Nell’epoca della globalizzazione, del dominio delle oligarchie transnazionali, di governi e di parlamenti che deliberano quasi sempre sotto dettatura europea in materia economica e sotto quella USA-NATO in politica estera, il tema del patriottismo è sempre più attuale.

A sinistra, in Italia ma anche nel resto d’Europa, si fa spesso fatica a riconoscere la centralità della questione. Peggio: assai spesso se ne nega la legittimità, qualificando come “di destra” se non addirittura “fascista” ogni rivendicazione della sovranità nazionale.

Noi la pensiamo diversamente (leggi questo articolo di Moreno Pasquinelli), ma prima di noi altri hanno coniugato lotta di classe e questione nazionale, sempre a partire da una concreta analisi delle diverse situazioni, storiche e politiche.

Pubblichiamo di seguito un articolo sul tema scritto negli anni novanta dal comandante partigiano Angiolo Gracci nella foto – (1920-2004).

Questione nazionale: il punto debole della sinistra italiana
di Angiolo Gracci

Nell’ambito, per fortuna ancora ampio, del movimento democratico, progressista e antifascista – e, quindi (come sarebbe possibile altrimenti?) tendenzialmente antimperialista – esce da quarantacinque anni, in polemica e involontaria sfida alle posizioni sopra episodicamente accennate, la testata di “Patria Indipendente”, organo ufficiale dell’Associazione nazionale dei partigiani italiani, la massima e più autorevole dei combattenti della Guerra di liberazione nazionale.

Deve dedursi, pertanto, che concetti politici-chiave, come quelli richiamati da parole-simbolo, quali “nazione” e “patria”, appartengono alla categoria delle non poche contraddizioni culturali di fondo irrisolte che hanno reso divisa, incerta, inconcludente e – alla prova dei fatti – perdente, l’intera sinistra italiana, sebbene essa – all’indomani dell’insurrezione del 25 aprile – avesse dimostrato di essere sostenuta dalle speranze di una larghissima base popolare, soprattutto operaia.

Una base di massa che, se diretta diversamente, avrebbe potuto dimostrarsi decisiva sia per avviare una effettiva realizzazione del programma di profondo rinnovamento postulato dalla Costituzione nata dalla Resistenza antinazifascista, sia per consentire la riappropriazione di quell’indipendenza nazionale e della conseguente sovranità popolare, l’una e l’altra pesantemente offese e rese praticamente inesercitabili, nella loro indispensabile pienezza, dall’ormai semisecolare “presidio-occupazione” del nostro territorio nazionale operato dall’imperialismo yankee.

Certo, è ben noto, che la questione nazionale e quella dell’unità nazionale furono ideologicamente sollevate e poi sviluppate, in modo politicamente e operativamente organico, dalle borghesie dello scorso secolo. E’ altrettanto noto ch’esse seppero gestirle con successo, coinvolgendo e ottenendo la risolutiva partecipazione delle classi sociali subalterne.

Questa collaudata verità storica, tuttavia, non aveva e – a nostro avviso – non ha mai creato, obiettivamente, incompatibilità, ipotetiche idiosincrasie con le nuove aspirazioni, i nuovi ideali, la nuova cultura socialista successivamemte espressi proprio da queste classi sociali maggioritarie. Che sentimento nazionale e amore per l’indipendenza del proprio paese (patria) fossero tutt’altro che incompatibili con il programma di riscatto sociale e classista scritto sulle bandiere rosse portate avanti, ovunque nel mondo, dalle avanguardie rivoluzionarie del socialismo, è stato ampiamente e inconfutabilmente dimostrato proprio dalla storia intensa di questo secolo che ora volge al suo epilogo.

La prima “patria del socialismo” fu salvata dall’irrompere delle armate hitleriane, soprattutto dall’esplicito appello alla sua difesa lanciato da Stalin ai pur molteplici e diversissimi popoli dell’Unione sovietica. Poco importa, ai fini del raggiungimento dell’obiettivo, che quell’appello appassionato fosse stato sincero o strumentale. Funzionò.

È importato, invece – disastrosamente – che, all’indomani della vittoria sull’invasore nazista, l’URSS o, meglio, la sua classe dirigente – ormai paga e salda al potere, voltasi ad allargare e a consolidare i suoi privilegi di “nuova borghesia burocratica” – sia degenerata al punto di comprimere, calpestare, violentare il sentimento nazionale, vale a dire l’identità nazional-culturale di alcune di quelle popolazioni. È stata questa classe dirigente, questa nuova borghesia “rossa” che – legittimando perfino la pratica dello sradicamento territoriale – operò sistematiche deportazioni di masse nazionalmente omogenee e giunse, poi, in nome dei “supremi interessi internazionalisti del proletariato” ad arrogarsi il diritto di invadere, a sua volta, i paesi (le patrie) del proprio “campo” formulando la teoria, tipicamente imperialista, della “sovranità limitata” degli altri.

Una teorizzazione che sarebbe stato più consono e meno traumatico fosse stata proclamata da uno dei più autentici esponenti dell’imperialismo: i Truman, i Johnson, i Nixon, i Reagan, i Bush. E – a parte il “Patria o muerte!” dei rivoluzionari cubani, nicaraguensi, salvadoregni, ecc. – che dire del patriottismo di un gigante della rivoluzione mondiale quale è stato Mao Tse Tung?

Nell’ottobre del 1938 – un anno già carico dell’immane tempesta che si sarebbe scatenata su tutti i continenti – riflettendo su “Il ruolo del Partito comunista cinese nella guerra nazionale”, Mao Tse Tung scriveva, nella sua prosa semplice e convincente: “Può un comunista, che in quanto tale è internazionalista, essere al tempo stesso un patriota? Noi sosteniamo che non solo può, ma deve esserlo. Il contenuto specifico del patriottismo è determinato dalle condizioni storiche”.

E chi ha mai osato confutare lo spirito adamantinamente patriottico di Ho Chi Minh quando esortava alla lotta il suo popolo martoriato ricordando che “Nulla è più prezioso della indipendenza e della libertà”?

Riaffiorano qui, alla memoria di un ormai vecchio militante, quale sono, la qualifica di “patriota” rivoltami, in modo irridente, da non pochi giovani compagni nel corso del grande movimento della contestazione extraparlamentare che caratterizzò gli anni ’60-’70. Erano i medesimi che – per incolpevole, scarsa conoscenza della storia e delle masse – con ingenuo e quasi orgoglioso tono di sfida, amavano ritmare, nei cortei, lo slogan “Il proletariato non ha nazione-lotta armata-rivoluzione!”.

Oggi, nell’immensa area dove la rivoluzione avrebbe dovuto partare al potere il proletariato, nel vuoto lasciato dal crollo verticale di un potere fittiziamente proletario, la prima elementare risposta istintiva – ma autentica e inequivocabile – dei popoli ingannati è stata quella della rivendicazione e della riappropriazione della propria identità nazionale e culturale e della propria indipendenza.

Al di là degli inevitabili eccessi, in parte provocati proprio dalla lunga compressione autoritaria, questa riappropriazione va vista come il naturale, insopprimibile punto di partenza per il rilancio di ogni progettualità vincente di rifondazione rivoluzionaria e internazionalista.

Questo movimento – latente o manifesto – esiste, del resto e da tempo, anche nell’Occidente capitalista “vincente”. È manifesto in Corsica, nei Paesi Baschi, in Catalogna, in Irlanda. È latente ancora, qui, in Italia, la nostra patria, che è quella della Resistenza e della Costituzione tradite.

La prima, tra le tante tragedie del nostro popolo, è che i maggiori partiti tradizionali della sinistra hanno finito per collaborare, di fatto, con l’imperialismo occupante oltre che con quello indigeno, mentre quelli minori e “più a sinistra” hanno continuato ad autogratificarsi con le proprie velleità antimperialiste, ridotte alla pura e semplice denuncia dei fatti compiuti e all’inserimento nei propri programmi dell’ormai rituale, patetica, stanca invocazione per l’“uscita dell’Italia dalla Nato e della Nato dall’Italia”.

Concludendo, sarebbe interessante – anzi, sarà necessario – impegnarsi, allora, ad individuare, possibilmente una volta per tutte, le cause profonde (storiche, sociali, culturali, politiche) di questa cronica debolezza della sinistra italiana sulla questione nazionale (insufficiente sensibilità, disattenzione, incapacità di coerente e protratta mobilitazione). Questo richiederà l’apertura di un più ampio dibattito.

Sarebbe già molto se la sinistra italiana, nel suo complesso, trovasse il coraggio di aprirlo in modo critico e autocritico, franco e sereno, evitando di invischiarsi, opportunisticamente, nelle consuete rigide contrapposizioni, nelle consuete aprioristiche etichettature dogmatico-settarie, nelle facili, presuntuose arroganze che tutto nullificano e nulla risolvono. Meglio tardi che mai.

Fonte: http://www.rivistaindipendenza.org