterio il Movimento del 9 dicembre? E’ ovvio che no! E per almeno quattro buone ragioni.

La prima è che manca all’insorgere di una reazione fascista il suo principale movente: l’esistenza di un movimento proletario-rivoluzionario di massa e offensivo, tale da spaventare il ceto medio e renderlo disponibile come mano armata extralegale del grande capitale. Detto in soldoni: il fascismo è una delle forme della controrivoluzione, più precisamente un arnese della guerra civile preventiva per schiacciare sul nascere la rivoluzione socialista montante. Non fosse che per questo ogni analogia tra la fase che viviamo e quella in cui dilagò il fascismo è improponibile.

La seconda ragione per cui il Movimento del 9 dicembre non corrisponde ad un idealtipo di movimento fascista o reazionario è la piattaforma su cui i promotori hanno chiamato alla mobilitazione. Vale la pena ricapitolare i suoi sette punti: «(1) contro la globalizzazione, (2) contro l’Unione europea, (3) per riprendersi la sovranità popolare e monetaria, (4) per riappropriarsi della democrazia, (5) per il rispetto della Cosituzione, (6) per cacciare il governo dei nominati, (7) per difendere la dignità del popolo italiano».

Il carattere democratico di questa piattaforma salta agli occhi. Occorre scambiare l’internazionalismo con la globalizzazione (e quindi considerare “regressiva” la rivendicazione della sovranità nazionale), o agitarsi sotto la sottana del Pd (e chiedere “più Europa”), per considerarla “reazionaria”.

La terza ragione è nella natura politica dei suoi leader. Non la si può ricavare considerando il fattore che essi originano dalla putrefazione del berlusconismo e del leghismo. Se, liberi dalla sindrome dell’antiberlusconismo, si valutassero invece le ragioni e il carattere di questo divorzio, si scoprirebbe facilmente quanto esso sia progressivo e lontano dai fantasmi della fascistizzazione . A chi usa queste origini come atto d’accusa contro i Ferro e i Chiavegato vorremmo quindi chiedere con quali soggetti sociali pensa di cambiare questo paese.  Forse coi tre cosiddetti milioni che hanno fatto la fila alle primarie del Pd? O solo con i cascami della “sinistra radicale” che fu? Ammesso che Danilo Calvani sia un fascistoide, la scissione di quest’ultimo con la maggior parte dei portavoce del Movimento — dopo la pagliacciata romana del 18 dicembre  anticipata dal comunicato stampa seguito alla furbesca adesione di Forza Nuova —, è la prova fattuale che questo Movimento si è spurgato presto della sua anima macabra e reazionaria.

La quarta ragione sta nella composita natura sociale del movimento che dal 9 dicembre si è effettivamente messo in moto, ovvero dal fatto che la gioventù proletaria e precaria ha presto, e in molti luoghi, occupato la prima linea dei presidi. Certo a questa epifania non ha corrisposto un livello adeguato di cosiddetta “coscienza di classe”. E’ vero che il tricolore è stato issato come simbolo coesivo e che il comune sentire si esprimeva nel luogo comune “non siamo né di destra né di sinistra”. Solo chi in questi decenni è vissuto nella sua sterile e paralizzante bolla ideologica poteva aspettarsi qualcosa di diverso.

Chiediamoci: sono questi due simulacri segno della natura reazionaria della rivolta? E come ci spieghiamo che in questi ultimi anni, nelle stesse battaglie di resistenza degli operai — a cominciare dai 21 giorni di lotta alla FIAT di Melfi del 1994 che davanti alla carica della polizia si sedettero a terra cantando non bandiera rossa ma l’inno di Mameli, fino a quelle degli autoferrotranvieri di Genova dei primi giorni di dicembre —, abbiamo udito gli stessi discorsi e usare gli stessi simboli?

Non c’è alcuna muraglia cinese, né materiale né ideologica, tra gli operai e il ceto medio. E’ egemone in entrambi queste classi, l’ideologia liberista ed eurista dominante. Il Movimento 9 dicembre ha una straordinaria importanza, non fosse perché segnala il tramonto della presa ideologica del neoliberismo non più solo negli ambienti sociali che gli erano storicamente refrattari, ma in quel vasto ceto medio che per decenni era la sua roccaforte.

Chi voglia cambiare lo stato di cose presenti è anche in questa mucillaggine sociale, portata ad un alto grado di ebollizione dalla crisi sistemica, che deve agire. Ogni rivoluzione sociale si fa col materiale umano che ti consegna la crisi capitalistica (si badi: non lo sviluppo o la crescita, ma la crisi del capitalismo). Chi è atterrito dal rischio di contaminazione non solo crede poco in sé stesso, chiudendosi nella sua turris eburnea non salverà nemmeno la sua presunta “purezza”, e non potrà di certo contribuire a guarire il popolo dalle sue numerose malattie. E la guarigione implica la lotta, una lotta furibonda, che consiste anzitutto nell’aiutare gli oppressi a scrollarsi tutta la merda che secoli di sudditanza hanno loro appiccicato addosso.

Dal di dentro della rivolte dunque, non dal di fuori, è possibile evitare lo sbandamento o la degenerazione reazionaria dei movimenti sociali.

Per concludere. Non noi, ma la storia, condanna le posizioni dei nostri critici come oggettivamente filo-fasciste. Anche ove il Movimento 9 dicembre fosse stato permeato a fondo di pulsioni reazionarie (e abbiamo visto che così non è stato) la sinistra sovranista avrebbe dovuto prendervi parte e di lì contrastare a viso aperto le tendenze fasciste. Scomunicare le rivolte della piccola borghesia, prenderne le distanze a causa del loro carattere spurio è il miglior servizio che si possa fare ai demagoghi e agli avventurieri, significa lasciare loro campo libero. Agitare compulsivamente lo spauracchio del fascismo quando esso è (ancora) solo un lontano fantasma, più che un invito ragionevole alla “vigilanza” è il sintomo infallibile delle proprie ossessioni paranoiche.

Quel che i paranoidi non capiscono (e comincia ad essere tardi per capirlo) è che il nemico del giorno non sono i nostalgici del fascismo che fu, bensì il mostruoso regime di dittatura globalista che è venuto consolidandosi in nome dell’Europa e della democrazia. Toglietegli i suoi travestimenti ideologici e scoprirete che si tratta a tutti gli effetti di un fratello gemello del fascismo, ovvero della dittatura del capitale finanziario alla sua ennesima potenza.

C’è vita in mezzo a chi l’ha capito e ha deciso di ribellarsi. Afflizione e pena, invece, nella palude di una sinistra malata che rifiuta cocciutamente di sottoporsi a guarigione.