Torino 2016: l’Invincibile Armata, gli “utili idioti”, il cretinismo extraparlamentare e la zavorra sindacale
Torniamo sul significato dei ballottaggi del 19 giugno con questo intervento di Cesare Allara
La botta presa dal PD domenica scorsa è di quelle storiche. Il risultato di Roma era abbastanza scontato dopo decine d’anni di amministrazioni corrotte, dopo Mafia Capitale e la defenestrazione voluta da Renzi dello spaesato Marino. Il risultato più sorprendente da analizzare è però quello di Torino. Dove dal 2011, anno dell’esordio in Consiglio Comunale con due consiglieri, il M5S ha costruito meticolosamente giorno dopo giorno la vittoria cercando soprattutto di dividere, erodere quel consolidato blocco sociale che per decenni ha consentito alla “sinistra” torinese e alle sue clientele di dominare la città. Blocco sociale, meglio ricordarlo, che riusciva a tenere assieme gli interessi di FIAT, di Banca San Paolo, del Collegio Costruttori, fino all’operaio iscritto al PCI-PDS-DS-PD, al pensionato inquadrato nelle truppe cammellate di quella vera e propria setta chiamata SPI-CGIL, e agli “utili idioti” che pensano ancora al PD come partito della classe operaia: una invincibile armata, fino a qualche giorno fa.
Le giunte di “sinistra” che si sono succedute (Castellani, Chiamparino, Fassino) si sono solo e sempre occupate ovviamente di compiacere gli anelli forti di quel blocco sociale: Marchionne, e colui che è stato il vero dominus di Torino, Enrico Salza ex presidente di Intesa-San Paolo che qualche giorno prima del ballottaggio ha dichiarato: “Fassino non può non vincere, altrimenti finiscono Torino e il Piemonte” (La Stampa, 9 giugno). Hanno trasformato la Torino post-industriale in attrattiva turistica valorizzando particolarmente il centro e i luoghi storici, ma le periferie sono state abbandonate. Quelle periferie (Vallette, Falchera, Mirafiori Sud, ecc), tradizionali roccaforti del “Partito”, il PCI, dove il M5S è stato invece presente con assiduità in questi ultimi anni con banchetti e comizi. Se si aggiunge la crisi occupazionale, con la FIAT praticamente chiusa da sei anni con conseguenze drammatiche anche per l’indotto, i provvedimenti antipopolari dei governi Monti-Letta-Renzi, la povertà diffusa, i problemi causati dall’immigrazione scaricati totalmente sui quartieri una volta operai, si comprende perché l’anello debole del blocco sociale si è rotto e il voto, al netto dell’astensionismo, si è riversato sul M5S.
Siamo in presenza di un cambiamento epocale europeo, non solo italiano o torinese: alle elezioni i ceti meno abbienti, quelli colpiti duramente dalle politiche austeritarie si astengono, votano a destra oppure come a Torino il M5S; mentre i garantiti, i pensionati cammellati della Troika sindacale, le clientele mafiose, il grande padronato, i palazzinari, i banchieri, i faccendieri, gli intrallazzatori e qualche irriducibile “utile idiota” sopravvissuto al quarantennale percorso trasformistico PCI-PDS-DS-PD, votano a “sinistra”. Anche a Roma le periferie ex rosse, che a detta degli esperti sarebbero passate in mano a Casa Pound, vedono il successo del M5S. Difficile dire ora se questo divorzio dei ceti deboli dalla “sinistra” sia temporaneo o irreversibile. Dipenderà da molti fattori, ma probabilmente, durerà per tutta questa fase liberista del capitalismo che vede tutta la “sinistra” variamente coniugata (Tsipras, Corbyn …) duramente impegnata nel salvataggio dell’Europa dei padroni e della finanza.
Ma Torino è stata anche la città dove il cretinismo extraparlamentare di una sinistra-sinistra in carenza di strapuntini istituzionali ha prodotto l’ennesima ammucchiata elettorale, la quinta o la sesta, si è perso il conto, dopo la catastrofe elettorale del 2008. Questa volta la grande novità era che l’iniziativa per questa lista è stata presa addiritura da Giorgio Airaudo, che pur essendo deputato, eletto solo perché alleato col PD, continua ad essere nei fatti il segretario della FIOM torinese. Nonostante ciò il risultato è stato modesto. Insignificante è stato poi il risultato di altre tre liste presenti sulla scheda elettorale: una lista civetta di “sinistra” di aspiranti a strapuntini assicurati in cambio dell’appoggio a Fassino guidata dall’eterno, ma ormai fortunatamente ex assessore al Bilancio Passoni, e due anacronistiche liste comuniste che rispecchiavano pari pari le divisioni del comunismo novecentesco sulle quali non vale la pena di perdere neanche dieci secondi.
In quell’area, è assai improbabile, quasi impossibile, che qualcuno si ponga pubblicamente la domanda più ovvia: perché i ceti che tradizionalmente facevano riferimento alla sinistra hanno individuato nel M5S la forza politica del cambiamento? Un’analisi non opportunista, innescherebbe una lunga e imbarazzante catena dei perché al termine della quale, a essere conseguenti, si dovrebbero trarre dolorose conclusioni, prendere drastiche decisioni, rompere tradizionali amicizie, sconvolgere schemini secolari. Meglio far finta di nulla aspettando la prossima scadenza elettorale sperando che vada meglio. Meglio raffigurare i ceti colpiti dalla crisi che hanno votato M5S come dei cretini che si lasciano facilmente imbonire da discorsi xenofobi, razzisti, populisti fatti da movimenti “fascistoidi” guidati da elementi piccolo-borghesi.
E pensare che per quasi due decenni, in nome di un viscerale antiberlusconismo equirarato strumentalmente all’antifascismo, i dirigenti della sinistra-sinistra hanno approvato tutti i provvedimenti antipopolari dei governi di centrosinistra, hanno votato e invitato a votare candidati “progressisti” come Franco Debenedetti nel collegio senatoriale di Torino-Centro o Giorgio Benvenuto, segretario UIL nel 1980, quello conosciuto per la famosa frase ai cancelli FIAT durante i 35 giorni dell’occupazione “O molla la FIAT, o la FIAT molla”; salvo poi pochi giorni dopo firmare l’accordo capestro sollecitato da Luciano Lama e scritto di suo pugno da Cesare Romiti che metteva, fra gli altri, il sottoscritto fuori dalla fabbrica. Me lo ritrovai negli anni Novanta candidato al Senato nel mio collegio, e da buon geometra tracciai senza righello due perfette diagonali da un angolo all’altro della scheda, corredando il tutto con una espressione di circostanza non riferibile.
Una breve digressione su Milano. Gli esperti di flussi elettorali, in testa il professor D’Alimonte padre dell’Italicum, sono concordi nell’affermare che la vittoria al ballottaggio del candidato di centrosinistra Sala sul candidato di centrodestra Parisi è la conseguenza dello spostamento del 90% dei voti della lista della “sinistra” cosiddetta “radicale” sul candidato voluto da Renzi. Ma la lista di Basilio Rizzo non doveva essere alternativa a quella del candidato di Renzi? Ma se erano simili le due liste, cosa costava votare per Parisi mettendo da parte stupidi pregiudizi ideologici? Se avesse perso anche Milano per Renzi non sarebbe stata una sconfitta, ma una disfatta, con conseguenze inimmaginabili. O no? Considerazione generale che non vale solo per Milano. Sarà per la scarsa credibilità della sinistra “alternativa” che i ceti che tradizionalmente votavano a sinistra hanno dirottato il loro voto sul M5S?
A Torino l’altro sconfitto delle comunali è il sindacato, in primis la FIOM di Airaudo. Anche in questo caso è la credibilità che fa difetto. Da mesi, i dirigenti svicolano, evitano accuratamente di rispondere alla domanda più ovvia che tutti si fanno vedendo la prolungata mobilitazione dei lavoratori francesi contro i provvedimenti in materia di lavoro adottati dal governo imperialista, guerrafondaio, liberista del socialista Hollande: perché in Francia, l’introduzione di una infame legge sul lavoro ha suscitato una tale rabbiosa reazione della CGT e dei lavoratori, mentre in Italia l’omologo Jobs Act piddino è a suo tempo passato senza alcuna apprezzabile contestazione? E ancora: ma chi proclama ai quattro venti di voler rianimare la coscienza di classe, l’internazionalismo, e costruire movimenti di lotta duraturi, non dovrebbe innanzitutto individuare eventi e precise responsabilità con nomi e cognomi di coloro che hanno determinato la disfatta storica del movimento operaio italiano, la sua resa incondizionata e la sua conseguente passività?
“Vi siete fatti fregare, voi italiani. Non faremo lo stesso”, dice un battagliero Roger Lamur, segretario generale della CGT del Dipartimento Bouches du Rhone (La Stampa, 25 maggio). E infatti le poche immagini sulle lotte dei lavoratori francesi che trasmettono le televisioni del regime napolitan-renziano mostrano blocchi stradali, ferroviari, occupazioni di raffinerie, scioperi del traffico aereo, eccetera. Azioni inimmaginabili in Italia, dove in primis la CGIL, in combutta con il governo di turno, ha provveduto a neutralizzare il diritto di sciopero per le categorie strategiche come ad esempio i trasporti.
La CGIL nel 1998, a seguito di un duro sciopero del trasporto aereo, propose di “regolamentare”, cioè depotenziare il diritto di sciopero del settore e si inventò un “diritto alla mobilità” di cui dovevano godere tutti i cittadini italiani: “Dobbiamo sperimentare forme nuove di lotta, come lo ‘sciopero virtuale’. Lo sciopero, cioè, si proclama, se ne rendono pubbliche le ragioni, ma non sfocia in un’astensione dal lavoro: il servizio pubblico non si interrompe, ma l’equivalente della retribuzione non percepita dal lavoratore e del danno economico che l’azienda non subisce si riversano in un fondo, si destinano a una causa nobile, a un aiuto umanitario. Il sindacato, così, non rinuncia alla lotta, ma la sostiene, rendendone visibili le ragioni, e la ‘condivide’ quanto più è possibile con la collettività” (Sergio Cofferati, segretario generale CGIL, intervistato da Massimo Giannini su Repubblica, 11 novembre 1998).
Per decenni e decenni, il primo sindacato italiano ha agito da gregario dell’orrendo serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD. La svendita totale delle conquiste dei lavoratori (la riforma Dini sulle pensioni peggiore di quella proposta da Berlusconi l’anno presedente, l’abolizione della contingenza, la riforma nota come “pacchetto Treu” per precarizzare il lavoro, la restrizione del diritto di sciopero, per ricordare solo quelle più lontane nel tempo che qualcuno potrebbe aver dimenticato), è stata fatta per dimostrare alla “controparte” padronale l’affidabilità della CGIL e quanto fosse più conveniente per loro, padroni, un governo di “sinistra” alla guida del Paese.
Le immagini sono più significative delle parole. L’altra settimana, un telegiornale ha messo in onda dapprima le immagini dei punti nevralgici della Francia bloccati dagli operai, degli scontri di piazza fra polizia, lavoratori e studenti. Subito dopo, un altro servizio ha mostrato i volti sorridenti dei capibastone della Troika sindacale italiana felici e contenti per essere stati ricevuti e riammessi dal ministro del Lavoro, l’ex piccista cooprosso Giuliano Poletti, al tavolo della concertazione per programmmare assieme l’ennesima truffa sulle pensioni dei lavoratori italiani.
Come è evidente, anche il sindacato come la sinistra-sinistra ha tutto l’interesse a smemorizzare quanto successo dalla metà degli anni Settanta a oggi perché anche in questo caso la catena dei perché sarebbe devastante. E così i lavoratori italiani si ritrovano a dover far fronte oltre che ai padroni e al PD anche ai sindacati e a una inutile “sinistra-sinistra” in cerca solo di qualche strapuntino nelle istituzioni.
“Poi dice che uno si butta sul M5S!” esclamerebbe se fosse ancora vivo un indignato principe della risata.