I clamorosi casi delle banche venete e di Poste Italiane
Il 2017 è appena iniziato e già sono all’ordine del giorno due casi piuttosto eclatanti di “risparmio tradito”. Naturalmente, il generico concetto di “risparmio tradito”, oggi assai in voga, può essere forse discutibile. Nel gran calderone della finanza finiscono infatti tante diverse categorie di risparmiatori. E, a parte gli speculatori più o meno professionali, vi troviamo inevitabilmente famiglie ricche, benestanti, ma anche appartenenti ad una fascia di reddito e di ricchezza piuttosto bassa.
Il tema è dunque complesso, ma proprio per questo vale la pena di addentrarvisi. Per farlo correttamente bisogna partire dai grandi numeri. Secondo Prometeia a fine 2016 le attività finanziarie delle famiglie italiane erano risalite a 4.051 miliardi (md) di euro, ritornando quasi ai valori del 2006 (4.059 md). Questo dopo aver toccato il minimo nel 2011 con 3.469 md.
Già questo incremento di 582 md in cinque anni ci parla di molte cose. Premesso che nell’enorme cifra delle attività finanziarie, pari a circa due volte e mezzo il pil del Paese, c’è ovviamente di tutto; premesso che buona parte di questa ricchezza appartiene ad un’infima minoranza di soggetti, l’aumento di questa massa di denaro è la conseguenza diretta di tre precisi fenomeni.
Di cosa stiamo parlando? In primo luogo, e questo vale per la classe dominante e comunque per le famiglie più ricche, l’aumento delle attività finanziarie è la diretta conseguenza della riduzione degli investimenti. Si tratta insomma di quella tendenza alla finanziarizzazione tipica di un capitalismo che preferisce dedicarsi alla rendita piuttosto che al profitto.
In secondo luogo, e questo vale per un’area assai vasta che qui non chiamiamo “classe media” solo perché ormai questa definizione è tirata in lungo e in largo fino a perdere ogni significato, c’è un aumento delle attività finanziarie che è l’altra faccia della crisi delle attività immobiliari. Non si investe più in immobili, sia per la sovrapproduzione del periodo precedente, sia per l’aumento del carico fiscale; si torna invece alla finanza benché anche qui la redditività (come vedremo fra poco) si sia abbassata in maniera significativa.
In terzo luogo, e questo vale per le famiglie di un fascia più bassa, si cerca di risparmiare quel poco che è possibile, perché le incertezze della situazione economica e la crescente precarietà della stessa posizione lavorativa consigliano di farlo. Naturalmente, c’è poi una fascia ancora più bassa che non è in grado di risparmiare niente, insieme a milioni di famiglie indebitate o che stanno bruciando i risparmi di un’altra epoca.
Quanto sopra per chiarire che l’aumento delle attività finanziarie, ben lungi dal rappresentare un indicatore di una certa ripresa economica, deriva invece dalla persistenza di una crisi della quale non si vede la fine.
In ogni caso, facendo qui la media del pollo, abbiamo che i 4.059 md riportati da Prometeia equivalgono a 67.500 euro pro-capite, con un guadagno sugli interessi nel 2016 di 603 euro. Cifra ben più modesta dei 1.843 euro, sempre pro-capite, del 1995. Ma allora l’inflazione stava al 5,2%, mentre adesso siamo sostanzialmente allo zero.
Il punto è che il tasso di interesse medio attuale, pari allo 0,9%, nasconde in realtà tassi e dunque guadagni diversissimi. La cosa è talmente ovvia – si pensi ai conti correnti con tassi pressoché nulli – che non vale la pena di insistervi. Ad abbassare il valore medio della redditività concorrono ovviamente sia la deflazione in vaste aree del centro del sistema (Europa e Giappone in particolare), sia le politiche del quantitative easing che hanno spinto una gran massa di titoli nel campo dei rendimenti negativi.
C’è però un altro fenomeno che non va sottovalutato. Ed è quello delle perdite, sempre più frequenti, che vengono registrate dai risparmiatori e/o investitori a causa di default, crisi bancarie, crisi di interi settori, come ad esempio quello immobiliare. Stiamo insomma parlando delle ricadute finanziarie della crisi, o – detto in altro modo – di chi paga i conti dei crac della bisca della finanza.
Siccome si tratta di casi sempre più frequenti, che finiscono per coinvolgere e mettere in difficoltà centinaia di migliaia di famiglie, la questione viene assumendo sempre più una grande rilevanza sia sociale che politica.
Abbiamo detto all’inizio dei due casi principali di cui si parla in questo inizio dell’anno: quello delle due banche venete che hanno visto azzerarsi il loro valore azionario (Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza) e quello dei fondi immobiliari piazzati ad ignari clienti da Poste Italiane. Due casi diversissimi, ma entrambi istruttivi.
Delle banche venete abbiamo già parlato in precedenti articoli, ma ora siamo ad uno snodo decisivo. Lunedì scorso le due banche hanno presentato un’Offerta di Transazione con la quale vorrebbero chiudere in maniera tombale la partita con i propri azionisti. La proposta è rivolta ad un totale di 169mila soggetti, mentre altri 38mila (tra questi gli investitori istituzionali, ma anche chi abbia avviato una causa civile) sono esclusi dall’offerta.
A questi 169mila soggetti, in pratica 169mila famiglie, le due banche offrono un rimborso del 15%, in soldoni 600 milioni di euro sui 4 miliardi andati in fumo. I soggetti interessati hanno due mesi di tempo per aderire, ma i due istituti si riservano di procedere a questo pur minimale risarcimento solo se vi sarà l’adesione di almeno l’80% della platea interessata. Inutile dire che chi aderirà alla proposta dovrà rinunciare a qualsiasi azione legale.
Il ricatto è semplice: se non accettate l’uovo oggi, scordatevi la gallina domani, dato che le due banche non potrebbero mai risarcire gli azionisti nella misura del 100%.
Ora, è vero che quello azionario è un tipico investimento a rischio. Ma è anche vero che le banche venete – così come tante altre, come si è visto anche nel caso delle 4 banche “risolte” nell’autunno 2015 – spingevano in tutti i modi i loro clienti all’acquisto di azioni, tante volte anche come “scambio” con la concessione di un mutuo. In ogni caso i numeri parlano chiaro: 169mila famiglie in una realtà come quella del Veneto sono un’enormità. E, d’altra parte, il pacchetto medio di questi azionisti (pari a 23.668 euro) ci parla sostanzialmente di piccoli risparmiatori da sempre abituati a considerare queste “banche del territorio” come sicure. Metterli di mezzo non dev’essere stato troppo difficile.
Veniamo ora al caso di Poste Italiane. Qualche giorno fa Repubblica riferiva dell’emblematico caso di un risparmiatore che, sentendosi truffato dall’azienda di Stato che qualche anno fa gli aveva rifilato quote del fondo immobiliare Obelisco, presentategli come sicure, si è visto rifiutare dall’azienda persino il tentativo di transazione pur previsto dalla legge. Per la cronaca, le quote sottoscritte per un valore di 2.500 euro cadauna, quotano oggi poco più di 200 euro!
Ovviamente il caso in oggetto non è certo l’unico, ma l’atteggiamento di Poste Italiane è assai significativo di un’arroganza che vorrebbe nascondere una coscienza assai sporca.
Entriamo nel merito. Dal 2002 al 2007 Poste Italiane ha allegramente venduto ai propri clienti, da sempre abituati a fidarsi delle Poste in quanto azienda pubblica, quote di prodotti finanziari ad altissimo rischio. Per l’esattezza si tratta di 4 fondi immobiliari: Invest Real Secirity (Irs), Obelisco, Europa Immobiliare 1 e Alpha.
Il 31 dicembre scorso, dopo tre anni di proroga, Irs è andato a scadenza, ed è così scoppiato il bubbone. Ma la situazione degli altri fondi, che hanno scadenze più lunghe, non è messa meglio. Obelisco ed Europa Immobiliare 1 sembrano destinati a registrare perdite in linea con quelle di Irs, che esamineremo di seguito nel dettaglio. Mentre Alpha, che fino al 2012 sembrava andare meglio, ha richiesto una proroga di 15 anni (quindici) per riuscire a vendere a prezzi adeguati i propri immobili, con buona pace dei risparmiatori che avevano investito i propri soldi nel 2002 sperando di rivederli dopo 10 anni.
Quantitativamente la portata del problema è inferiore a quella delle banche venete, ma si tratta pur sempre di 850 milioni di euro. Certo, la crisi immobiliare non poteva risparmiare i fondi finalizzati alla raccolta di capitali per acquistare, ristrutturare, affittare e rivendere edifici di varia natura, ma mai prodotti del genere sarebbero dovuti finire nelle tasche dei piccoli risparmiatori.
A quanto ammonta la perdita complessiva per costoro? Chi, invece, ci ha guadagnato sopra? Per rispondere a queste domande conviene concentrarsi sui dati di Irs, gli unici certi fin nei dettagli.
La raccolta di Irs è stata pari a 141 milioni. I risparmiatori coinvolti sono circa 14mila, per una media di 10mila euro a testa. A scadenza questi 10mila euro sono diventati 1.560. A questi vanno sommati anticipi per 2.632 euro, per un totale di 4.192 euro, con una perdita netta di 5.808 euro, pari dunque al 58% del capitale investito, al quale bisogna sommare la perdita degli interessi promessi per tutto il periodo.
Da queste cifre si evince facilmente come anche in questo caso le perdite andranno a colpire una fascia di piccoli risparmiatori, ma non si chiarisce ancora chi ha guadagnato in questa operazione. Ovvio il guadagno di chi ha venduto inizialmente gli immobili ai fondi, così come quello di chi li ha comprati a sprezzo stracciato dieci anni dopo. Ma c’è dell’altro. Siccome, nonostante le perdite dei sottoscrittori, le Sgr (Società di gestione del risparmio) hanno continuato ad incassare commissioni annue tra lo 0,8 e l’1,8%, limitandoci al caso di Irs abbiamo un guadagno di 15 milioni per Poste Italiane e di 11,5 milioni per Investire Sgr. Tutto questo mentre la loro brillante gestione trasformava i 141 milioni iniziali nei 60 milioni finali!
Inutile dire che quella di Irs è anche la storia degli altri tre fondi gemelli di cui abbiamo parlato. Eh, le virtù del risparmio gestito!
Adesso Poste Italiane, ovviamente colpita nell’immagine, cercherà di correre ai ripari con una proposta di “ristoro”. Siccome le cifre sono più piccole, siccome l’azienda è in una condizione ben diversa di quella delle banche venete, siccome per ora solo un fondo è arrivato a scadenza, l’offerta sarà certamente migliore di quella di Veneto Banca e della Banca Popolare di Vicenza. Ma nessuno si faccia illusioni. Del recupero degli interessi neanche a parlarne, mentre anche quello del capitale avverrà probabilmente con lo scambio con altri prodotti finanziari. Insomma, anche nella migliore delle ipotesi, il rimborso (comunque parziale) non sarà in ogni caso immediato.
Ora qualcuno si chiederà, giustamente, chi sono i soggetti per i quali Poste Italiane ha ritenuto di adescare colpevolmente qualche decina di migliaia di persone per lo più ignare dei rischi che si prendevano?
Citiamo da la Repubblica del 6 gennaio: «La Investire sgr, una società del gruppo Finnat, la banca della famiglia Nattino, ha curato l’Invest Real Security e il fondo Obelisco. Per il fondo Europa Immobiliare 1 si è mossa la Vegagest sgr, tra i cui azionisti figurano Carife, Cassa di Risparmio di San Miniato, Cattolica Assicurazioni, Popolare di Bari e Cassa di Risparmio di Cento, banche che non brillano certo per redditività. La Fimit sgr, controllata dal gruppo De Agostini (64%) e dall’Inps (29,7%), gestisce il fondo Alpha». Insomma (a parte l’Inps), Poste Italiane (all’epoca di proprietà dello Stato al 100%) non solo ha allegramente partecipato ai giochi della bisca finanziaria, ma lo ha fatto addirittura per gli interessi di gruppi e banche private.
E l’ha fatto colpevolmente, violando ogni regola. Nel 2014 un procedimento della Consob accertò che pochi clienti di Poste Italiane erano stati “profilati” ai fini del rischio finanziario, e che per ben il 74,5% di questi si certificava l’attitudine (e la preparazione) ad un “rischio alto”, consentendo così la vendita di prodotti complessi, come appunto i fondi immobiliari. Avete capito? Tre quarti dei clienti delle Poste classificati alla stregua di speculatori d’assalto! Ma in questi casi la magistratura ha niente da dire?
Ora fermiamoci qui e cerchiamo di trarre alcune considerazioni generali.
La prima è che la bisca del capitalismo-casinò fa sempre più vittime, e che queste si trovano principalmente nella categoria dei piccoli risparmiatori. La seconda è che l’ideologia e la pratica della deregulation a questo ha portato. La terza è che le autorità preposte alla vigilanza, a partire da Bankitalia, hanno chiuso occhi ed occhiali per oltre un decennio, come si era già osservato nei casi delle “4 banche” e in quello di Mps.
E chi erano i governatori nel periodo in questione? Ad Antonio Fazio, che aveva chiuso malamente la sua carriera nel 2005, seguì la stagione di Mario Draghi (2005-2011), cui seguirà quella dell’attuale governatore Ignazio Visco.
A questi signori nessuno a qualcosa da chiedere? Ma figuriamoci se si vorrà toccare “SuperMario” e i suoi fratelli! Eppure l’articolo 47 della Costituzione assicura che «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito».
Ora, chi scrive è per la fuoriuscita dal capitalismo in generale. Ma che intanto si fuoriesca dalla bisca dell’attuale capitalismo iperfinanziarizzato mi pare un’esigenza ormai condivisa da milioni di persone nel nostro paese.