Cosa ci dicono le elezioni abruzzesi? Tre cose sono evidenti: la vittoria della destra a trazione leghista, il significativo arretramento dei Cinque Stelle, la relativa ripresa del centrosinistra ma non del Pd.
Se questi sono i fatti, è però opportuno andare un po’ più in profondità.
La tentazione di ricavare scenari nazionali dal voto amministrativo è forte, ma spesso fuorviante. Bisogna infatti ricordarsi sempre tre banalità: che le regionali non sono le politiche, che la differenza della partecipazione al voto tra queste due elezioni è abissale, che forti oscillazioni elettorali – spesso anche in tempi ravvicinati – sono ormai la norma.
Che le regionali non siano le politiche dovrebbe essere cosa ovvia. Diverso il sistema elettorale, più forte il peso del notabilato e del sistema delle preferenze. Rimanendo all’Abruzzo, come si spiegherebbe altrimenti l’enormità di cinque liste della coalizione di destra ed addirittura otto di quella di centrosinistra? E’ chiaro che si tratta di trucchetti acchiappavoti che penalizzano fortemente la solitaria corsa di M5S.
Detto in altri termini, mentre alle politiche si vota prevalentemente il partito, alle amministrative (regionali e comunali) si tende a votare maggiormente la persona. Ovvio che se vai da solo, e per giunta con candidati scelti nel modo che sappiamo, finisci per essere immancabilmente massacrato, come capita puntualmente ad M5S alle amministrative.
Certo, questa regola ammette delle eccezioni, come avvenne nel 2016 a Roma e Torino quando M5S si avvantaggiò di essere l’unica alternativa credibile al Pd renziano che l’elettorato intendeva punire. Ma quella congiunzione astrale è ormai lontana. Adesso, per competere, i Cinque Stelle avrebbero bisogno di un’organizzazione territoriale che invece non hanno. Colpevolmente non hanno. Perché è a questa debolezza strutturale che porta l’idea del “non partito” su cui sono nati.
Che in elezioni come queste la presenza organizzata conti enormemente lo dimostra il recupero del centrosinistra, certo fortemente indebolito rispetto al passato, ma ancora strutturato più degli altri a livello territoriale. Una tendenza, quest’ultima, che penso vedremo in maniera più forte nelle prossime regionali sarde del 24 febbraio, dove non mi stupirei di un’eventuale affermazione della coalizione guidata da Zedda.
Questo significa che le elezioni abruzzesi non ci diano indicazioni politiche più generali? Assolutamente no, non dico questo. Dico che queste indicazioni vanno valutate alla luce delle peculiarità del voto amministrativo.
Un fattore che spesso si dimentica è quello della partecipazione. Alle politiche del 4 marzo 2018 votò il 75% degli abruzzesi, stavolta il 53%. Non è difficile immaginarsi come in quel 22% di astenuti in più vi siano tanti dei consensi persi da M5S rispetto all’anno scorso. Dove andrebbero quei voti se domani vi fossero le politiche? Non lo sappiamo, ma da qualche parte andrebbero. Ecco perché prevedere esiti politici nazionali in base ad elezioni locali è sempre complicato.
Alcuni dati ci dimostrano quanto sia ormai elevata la mobilità elettorale nell’epoca della crisi verticale dei partiti. Prendiamo quello della coalizione di destra in Abruzzo. L’attuale 49% segna un incremento di 20 punti rispetto al 29% delle regionali del 2014, ma in quell’anno la stessa coalizione aveva perso 18 punti rispetto al 47,4% del 2008. Un clamoroso andamento a V che ci dice quanto sia facile guadagnare e perdere consensi di questi tempi.
Un altro esempio riguarda M5S. Nel 2014 le elezioni regionali abruzzesi si svolsero in contemporanea con le europee. Quel giorno i Cinque Stelle ottennero il 21% per la Regione, il 29,7% per il parlamento di Strasburgo: una differenza che parla da sola.
Certo, nella debacle di domenica hanno pesato le difficoltà politiche del momento. Tuttavia un raffronto con altre due elezioni regionali della scorsa primavera ci dice un’altra cosa, sia per quanto riguarda la flessione pentastellata, sia per quel che concerne l’avanzata della coalizione di destra.
Nelle elezioni molisane del 22 aprile 2018 – quando il governo gialloverde doveva ancora nascere e tutto era ancora possibile – la destra ottenne il 49,3% rispetto al 29,8% delle politiche di un mese e mezzo prima, mentre la lista M5S scese al 31,5% rispetto al 44,8% delle politiche. Ancora più clamoroso il dato del Friuli (29 aprile 2018). In quella regione la destra passò dal 43 al 62,8%, M5S dal 24,6 al 7,1% (11,6% se vogliamo considerare i voti al candidato governatore).
Anche se piuttosto simili a quelle di domenica scorsa, non sto dicendo che queste dinamiche spieghino tutto. Tantomeno che esse si riprodurranno più o meno fedelmente in futuro. Ma certo le impressionanti oscillazioni avvenute in queste due regioni nulla possono avere a che fare con le scelte di un governo che è venuto dopo.
Detto questo è chiaro che anche il voto abruzzese un significato ce l’ha.
Personalmente non credo (il perché ho cercato di spiegarlo in un altro articolo) che la strada verso un governo della coalizione di destra sia in discesa come potrebbe sembrare. Al momento è una possibilità, ma non una certezza.
Senza dubbio M5S ha pagato la maggior efficacia propagandistica della Lega salviniana, ha pagato alcune concessioni di troppo all’aggressivo alleato, dal “decreto sicurezza”, alla Tap, alle incertezze sulla Tav. Ma ha pagato soprattutto la pesantissima campagna mediatica, che è stata sì rivolta contro il governo, ma in primo luogo ed in maniera ossessiva proprio contro i Cinque Stelle, visti dalle èlite come l’anello da spezzare al più presto, per poi potare le unghie allo stesso Salvini.
Siamo adesso ad un punto di svolta. Dopo il decreto su “Quota 100” e Reddito di cittadinanza, il governo dovrà definire una strategia per affrontare l’attacco concentrico dell’oligarchia eurista interna ed esterna, il tutto in un quadro recessivo che potrebbe rivelarsi assai pesante.
Il nodo ancora una volta sarà l’Europa. Se sulla Legge di bilancio dello scorso autunno si è arrivati alla fine ad un compromesso, cosa accadrà nei prossimi mesi? Si avrà la forza di sostenere il confronto con l’oligarchia eurista, mettendo nel conto la possibilità della rottura? Se la risposta sarà un sì, l’attuale maggioranza potrà avere ancora un futuro. Se invece sarà un no, avremmo solo un governo allo sbando, che aprirebbe la porta ad una ripresa del blocco sistemico oggi in affanno.
La risposta alla domanda di cui sopra compete certamente alla coalizione gialloverde nel suo insieme, ma spetta anche alle due forze politiche che la compongono. Nelle ultime settimane, mentre M5S ha alzato i toni contro l’UE, contro Macron a sostegno della lotta dei Gilet Gialli, sul Venezuela, e pure sulla Tav; dalle parti della Lega si inviano segnali d’amore a quelle forze, come Confindustria, che sono alla testa del blocco antigovernativo.
Sappiamo come anche il partito salviniano sia diviso al suo interno, come abbia dentro forze che lavorano ad un nuovo abbraccio con il Signore di Arcore, ridotto sì al lumicino nei voti, ma pur sempre garante della copertura dei poteri sistemici ad un nuovo governo di destra.
Salvini dunque è chiamato a delle scelte. Oggi tutto è sfumato dall’attesa – a nostro modesto avviso decisamente esagerata (ma su questo torneremo) – delle elezioni europee. In realtà, mentre servirebbero da subito forti misure anticicliche per contrastare la recessione, già l’elaborazione del DEF 2019 (da presentare ad aprile) ci dirà molte cose.
Ma una scelta ancora più urgente, ciò ben prima delle elezioni europee, dovrà farla M5S. Questo partito “non partito” è pur sempre il primo azionista del governo, ed è in grado di orientarne la linea, rendendola più netta contro Bruxelles e contro l’asse Carolingio. In breve, se vuole recuperare consensi, M5S deve radicalizzare la posizione sull’Ue, dicendo a chiare lettere che le scelte economiche e sociali necessarie dovranno essere fatte alla faccia dei diktat europei.
Certo, una posizione così netta potrebbe condurre alla crisi di governo e ad elezioni anticipate. Ma essa porterebbe allo scoperto, una volta per tutte, Salvini. In ogni caso non ci sono alternative, e “chi ha paura non vada alla guerra“.