Cosa è successo in questi giorni tra Parigi, Roma e Berlino? Cosa è successo ieri a Napoli da mandare in tilt il listino di Milano, e non solo? E’ successa una cosa semplice, semplice. Da noi da tempo prevista e del resto facilmente immaginabile. In breve: la crisi del mostro eurista sta giungendo ad un punto di svolta, rimettendo giocoforza al centro i diversi interessi nazionali.
Partiamo innanzitutto dai fatti.
Martedì scorso il governo italiano ha varato la nota di aggiustamento del DEF (Documento di Economia e Finanza), con la quale Renzi ha annunciato di voler riprendere nel 2015 una politica di deficit spending (spesa a debito), rinviando di due anni (al 2017) il pareggio di bilancio strutturale, e sospendendo almeno per il 2015 il percorso previsto dal fiscal compact.
Il giorno dopo è toccato al governo francese, che per bocca del ministro delle Finanze Michel Sapin ha spostato di 3 anni (dal 2014 al 2017) l’obiettivo del 3% nel rapporto deficit/Pil. Una decisione, che insieme a quella italiana, ha suscitato l’immediata reazione della Merkel che ha ribadito la necessità di «rispettare le regole» e gli impegni presi.
La netta posizione tedesca non poteva che riverberarsi sulla riunione che la Bce ha tenuto ieri a Napoli. «L’Europa cade, Borse deluse dalla Bce», questo il titolo del Sole 24 Ore di stamattina. I mercati finanziari si attendevano se non l’annuncio, quantomeno un’apertura all’ipotesi di un vero e proprio quantitative easing. L’aspettativa sembrava ragionevole, anche in virtù delle sollecitazioni giunte in tal senso da oltreoceano. E invece no: è evidente che la Germania, già contraria alla stessa operazione di acquisto di Abs e covered bond, ieri confermata da Draghi sia pure con qualche rinvio, ha posto il veto su un quantitative easing all’americana, includente cioè l’acquisto di titoli di stato.
L’operazione della Bce su Abs e covered bond viene presentata come un tentativo di immissione di liquidità e di rilancio dell’inflazione, ma si tratta nella sostanza dell’ennesimo aiutino al sistema bancario. I covered bond di cui si parla altro non sono che obbligazioni bancarie, mentre i titoli Abs (asset backed securities) sono titoli frutto di cartolarizzazioni operate dalle banche, per loro natura potenzialmente assai tossici. Draghi sostiene che in questo modo le banche, ritrovandosi bilanci graziosamente abbelliti, avrebbero maggiori possibilità di rilanciare il credito. Tutta l’esperienza di questi anni ci dice però che un meccanismo così concepito non funziona, dato che il credito non riparte semplicemente perché gli investimenti sono in caduta libera.
Ma lasciamo ora da parte gli aspetti tecnici e concentriamoci sulla sostanza politica. Francia ed Italia, sia pure in termini diversi, hanno preso un’iniziativa che la Germania non può accettare. Quella in corso non è dunque una sceneggiata, anche se – possiamo esserne certi – le piroette non mancheranno nelle prossime settimane. Quello che si è aperto è un vero e proprio scontro, del quale ovviamente non possiamo prevedere al momento gli sviluppi.
Stefano Folli, nel suo editoriale sul Sole 24 Ore (titolo: «Più che un asse con Parigi e Londra Renzi pensa alla politica interna»), sottolinea come Renzi, Hollande e Cameron (che ieri Renzi ha incontrato) siano tutti mossi da diverse esigenze politiche di natura interna. Hollande deve reagire al tracollo dei consensi del suo partito ed alla crescita del Front National, Cameron non può concedere altro terreno al partito di Farage, Renzi sa benissimo che il suo 40,8% delle europee è quanto mai fragile.
C’è però un piccolo dettaglio, che Folli giustamente coglie. Anche la signora Merkel ha i suoi problemi in patria. E si tratta non solo dell’opposizione alla “flessibilità” sui conti da concedere ai paesi dell’area mediterranea, ben rappresentata dal governatore della Bundesbank, Jens Weidmann. Si tratta anche dell’ascesa elettorale della formazione anti-euro Afd (Alternative für Deutschland). Da qui una rigidità semmai rafforzata rispetto al passato.
L’editorialista del giornale della Confindustria ci dice in sostanza che ognuno si sta muovendo per conto proprio. Non solo Cameron, che dell’euro e del fiscal compact può infischiarsene allegramente, è un caso a parte. Ma che perfino Parigi e Roma vanno ognuno per la propria strada, giocando al massimo di sponda. Del resto, egli dice, il governo francese ha deciso di sforare il 3%, quello italiano invece no.
Perfetto. Ammettiamo che la tesi di Folli sia giusta al 100%: non è questo l’annuncio di un incipiente processo di disunione europea? Personalmente penso che questa tesi sia magari giusta solo all’80%, dato che tra Roma e Parigi se è vero che non c’è un asse strategico, c’è comunque una forte convergenza tattica. Ma il risultato non cambia. Il prevalere degli interessi nazionali è netto, altro che spinta verso l’irrealistica «Europa federale» di certa nostrana «sinistra»!
Naturalmente il processo di disunione si presenta in forma altamente contraddittoria. Com’è ovvio, nessuno dei protagonisti vuole e può mettere in discussione al momento la moneta unica ed il suo sistema di dominio. Ed infatti gli stessi obiettivi di bilancio non vengono negati, ma semplicemente rinviati.
Siccome agli annunci dei giorni scorsi dovranno seguire a breve le «Leggi di stabilità» dei vari stati, e siccome la Commissione europea dovrà poi pronunciarsi su di esse – e poi qualcuno ci dice che la questione della «sovranità» è un trascurabile dettaglio – vediamo come Italia e Francia intendono presentarsi agli esaminatori europei.
Il governo francese presenterà il suo piano di tagli alla spesa pubblica di 50 miliardi entro il 2017. Peccato però che nel frattempo il debito passerà dal 90 al 98% e che il pareggio di bilancio strutturale sia rimandato al 2019. Campa cavallo…
Il governo italiano userà invece tre argomenti: il rispetto del 3% quando la metà dei paesi dell’eurozona sta sopra; le «riforme strutturali», cioè il famoso «scalpo» dell’articolo 18; la clausola di garanzia sull’IVA. Soffermiamoci su quest’ultimo punto, perché si tratta di un impegno gigantesco nascosto nelle pieghe di una manovra che verrà presentata come espansiva.
In sostanza, al fine di ottenere costi quel che costi il pareggio di bilancio nel 2017, il governo introdurrà nella Legge di stabilità un vincolo ben preciso. In pratica se – come è sicuro che accada – i tagli non basteranno, vi sarà una gigantesca manovra sull’IVA e sulle altre imposte indirette. Questi gli incrementi della tassazione previsti: 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Alla faccia della riduzione della pressione fiscale!
Abbiamo dunque, specie nel caso italiano, un’operazione double face. Da un lato si alleggerisce parzialmente l’austerità (anche se una decina di miliardi di tagli da qualche parte dovranno comunque venir fuori entro 15 giorni), dall’altro si offre a Bruxelles un’austerità futura ancora più forte.
E’ la solita tecnica del «prendere tempo», che Renzi usa per ragioni politiche, ma anche come conseguenza della drammaticità dei dati sulla (de)crescita e sulla disoccupazione. Ma è anche la manifestazione di una contraddizione che il Coordinamento della sinistra contro l’euro ha segnalato da tempo.
Vista da Berlino e da Bruxelles la questione si pone però in termini assai diversi. E’ evidente infatti che se le dilazioni proposte venissero accettate il fiscal compact diventerebbe una barzelletta che ognuno si aggiusterebbe a proprio uso e consumo.
Ora, siamo tra quelli che hanno sempre detto e scritto che il fiscal compact è semplicemente insostenibile per le economie del sud Europa. E, tuttavia, siamo altrettanto convinti che dal punto di vista di chi vuol difendere l’euro il fiscal compact sia assolutamente necessario. Il perché è semplice. Dato che la condivisione del debito è esclusa in partenza, e dato che non potrà mai reggere una moneta senza unione fiscale e di bilancio, è chiaro che occorre una convergenza dei vari debiti nazionali al fine di poter giungere all’unione di cui sopra. Il fiscal compact è nato esattamente per questo. Un mostro ma con delle finalità del tutto logiche dal punto di vista di chi l’ha concepito.
Dunque, possiamo esserne certi, il blocco eurista a guida tedesca non mollerà la presa. Lo scontro è nei fatti, al di là dell’assoluta pochezza dei vari Renzi ed Hollande. E in questo scontro Draghi è allineato con la Germania, come le decisioni del direttivo della Bce di Napoli dimostrano. A maggior ragione il 25 ottobre saremo a Città della Pieve, laddove egli ha una propria residenza, per manifestare contro Draghi ed il potere oligarchico che rappresenta.
Se l’Europa comincia a ballare, è questo il momento che anche le forze sovraniste ed anti-euro democratiche e di sinistra, che cioè vedono l’uscita dalla moneta unica come premessa per una svolta politica e sociale, scendano in campo con maggior forza, unità e determinazione.
PS Tornando ai conti del governo Renzi si impone una noterella finale. La politica di deficit spending in assenza di sovranità monetaria non è una cosa alla quale allegramente brindare. E’ molto probabile che essa porti a nuove crisi del debito, ad una ripresa dello spread, a nuove tempeste finanziarie. In breve: l’allentamento, per quanto parzialissimo, dell’austerità, serve a ben poco se non si esce dall’infernale sistema dell’euro che la rende necessaria.