Perché la nazionalizzazione del sistema bancario è necessaria, giusta e perfino conveniente.
Piccolo problema: per farla come si deve ci vuole la Nuova Lira
Ieri la vicenda del Monte dei Paschi di Siena (Mps) si è tinta di giallo. C’è o no lo stop della Bce alla richiesta di proroga dei termini per la ricapitalizzazione chiesta dalla banca senese? Ad oggi non si sa: le agenzie hanno battuto la notizia, ma il vertice di Mps dice di non aver avuto comunicazioni ufficiali…
Ovvio perciò il dubbio che si sia trattato del solito trucchetto della tecnocrazia eurista per ottenere una rapida soluzione della crisi di governo, cercando di indirizzarla verso uno sbocco che non dispiaccia a Bruxelles e Francoforte. Per costoro l’Italia è solo una scomoda colonia da tenere sotto controllo, ed a tal fine ogni mezzo è lecito.
Se questo è il risvolto politico delle mosse di ieri, nulla cambia riguardo agli aspetti di fondo della crisi bancaria italiana, della quale Mps è solo la punta dell’iceberg.
Ricapitoliamo perciò rapidamente la questione per trarne alcune conclusioni più generali. Da molto tempo le cose al Monte dei Paschi vanno male. Anzi, malissimo. Negli ultimi cinque anni la banca ha dovuto effettuare due ricapitalizzazioni da 5 e 3 miliardi, convertendo inoltre in azioni 240 milioni dei Monti bond. Al tempo stesso la capitalizzazione borsistica è scesa dai 6 miliardi del 30 giugno 2011 ai 600 milioni di ieri. Detto in altri termini, in questi cinque anni sono stati bruciati complessivamente 13 miliardi e 640 milioni, senza che questo abbia consentito di arrestare un’emorragia senza fine. Sta di fatto che dal gennaio scorso il valore delle azioni è calato dell’84%!
Il nodo di fondo di Mps è noto e si chiama “sofferenze”, un problema sia di quantità che di prezzo. Nella scorsa estate il governo aveva annunciato l’ennesimo “salvataggio” di Mps, accompagnato da un ambizioso piano di cessione delle “sofferenze” ad un prezzo ben superiore a quello di mercato. Eh già, il mercato! – quella mitica entità evocata come la sola salvifica dal duo Renzi-Padoan. Anche se non è chiaro se vi credessero davvero, secondo loro il mercato avrebbe risolto tutto, assorbendo e facendo perfino affari con le “sofferenze”, nonché partecipando gagliardamente alla nuova ricapitalizzazione di altri 5 miliardi.
Ma è su quest’ultimo punto, mentre la partita delle “sofferenze” è ancora in sospeso, che tutto è andato ad incagliarsi. Nel mondo della finanza internazionale non c’è un grande interesse per Mps, mentre di quello della finanza nazionale è meglio non parlare.
Eccoci dunque arrivati al capolinea. La cosiddetta “soluzione di mercato” non tiene, nonostante l’avvenuta conversione di una parte delle obbligazioni subordinate in azioni avvenuta a fine novembre.
Ecco che si torna giocoforza a parlare dell’intervento dello Stato. Ma guarda un po’! Da parte nostra abbiamo sempre detto e scritto che senza intervento dello Stato non può esserci salvataggio del sistema bancario italiano, non del solo Mps.
E i fatti ci hanno dato ragione, a partire dalla ricapitalizzazione delle due banche venete fatta attraverso il Fondo Atlante. Il problema è che il governo Renzi non ha voluto (e certo non ce ne stupiamo) affrontare la questione nel modo dovuto. La politica è stata quella di muoversi in maniera diversa caso per caso, sempre inneggiando al mercato (ci mancherebbe!) nel mentre si interveniva con soldi e garanzie pubbliche in modo alquanto mascherato.
Andrà così anche nel caso di Mps? Ovviamente sì. Il fatto è che non si vuole il patatrac, non si vuole neppure l’applicazione del bail in (che pure il governo Renzi ha a suo tempo sottoscritto), ma ci si rifiuta di infrangere il tabù mercatista e di rompere con le regole euriste, che sono poi due facce della stessa medaglia.
Torniamo così alle cronache di queste ore. Cronache che ci parlano del varo di un decreto legge che dovrebbe mettere in sicurezza (per l’ennesima volta!) Mps. I dettagli di questa misura non si conoscono, ma la chiave non può che essere la garanzia statale sull’operazione. La certezza cioè che lo Stato metterà il denaro mancante per arrivare ai mitici 5 miliardi di euro della nuova ricapitalizzazione.
Parallelamente alla definizione di questo decreto sta andando certamente avanti la trattativa con Bruxelles e Francoforte, con l’obiettivo di aggirare il bail in (che potenzialmente potrebbe toccare tutti gli obbligazionisti) con l’applicazione della regola del burden sharing (ripartizione degli oneri), che l’Europa potrebbe concedere trovandosi in presenza di un “rischio sistemico”. A differenza del bail in il burden sharing prevede la riduzione del valore nominale delle azioni e delle obbligazioni subordinate, non il loro azzeramento. Il che significa, in concreto, che un possessore di uno di questi titoli (si calcola diffusi presso circa venti-trentamila famiglie) rischia comunque una perdita consistente (50%?) ma non più l’azzeramento totale. Si capisce comunque come mai Renzi abbia voluto posporre in tutti i modi il problema a dopo il 4 dicembre…
Si dice anche che il decreto non si occuperebbe solo di Mps, ma che conterrebbe una garanzia su tutte le ricapitalizzazioni che dovranno avvenire a breve, a partire da quella gigantesca (18 miliardi?) prevista per Unicredit. Per far fronte a tutto ciò lo Stato metterebbe a disposizione una cifra massima di 15 miliardi di euro.
Fin qui la cronaca. Ma, più in generale, cosa ci dice questo passaggio della politica bancaria del governo italiano?
In verità ci dice molte cose, non ultima l’improntitudine del tanto celebrato ministro dell’economia, ma qui vogliamo soffermarci su un solo punto: quello delle nazionalizzazioni.
Come si vede questo tema è stato imposto dai fatti. Il problema è come verrà maneggiato, a quale visione della società verrà conformato. Nella testa dei neoliberisti al potere il discorso è semplice: si nazionalizza solo in casi estremi, per tornare a riprivatizzare non appena ve ne saranno le condizioni. E comunque la gestione degli istituti bancari non dovrà mutare: avrà da essere privatistica in ogni caso, e guai a pensare di trasformare le banche in strumenti di una politica economica rivolta agli interessi delle classi popolari.
Domenica scorsa si è votato (e si è vinto) sulla difesa della Costituzione Repubblicana, che all’articolo 47 così recita: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito».
Come si possa coordinare e controllare l’esercizio del credito con un sistema bancario fatto di Società per azioni è un mistero. Così com’è altrettanto oscuro come possano applicarsi questi principi costituzionali avendo di fatto ceduto le attività di disciplina, coordinamento e controllo alla Bce.
Ebbene, l’attuale dipanarsi della crisi delle banche italiane ci dà almeno l’occasione di porre il tema sia in termini di principio che in quelli di un’estrema concretezza che il momento richiede.
Qui l’abbiamo detto innumerevoli volte: le banche italiane vanno salvate ed al tempo stesso nazionalizzate.
Che si discuta dell’opportunità dell’intervento pubblico nel settore fa perfino tenerezza. In questi 8 anni di crisi (dal 2008 in avanti), e limitandosi all’Europa, gli interventi statali sono stati giganteschi. Solo in Germania, per tenere in piedi le banche locali (Landesbank e Sparkasse), lo Stato ha investito (questo è il termine esatto) 230 miliardi di euro, mentre altri 10 miliardi sono andati a rifinanziare Commerzbank. In Spagna l’intervento è stato di 40 miliardi, così come potremmo ricordare i salvataggi in Irlanda, Austria e Portogallo.
Spostandoci fuori dall’area dell’euro, troviamo il caso ancor più gigantesco della Gran Bretagna, dove le nazionalizzazioni sono costate 500 miliardi di sterline. E che dire degli USA dove, secondo i dati della Fed, sono stati impiegati (a partire dal 2008) ben 1.200 miliardi di dollari per tenere in piedi le maggiori banche del Paese?
Quel che oggi è riconosciuto da tutti è che quei salvataggi hanno avuto effetti benefici sull’economia, ed addirittura un ritorno direttamente positivo per le casse dello Stato.
In Italia si è invece preferito la stretta osservanza del dogma ordoliberista, ci si è insomma affidati al mercato ed al rispetto di regole europee semplicemente suicide. Regole peraltro varate solo dopo che i paesi citati erano intervenuti con le masse di denaro di cui sopra.
Ben difficilmente la classe dirigente che ci ha portati sin qui rivedrà i suoi dogmi, ma chi guarda ad un’alternativa politica e sociale ha il dovere di dire parole chiare sulla materia.
La parola chiave è nazionalizzazione.
Nazionalizzare è una necessità, questo ce lo dicono i fatti. Ma bisogna nazionalizzare con metodo e convinzione, non come extrema ratio impostaci dal mercato. Nazionalizzare è giusto, perché non si capisce per quale motivo un settore decisivo come quello della finanza e del credito debba essere lasciato ai giochi della speculazione e dell’interesse privato. Ed è giusto e necessario al tempo stesso se si vuole cambiare politica economica, visto che un governo ha bisogno anche della leva bancaria per fare una politica per la piena occupazione, per la difesa dei redditi del popolo lavoratore, per uno sviluppo indirizzato al bene comune nel rispetto dei vincoli che la natura ci ha consegnato.
Ma gli esempi citati ci dimostrano come nazionalizzare è in genere conveniente anche dal banale punto di vista dei conti pubblici. Soprattutto nel caso italiano, considerato che le cifre necessarie non sarebbero per niente esagerate, la nazionalizzazione sarebbe anche un investimento dal sicuro ritorno economico.
La cifra necessaria per mettere in sicurezza l’intero sistema bancario nazionale è valutata in 30/40 miliardi di euro. E’ grosso modo la stessa cifra che l’Italia risparmia attualmente sugli interessi del debito ogni anno grazie alla recente riduzione dei tassi. O, se preferite, è poco più di quanto spende il nostro paese per le spese militari in un anno. In una parola: non è affatto una cifra monstre, tanto più che non di una spesa, bensì di un investimento si tratterebbe.
Perché allora non si procede con decisione su questa strada? Per due motivi, strettamente collegati tra loro: perché lo vieta il dogma neoliberista in cui si riconosce il 100% della classe dirigente (politica e non); perché non lo consentirebbe l’Unione Europea, e meno che mai l’Unione monetaria e le sue regole, che di quel dogma è il più fedele custode.
A dimostrazione, qualora ce ne fosse bisogno, che l’euro non è solo una moneta, bensì un preciso sistema di dominio. E che liberarsene è necessario per affrontare ognuno dei grandi problemi nazionali. Senza questa liberazione avremo solo una stagnazione infinita, e nessun problema verrà davvero risolto, ma solo rimandato. Che è esattamente quello che il duo Renzi-Padoan ha fatto fino ad oggi, sulle banche e non solo.