A proposito di un incredibile articolo di Giorgio Lunghini

Poi c’è chi si chiede come mai, davanti al disastro dell’euro, la sinistra brancoli nel buio più della destra. Certo, c’è il problema della direzione politica e non è poco. Ma ci sono anche economisti che sparano immani stupidaggini spacciandole per verità. Il bello è che le loro improbabili certezze neppure provano a spiegarle. Le buttano lì come fossero indiscutibili, tanto per quella mercanzia un Manifesto che le pubblica si trova sempre, così come è sicuro che un anemico sito come quello del Prc le rilancerà con gioia.

E’ questo il caso di un articolo di Giorgio Lunghini, uscito venerdì scorso. L’articolo è talmente maldestro che ce occupiamo solo per l’indiscussa fama dell’autore. Il fatto che certe cose vengano dette da un illustre cattedratico, già presidente della Società italiana degli economisti, è infatti la migliore dimostrazione di come l’ideologia (in questo caso quella eurista) prevalga quasi sempre su cultura, conoscenza, esperienza e capacità d’analisi che certo al Nostro non mancano.

Vediamo di cosa si tratta.
Nel breve testo intitolato “Le conseguenze di un’uscita dall’euro“, Lunghini giunge a vette davvero ineguagliate. La sua non è un’analisi più o meno pacata, ma un elenco di traumi economici che colpirebbero il Paese al determinarsi del temuto evento. Il fatto è che neppure gli euristi più sfegatati, i liberisti più accaniti, gli indefessi adoratori della moneta unica a prescindere, sono mai giunti a sparare certe cifre.

Non siamo tra quelli che pensano che l’uscita dall’euro sarà una passeggiata. Non lo sarà di certo, ma i ceti popolari da molti anni non “passeggiano”. Non siamo comunque tra coloro che si nascondono i problemi di una scelta pure necessaria. Ma che a sinistra circolino ancora “ragionamenti” terroristici come quello di Lunghini è di una gravità inaudita.

Esageriamo a parlare di terrorismo? Giudichino i lettori.
Prendiamo due previsioni contenute nel suo articolo, quella sul livello di inflazione e quella sulla caduta del Pil che si determinerebbe con l’uscita dall’euro.

Partiamo dall’inflazione,
che secondo l’economista salirebbe al 20% annuo, non si sa – bontà sua – per quanti anni. Alla base di questa previsione ce n’è un’altra concernente la percentuale di svalutazione, che egli stima al 30% nei confronti della Germania.

Ora, a parte il fatto che il 30% sulla Germania (calcolato sulla base della perdita di competitività verso quel paese) non è un 30% applicabile all’intera area euro, qui il punto è un altro. Ed è che non si capisce da cosa spunti fuori il 20% di inflazione, se non dal manifesto desiderio di terrorizzare i lettori.

In proposito è sufficiente ricordare due eventi, uno di un quarto di secolo fa, ed un altro invece recentissimo.

Il primo è quello della famosa svalutazione della lira rispetto al marco (anche qui, si badi, rispetto al marco, non ad un indistinto paniere di monete) del settembre 1992. Quella svalutazione finì per attestarsi proprio sul temuto 30% di cui ci parla oggi Lunghini. Bene. Quale fu l’effetto sull’inflazione di quella svalutazione? L’inflazione media del triennio successivo (1993-1995) fu del 4,6%. Oggi può sembrare molto, ma l’inflazione media del triennio precedente a tassi fissi (1990-1992) –  era stata del 5,9%! Come si vede la realtà è a volte un po’ diversa da come ce la raccontano.

E il confronto con la Germania? Uno si aspetterebbe l’esplosione del differenziale di inflazione dopo il 1992. E invece quel differenziale, che era pari al 2,7% nel triennio 1990-1992 (quello precedente la svalutazione), scende sorprendentemente all’1,6% nel triennio post-svalutazione (1993-1995) nel quale la lira arriva a deprezzarsi fino al 50% sul marco (esattamente il picco che Lunghini ipotizza oggi uscendo dall’euro), per poi scendere all’1,2% nel triennio successivo (1996-1998) quando la lira prende a rivalutarsi.

Lungo sarebbe il discorso sulle ragioni di tutto ciò, e magari uno come Lunghini potrebbe utilizzare la sua scienza per illuminarci un po’ su questo, ma due dati balzano agli occhi di chiunque: primo, non ci fu alcun vero effetto inflattivo determinato dalla svalutazione del 1992; secondo, siamo comunque nel campo dei decimali, non certo dei rotondi 20% messi lì solo per incutere terrore. Che l’andamento dell’inflazione dipenda da numerose altre variabili, oltre che dalla variazione dei cambi, ci pare comunque cosa assai evidente.

Questa osservazione è in realtà piuttosto banale, anche se così non sembra all’illustre economista. C’è però un fatto recente che dimostra quanto egli abbia torto. Negli ultimi due anni l’euro si è svalutato di circa il 20% sul dollaro, eppure abbiamo l’inflazione a zero. Se il Nostro avesse ragione, e tenendo conto della maggiore importanza della valuta americana, con la quale si effettuano i pagamenti delle principali materie prime importate, dovremmo avere un’inflazione a due cifre. E invece siamo a zero. Perché Lunghini omette questo piccolo particolare? Anche qui, giudichino i lettori.

Veniamo ora al disastro annunciato del Pil.
Se sull’inflazione Lunghini ha sparato a caso giusto per impressionare, è sul Pil che dà il meglio di se. Citiamo: «Come conseguenza di tutto ciò (degli effetti dell’uscita dall’euro, ndr), la caduta del Pil dell’Italia sarebbe pari a circa il 40% nel primo anno e al 15% negli anni successivi per almeno un triennio». Avete letto bene: meno quaranta per cento, così per iniziare; poi un bel meno quindici per cento per almeno un triennio. Insomma l’azzeramento dell’economia italiana. Ma si può!!!???

Ora, ricordandoci che la pazienza è una virtù, andiamo a vedere il precedente di un autentico disastro: quello dell’Argentina. Quando uno dice Argentina sa di dire una cosa paurosa, che evoca i peggiori timori, l’esperienza peggiore che possa capitare all’economia di una nazione. E allora andiamo a vedere i dati di quell’inferno.

Nel 2002, anno in cui (a gennaio) viene abbandonato il cambio fisso con il dollaro, ed il peso inizia a fluttuare, il Pil cala del 14,7%. Un calo drammatico e con gravissime conseguenze sociali, prima tra tutte la disoccupazione. Il calo, peraltro, fu anche il frutto del precipitare di una recessione già iniziata (proprio a causa del cambio fisso) nel 1999. In ogni caso drammatico, ma parliamo di un 14,7% in un paese con un’economia assai più debole di quella italiana, non certo dell’assurdo 40% che spara Lunghini per il nostro paese.

Questo per il primo anno. E negli anni seguenti? Per l’Italia il Nostro ha già parlato: meno quindici per cento all’anno, almeno per tre anni. E in Argentina, cosa successe al Pil negli anni successivi al divorzio con il dollaro? E’ presto detto: +8,7% nel 2003, +8,3% nel 2004, +9,2% nel 2005, +8,5% nel 2006, +8,7% nel 2007. Detto in altri termini: in due anni si è più che recuperata la perdita del 2002, mentre nei cinque anni successivi allo sganciamento dal dollaro la crescita cumulata è stata del 51,6%. Dobbiamo aggiungere altro?

In Italia invece, rimanendo nell’euro, abbiamo un Pil inferiore dell’8% a quello dei livelli pre-crisi del 2007. Ecco le virtù della moneta unica! Ma i drammi sociali prodotti da questa situazione non preoccupano Lunghini quanto quelli ipotetici che seguirebbero l’uscita dall’euro.

Ad ogni modo, la cosa che grida vendetta è che il Nostro prevede per l’Italia – non si sa come, ma lasciamo perdere – un’Argentina moltiplicato tre per il primo anno post-euro, mentre per gli anni successivi il disastro continuerebbe, contraddicendo – ed anche qui non si sa perché – quanto avvenuto nel caso argentino.

Ora, la sparata è talmente colossale che conviene lasciare da parte ogni dettaglio tecnico. E’ evidente che qui siamo davanti ad una religione, quella dell’euro, di fronte alla quale chi vi aderisce perde il lume della ragione. Che oggi, nell’anno 2016, si debbano leggere ancora robe di questo tipo fa però un certo effetto. Non che gli argomenti del Nostro siano nuovi. Al contrario, sono vecchissimi. Ma mentre nel campo degli economisti mainstream si evita ormai il ricorso a cifre così insensate, a sinistra invece non si riesce proprio a farne a meno.

“Sinistra”? Ecco, forse su questo ci sarebbe da discutere. Un tempo “sinistra” significava anche, tra le altre cose, volontà di cambiamento, coraggio nell’affrontare il difficile compito della trasformazione dell’esistente. Oggi, ecco cosa ci propone invece Lunghini nella sua conclusione: «In breve, l’Unione Economica e Monetaria europea è come l'”Hotel California” nella canzone degli Eagles: forse sarebbe stato meglio non entrare, ma una volta dentro è impossibile uscire».

Eccoci così arrivati al decisivo inno alla conservazione! Peggio: alla conservazione non per un supposto bene (come fanno da sempre gli “onesti” conservatori), ma per l’impossibilità anche solo di pensare ad un’alternativa al male presente.

E’ sicuramente anche per questo male dell’anima che si vanno poi a sparare certe cifre. Ma in questo modo non ci si salva di certo né l’anima né la reputazione.