«Il QE all’europea può risultare l’ennesimo pannicello caldo che la BCE somministra alla disastrata economia europea procrastinando la sua agonia e il redde rationem della moneta unica: un quadro questo in cui si affermano le condizioni vieppiù  sconfortanti dei lavoratori, condannati a continui giri di vite in termini di sempre maggiore precarietà e sempre peggiore salario. Ma queste contraddizioni non sono che una prova ulteriore della perversità insita nell’architettura dell’euro, che pare avviato a diventare una metafora di quanto di peggio c’è nel capitalismo».

Più che la crisi poté la deflazione. Non c’è ancora nessuna certezza, ma ora anche la Bce sembrerebbe apprestarsi al Quantitative Easing (QE) – una forma di emissione monetaria attraverso l’acquisto di titoli di vario tipo. Lo scopo: innalzare l’inflazione di qualche decimale. Nell’incertezza, però, il problema non è solo il «se», ma anche e soprattutto il «come» di questa operazione. E’ probabile infatti che gli acquisti – comunque proporzionati in base al Pil in modo da favorire la Germania (ci mancherebbe!) – si dirigano non tanto verso i titoli pubblici quanto in direzione di quelli privati, magari con l’obiettivo principale di foraggiare nuovamente le banche.

Di tutto ciò ci parlano, nell’articolo che segue, Giancarlo Bergamini e Sergio Cesaratto.


Cos’è il Quantitative Easing e che effetti può avere

di Giancarlo Bergamini* e Sergio Cesaratto**

La settimana scorsa, alcune dichiarazioni possibiliste di Jens Weidmann, governatore della Bundesbank e membro del consiglio direttivo della Banca Centrale Europea (BCE) con fama di falco, hanno alimentato fra gli operatori dei mercati finanziari l’aspettativa di imminenti misure di stimolo volte a scongiurare i rischi di cali generalizzati dei prezzi e dei redditi (la temuta deflazione). In particolare ci si attende che la BCE ponga in essere operazioni note come Quantitative Easing (QE per brevità) consistenti nell’acquisto massiccio di titoli con denaro di nuova emissione.

La BCE sarebbe solo l’ultimo istituto d’emissione a praticare il QE, dopo che da anni ne fanno uso, con diverse modalità, le banche centrali di Usa, GB, Giappone e Svizzera. Tali acquisti, realizzati  iniettando nel sistema moneta addizionale, vengono variamente giustificati a seconda dei rispettivi mandati. La Federal Reserve americana può esplicitamente dichiarare che l’aumento di domanda ottenuto in virtù del QE consentirà di abbassare la disoccupazione; la Bank of England si è limitata ad indicare che l’aumento di circolante serve ad evitare che l’inflazione scenda troppo al di sotto del 2% annuo; la BCE lo presenterà probabilmente come strumento di “trasmissione della politica monetaria”, cioè volto a determinare tassi di interesse e provvista di credito sufficientemente uniformi in tutta l’Eurozona e per i diversi operatori economici, ma anche come strumento per evitare che il tasso di inflazione si allontani troppo dall’obiettivo del 2%. Per la verità forme di QE sono state già praticate anche dalla BCE sotto forma di acquisto di titoli pubblici nel mercato secondario nel Securities Market Programme (2010-11), ma in quel caso l’immissione di liquidità veniva sterilizzata ciò che non accadrebbe col QE.

Nonostante operazioni di questo genere, spesso definite “non ortodosse” (ma cos’è l’ortodossia?), vengano poste in essere fin dal 2008, non c’è ancora consenso sulla loro efficacia. I critici sostengono, con qualche plausibilità, che queste ingenti immissioni di liquidità non fanno che alimentare altre bolle finanziarie, con tutti i rischi per la stabilità che ne conseguono. In risposta a tali censure, alcuni economisti fra cui Larry Summers, con una certa onestà intellettuale, si sono chiesti se le bolle non siano proprio quello di cui hanno bisogno economie mature, altrimenti condannate alla stagnazione, per ottenere un minimo di crescita.

L’abbassamento dei tassi d’interesse che si produrrebbe sui titoli oggetto del QE – data la relazione inversa fra prezzo dei titoli e loro rendimento – si trasmetterebbe tramite i normali meccanismi di mercato alle altre classi di titoli e finirebbe, secondo la teoria dominante, per incoraggiare le decisioni di spesa. Più che sugli investimenti delle imprese, l’aumento del prezzo dei titoli potrebbe avere “effetti ricchezza” sulla spesa delle famiglie che li posseggono, le quali sarebbero invogliate a spendere di più forti della percezione di un’accresciuta ricchezza mobiliare. Tale effetto è tuttavia più certo negli Stati Uniti dove, per esempio via fondi comuni e fondi pensione, il ceto medio possiede parecchi titoli, ma probabilmente meno in Europa.

Proviamo dunque ad immaginare realisticamente i possibili vantaggi, in particolare per il nostro paese, di un massiccio programma di acquisti che comprenda titoli di tutti i Paesi dell’Eurozona in ragione del peso dei rispettivi PIL. Un ulteriore calo dei tassi a lungo termine avrebbe effetti positivi per il bilancio pubblico, mentre le ripercussioni sulle obbligazioni societarie e sul mercato azionario potrebbero favorire il settore privato. Il condizionale è d’obbligo perché le decisioni di investimento delle imprese dipendono fondamentalmente dalla domanda aggregata attesa e non tanto da favorevoli condizioni sul lato del loro finanziamento. E da questo punto di vista non ci attendiamo che il QE abbia effetti dirimenti sulle decisioni di spesa delle famiglie.

Un eventuale QE europeo comporterebbe una ripartizione degli acquisti di titoli fra i paesi dell’Eurozona in proporzione alla partecipazione al capitale della BCE in modo da non prestare il fianco all’accusa di essere un aiuto esclusivo alle economie periferiche. Più controversa è la distribuzione degli acquisti fra titoli pubblici e privati, con i tedeschi che favoriscono i secondi per motivi evidenti a tutti. Con un’economia tedesca che marcia vicino al pieno impiego, laddove il QE conducesse a una maggiore domanda interna questo potrebbe tradursi in acquisti addizionali di nostri beni e servizi scongiurando nuovi squilibri commerciali intra-Eurozona. Si tratta però di effetti sulla cui portata v’è da essere estremamente cauti e che, comunque, dipendono dalla dimensione delle misure di QE, essa stessa un segnale della volontà europea di combattere la crisi. E sull’esistenza di questa volontà v’è anche da essere assai scettici.

Chi potrebbe certamente beneficiare del QE sono le banche, sia che scelgano di cedere titoli alla BCE realizzando significative plusvalenze, sia che preferiscano approfittare di più propizie condizioni sul mercato azionario per condurre in porto i necessari aumenti di capitale. In ogni caso, i loro quozienti patrimoniali risulterebbero migliorati, con conseguenti maggiori chance di passare le “prove da sforzo” (stress test) a cui saranno sottoposte dalla BCE nei prossimi mesi, il primo passaggio della gracilissima “unione bancaria” che l’Unione Europea sta faticosamente impostando. Sospettiamo che il sostegno ai bilanci bancari – inclusi quelli tedeschi, il che spiegherebbe la presa di posizione di Weidmann – possa essere la motivazione principale del QE. (Bilanci bancari in ordine potrebbero in subordine accrescere la capacità di erogare credito, ma senza una ripresa della domanda aggregata “il cavallo non beve” come si diceva un tempo).

Una possibile variante del QE sarebbe l’acquisto di titoli rappresentativi di mutui fondiari e prestiti alle aziende. Quasi la metà degli interventi della Banca Centrale Usa ha per oggetto mutui cartolarizzati. In Europa il limite è costituito dall’insufficiente disponibilità di tali titoli a causa del non massiccio ricorso alla cartolarizzazione (la complessa procedura di “confezionamento” dei mutui), che diversamente dagli Usa non è ancora ripresa su larga scala dopo il fermo del 2008-2009.

Una ricaduta non trascurabile, una vera boccata d’ossigeno per i nostri esportatori, potrebbe venire dall’indebolimento del cambio esterno dell’Euro. A questo proposito, alcuni commentatori propongono che  – analogamente a quanto fanno la Banca Nazionale Svizzera e la Bank of Japan – la BCE compri titoli esteri, allo scopo di abbassare il valore dell’Euro.

Viste le condizioni comatose della nostra economia, quella del QE, presa in sé, può essere una proposta da non respingere. Ma il giudizio si fa più critico ove si allarghi lo sguardo.

La prima riflessione riguarda il grave ritardo nell’adozione – ammesso che vengano effettivamente adottate – di misure che sarebbero state mature almeno due anni fa. E’ un ritardo dovuto esclusivamente alla difficoltà di raccogliere, all’interno della BCE, il consenso di dirigenti provenienti da Paesi in condizioni economiche divergenti. Viene da chiedersi quali danni si siano prodotti, nel frattempo, nelle economie più deboli. L’ineffabile Weidmann ha peraltro successivamente ritrattato parte delle sue aperture in un defatigante stop and go sulla pelle di milioni di cittadini europei.

La seconda criticità, ancora più grave, attiene alla macroscopica asimmetria fra le vere e proprie acrobazie di una politica monetaria espansiva di quantomeno dubbia efficacia e la deliberata scelleratezza con cui si continua ad imporre all’eurozona una politica di bilancio ostinatamente restrittiva. Il QE all’europea può risultare l’ennesimo pannicello caldo che la BCE somministra alla disastrata economia europea procrastinando la sua agonia e il redde rationem della moneta unica: un quadro questo in cui si affermano le condizioni vieppiù  sconfortanti dei lavoratori, condannati a continui giri di vite in termini di sempre maggiore precarietà e sempre peggiore salario.  Ma queste contraddizioni non sono che una prova ulteriore della perversità insita nell’architettura dell’euro, che pare avviato a diventare una metafora di quanto di peggio c’è nel capitalismo.

Postilla

Una postilla sollecitata anche da un commento (ricevuto in privato) da Antonella Stirati.
1) Se il QE comporta acquisti di titoli proporzionali alle quote di capitale BCE (come probabile se si fa), questo non aiuta la discesa dei differenziali fra paesi dei tassi di rendimento dei titoli. Da questo punto di vista il QE dovrebbe riguardare soprattutto i paesi periferici (come ci suggeriva la prof.ssa Stirati). Nel pezzo noi abbiamo enfatizzato l’aspetto stimolo alla domanda interna tedesca, anche importante, pur con le molto cautele circa gli effetti del QE sulla domanda aggregata specie se condotto su scala inadeguata.

2) Circa la scelta fra titoli pubblici e privati: se il QE fosse rivolto come vorrebbero i tedeschi soprattutto o esclusivamente a quelli privati – per giunta di qualità, cioè di grandi imprese che l’Italia non ha (riprendo il Sole-24 Ore del 2 aprile) – non si assalirebbe la radice del problema, cioè il fatto che il settore del credito nella periferia pratica tassi di interesse elevati proprio come conseguenza dei tassi relativamente elevati sui titoli pubblici. Quindi se la BCE volesse essere coerente con l’obiettivo congiunto di preservare e uniformare la trasmissione della politica monetaria nell’Eurozona dovrebbe concentrare il QE sui titoli pubblici dei paesi periferici (come ci suggeriva Stirati). A questo punto il QE si risolverebbe in quello che da anni reclamiamo a gran voce: un intervento attivo della BCE sui debiti sovrani in difficoltà (senza condizionalità e senza sterilizzazioni). Naturalmente questo non basterebbe per “far bere il cavallo” senza un’opportuna politica fiscale espansiva, a sua volta favorita dalla politica monetaria accomodante.

*Già funzionario di banca ** Professore ordinario di Politica monetaria e fiscale dell’Unione Monetaria Europea, Università di Siena

da Economia e politica, 3 aprile 2014