Verso il 26 settembre

Tra due settimane, le elezioni più scontate della storia ci diranno quel che già sappiamo: la destra andrà al governo, il Pd sarà il grande sconfitto, mentre ogni vera opposizione resterà fuori dal parlamento.

E’ il quadro che già immaginavamo il 21 luglio, quando le Camere sono state formalmente sciolte. Le settimane che sono seguite non hanno fatto altro che confermare, semmai rafforzandole, quelle valutazioni.

La cosa è talmente evidente, che adesso i commentatori si soffermano su aspetti del tutto secondari: chi prenderà più voti tra Lega e Cinque Stelle, chi vincerà l’eccitante sprint per il quinto posto tra Forza Italia e la bicicletta calendian-renziana. Insomma, roba da batticuore…

Ma se tutto è già deciso, perché parlarne? In realtà ci sono due motivi per farlo. Il primo è che queste nostre convinzioni non sono certo condivise da tutti. Il secondo, più importante, è che ragionare sui futuri scenari politici può aiutarci da subito a comprendere meglio i compiti della nuova fase.

Cerchiamo dunque di mettere a fuoco quel che si profila all’orizzonte, provando ad individuare fin da adesso gli elementi di continuità e quelli di cambiamento.

  1. Chi vincerà le elezioni

Abbiamo già detto che mai come questa volta il nome del vincitore, più esattamente della vincitrice, è già scritto: la draghiana in gonnella, l’oppositrice più governativa che si sia mai visto, ha la vittoria in tasca. Con lei vincerà la storica coalizione di destra, all’interno della quale andrà certo misurato il grado di ammaccatura del vecchio pretendente al titolo, quel Salvini che ancora non si è ripreso dalla genialata del 2019 al Papeete.

Per uno di quei paradossi che costellano le vicende politiche, la conservatrice Meloni andrà infatti ad incassare il forte desiderio di cambiamento presente nel Paese. Ma quanto durerà il suo consenso? Secondo il titolo del quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, l’“amore” degli italiani per la Meloni sarà – testuale – «Più fugace di una scoreggia». Che dire, non molto elegante ma decisamente efficace. Ed anche facilmente prevedibile, visto che è esattamente questa la fine che hanno fatto Renzi, Salvini ed i Cinque Stelle.

  1. L’effetto maggioritario del Rosatellum

Il risultato è sicuro non perché sia in atto chissà quale svolta a destra, ma perché i meccanismi della legge elettorale (il cosiddetto Rosatellum) trasformeranno una maggioranza relativa in voti, in una larghissima maggioranza assoluta in seggi. I sondaggi assegnano alla destra una percentuale tra il 45 e il 47%. Un risultato addirittura inferiore a quelli raggiunti dalla destra altre volte nel passato. Giusto per far capire quanto incidano i meccanismi del Rosatellum, facciamo un confronto con quanto avvenne nel 2006. In quell’anno la destra ottenne alla Camera il 49,74%, ma fu battuta per una manciata di voti dal 49,81% del centrosinistra di Prodi, che si aggiudicò così il premio di maggioranza della legge elettorale di allora (il Porcellum), pari al 54% dei seggi.

Stavolta, considerato l’enorme scarto con la mini-coalizione a guida Pd, il 45-47% è più che sufficiente per andare ben oltre il 60% degli eletti. Non siamo all’impossibile 70% di seggi con il 43% dei voti, paventato da Letta giusto per provare a raggranellare un po’ di consensi con l’allarme “antifascista”,  ma senza dubbio anche il 43% garantirebbe una maggioranza ben al di sopra del 55% dei seggi.

Non stiamo qui a spiegare come si arriva a questi numeri. L’importante è capire come, grazie alla quota maggioritaria dei collegi uninominali, lo scarto tra le due coalizioni principali sia ancora più importante del risultato assoluto di quella vincente.

  1. Lasciamo perdere il bullo dei Parioli: Draghi al governo non tornerà, altrove chissà…

Carlo Calenda, il bullo dei Parioli, vorrebbe convincere gli orfani del “vile affarista”, resi relativamente numerosi dalle lacrime di ogni redazione che si rispetti, che un suo successo potrebbe riportare Draghi al governo. Ora, è chiaro che da uno che si è gemellato con il Bomba di Rignano è lecito aspettarsi di tutto. Ma questa è davvero bellina. Chi ha impugnato l’Agenda Draghi, al fine della sua promozione elettorale, è messo piuttosto male. Se il Pd non riesce a polarizzare il voto anti-Meloni, Calenda non riesce proprio a sfondare nonostante l’enorme sostegno mediatico di cui dispone.

Il problema, che per noi è una conferma positiva assai, è che Draghi non è così popolare, tant’è che colui che è stato additato come “colpevole” della sua defenestrazione, è ora dato in crescita da tutti i sondaggi. Certo, Conte è quello che è, ed il Movimento Cinque Stelle ha comunque dilapidato quasi i due terzi dei consensi del 2018, ma – per quanto confusa e pasticciata – la rottura col sant’uomo venuto fuori dal Gotha della finanza internazionale ha comunque pagato. Un motivo ci sarà.

Draghi dunque non tornerà. Non potendolo fare come capo del governo, figuriamoci se accetterebbe un semplice ruolo di ministro della Meloni. Sua Onnipotenza non potrebbe mai farlo. Ed in più, essendo persona informata dei fatti, mai lo farebbe nel momento in cui ci sarà da gestire il disastro che ha combinato con la dichiarazione di guerra alla Russia.

Se c’è una possibilità di un “ritorno” di Draghi, questa è solo per la presidenza della repubblica, qualora l’attuale inquilino decidesse di lasciar libero il posto. In quel caso, ma solo in quel caso, Draghi rientrerebbe in pista. La destra lo voterebbe senz’altro, mentre i piddini andrebbero addirittura in estasi. Ma, al di là delle esultanze iniziali, sia la Meloni che il Pd avrebbero un bel prezzo da pagare. A quel punto il governo godrebbe sì di una più forte copertura internazionale, ma il suo potere rischierebbe di uscirne dimezzato. Viceversa, il Pd avrebbe il suo beniamino al Quirinale, ma Meloni ne godrebbe in stabilità se non in forza.

Ma qui siamo andati troppo avanti con le ipotesi ed è bene fermarsi. Anche perché Mattarella non è sembrato così dispiaciuto della rielezione per un altro settennato… Quel che è importante comprendere è che se Draghi tornerà in qualche ruolo istituzionale, questo non potrà essere al governo, perlomeno non in quello che uscirà dal voto del 25 settembre.

  1. Il governo che verrà

Bando, dunque, alle ciance calendiane, a chi immagina una sorta di impossibile pareggio che rendendo ingovernabile il prossimo parlamento, porterebbe ad una nuova chiamata a qualche uomo della Provvidenza. Dal punto di vista dei numeri, le Camere che usciranno dal voto del 25 settembre saranno (almeno all’inizio) fin troppo governabili. Dominate da una maggioranza politica senza precedenti nella storia dell’Italia repubblicana.

Per la stridula della Garbatella i problemi saranno ben altri, la crisi energetica e quella economica in particolare. Ben cosciente della situazione, Meloni proverà ad inserire nel governo qualche “tecnico” (cioè qualche Unto del Signore della tecnocrazia euroatlantica), onde trarne una qualche copertura nella tempesta che si annuncia. Non potrà però – pena l’immediata perdita dei consensi – rinunciare al carattere politico del suo governo.

Quel che è certo è che Meloni ha già indossato i panni di Draghi: quelli della responsabilità europea e dei conti in ordine, oltre a quelli più scontati di un’ortodossia atlantica condita col suo sfegatato odio anti-russo. A chi avesse dei dubbi, ricordiamo la sua posizione contro lo scostamento di bilancio sulle bollette, nonché la sua esultanza per l’arrivo Oltremanica della nuova Thatcher dal dito sul pulsante atomico.

Ora, i sondaggi sono sempre imprecisi, talvolta molto imprecisi, ma anche ammettendo che il successo di Fratelli d’Italia sia sopravvalutato assai, i rapporti di forza dentro la coalizione di destra saranno decisamente a favore di Meloni. Questo porterà di certo a nuove tensioni, ma nell’immediato la linea la detterà lei. 

  1. Il Piano B dei dominanti

Domanda, che già immagino sulla bocca di chi legge: ma i dominanti, quelli che vincono sempre le elezioni pur non partecipandovi mai direttamente, che ne pensano di questo scenario? Davvero non si metteranno di traverso per tornare ad un governo “tecnico” nel più breve tempo possibile? Davvero si rassegneranno a vedere il loro amato Pd nell’angolo?

Ovviamente, i dominati non rinunceranno proprio a nulla, altrimenti che dominanti sarebbero… Tuttavia, hanno anch’essi i loro problemi. Per loro il Piano A era la prosecuzione del governo Draghi anche per la prossima legislatura, meglio se per l’eternità. Ma, a differenza di certi nostri amici, lorsignori sono realisti, ed il realismo gli suggerisce che talvolta è necessario ricorrere al Piano B.  E stavolta il loro Piano B ha assunto il volto di una signora ammessa per tempo nelle segrete stanze dell’Aspen Institute. Del resto, se così non fosse stato, avremmo già visto lo spread alle stelle, come in effetti qualcuno si aspettava. E come invece non è avvenuto affatto.

Vista la situazione generale, la strategia dei dominanti non è al momento quella della contrapposizione, quanto piuttosto quella del controllo e del condizionamento. Meloni lo sa e si muove di conseguenza. Certo, i palati fini della religione eurista già arricciano il naso di fronte al più minimo richiamo “sovranistra”. Ma i cervelli pensanti dell’oligarchia sanno bene come questo sia un dettaglio trascurabile, un piccolo prezzo che il bon ton politically correct paga alla sostanza della linea politica.

Del resto, viviamo tempi duri. Tempi in cui badare al sodo. Prendiamo il caso del governo polacco. Fino allo scoppio della guerra, questo governo era nel mirino dell’Unione europea: per il suo sovranismo, il suo conservatorismo, per la posizione politically scorrect sui temi della sessualità. Poi è arrivata la guerra, e l’antirussa Polonia è diventata la campionessa della democrazia e dell’Occidente, eppure il governo è rimasto lo stesso. Perché ciò che vale per Varsavia non dovrebbe valere per Roma? Da qui la scelta del condizionamento, non dell’ostruzionismo nei confronti di Meloni.

  1. Niente “luna di miele”

Attenzione! Quanto scritto fin qui è valido per l’immediato. Ma quanto durerà? Finora, e questo è stato vero anche per Draghi, i governi hanno sempre goduto di quella che viene chiamata “luna di miele”, cioè un periodo di alcuni mesi nel quale l’opinione pubblica si mostra particolarmente indulgente verso i nuovi arrivati nella stanza dei bottoni. Andrà così anche questa volta? Penso proprio di no. Troppo violento il crac sistemico alle porte. Troppo duro per ammettere eccessive indulgenze verso il potere.

Se fossimo in tempi normali, il governo Meloni avrebbe davanti a sé l’intera legislatura. Ma i tempi “normali” non torneranno per un bel po’. Le difficoltà sulle bollette, l’energia, la recessione in arrivo, i prezzi dell’assurda guerra contro la Russia, si scaricheranno inevitabilmente anche all’interno della compagine governativa. Già adesso l’ultra-atlantismo di Fdi cozza contro le posizioni di Salvini sulle sanzioni, figuriamoci cosa potrà accadere in futuro. Proprio per questo le forze sistemiche cercheranno di disarcionare al più presto il leader della Lega, sfruttando all’uopo il suo previsto insuccesso nelle urne. Vedremo se riusciranno nell’impresa.

Di sicuro la destra si troverà davanti all’impossibilità di tenere fede alle innumerevoli promesse di questa campagna elettorale, in particolare quelle sul fisco. Da qui una probabile accentuazione dei temi identitari (il presidenzialismo per Fdi, l’immigrazione per la Lega) al fine di distogliere l’attenzione su un fallimento annunciato. Ma anche in questo caso i problemi non mancherebbero. Al presidenzialismo meloniano, la Lega vorrà ovviamente accompagnare l’attuazione del regionalismo differenziato, una vera bomba politica e sociale nel bel mezzo di una crisi economica pesantissima.

In conclusione, i problemi per Meloni non sono quelli che vorrebbero Calenda e gli ultras del trasversale partito draghiano. Sono piuttosto quelli originati dallo storico servilismo euroatlantico delle nostre classi dirigenti, sfociato negli ultimi mesi nella partecipazione attiva (fornitura di armi, sanzioni, propaganda) alla guerra contro la Russia.

  1. La sconfitta a Piddinia City

Se a destra avranno i problemi della vittoria, dalle parti di Piddinia City avranno solo i postumi della sconfitta. Dire Piddinia City, piuttosto che semplicemente Pd, non è un modo disneyano per prendere in giro certi ceffi che ben conosciamo. Con Piddinia City intendiamo invece una realtà politica di cui sarebbe errato ignorare l’esistenza. Piddinia City non è semplicemente la città del Pd, è qualcosa di più ampio e strategico, lo snodo di un potere sistemico che ha bisogno di un partito di riferimento (il Pd appunto), ma che va ben oltre ad esso.

A Piddinia City hanno una residenza di grande prestigio i giornalistoni che bivaccano nei talk show, i capibastone delle maggiori centrali sindacali, gli influencer del mondo dello spettacolo, buona parte di quello universitario. Ma, ancora più importante, Piddinia City include alcuni personaggi che per ruolo e natura non possono che essere dei “senza tessera”. Giusto per citare i più importanti, Mattarella e Draghi non sono formalmente del Pd, ma insieme a Prodi, Cottarelli e tanti altri di quel mondo fanno parte. Ma non è finita. Andando verso la periferia di Piddinia City, incontriamo pure le frattaglie verdognole e sinistrate alleate del Pd, come pure il mondo delle Ong e quello di un associazionismo in crisi proprio perché associato al potere.

Bene, tutto questo mondo uscirà sconfitto dalle urne del 25 settembre. Ed il vero problema è che per risalire la china il Pd, che è l’avamposto politico-parlamentare di quest’area, proverà ad intestarsi in qualche modo il monopolio dell’opposizione. Meglio averlo ben presente da subito, anche se chi scrive pensa che quel tentativo fallirà – troppo forte è ormai lo scarto tra la rabbia sociale ed il dorato habitat degli abitanti di Piddinia City.

D’altra parte, la sconfitta del Pd non viene solo dalla mirabolante imperizia politica del nipote dello zio (sul punto ha ragione Renzi). Essa viene anzitutto dalla sua collocazione al centro del sistema, dall’essere il campione di un neoliberismo in crisi. Fa ridere prendersela con i pericoli rappresentati dal centrodestra, da parte di chi nella concreta geografia politica italiana è per certi aspetti (mercatismo, europeismo, atlantismo) ancora più a destra del trio Meloni-Salvini-Berlusconi.

Per concludere sul punto resta da affrontare una questione minore: chi guiderà il Pd dopo il 25 settembre? Se le cose andranno come sembra, difficilmente l’esule parigino, il pisano che pende più della sua torre, potrà restare al suo posto. Chi lo sostituirà non è dato sapere, ma è probabile che nel Partito democratico si apra uno scontro sulle future alleanze: puntare al rapporto con il duo Calenda-Renzi, o provare a recuperare quello con Conte? In teoria sono possibili entrambe le cose, ma certo un’appattumata con Calenda e soci potrebbe riaprire più facilmente a futuri rimescolamenti verso l’area governativa, che per il Pd è il vero centro di gravità permanente.

  1. Cambiamento e continuità

Torniamo adesso al quadro generale. Abbiamo visto gli elementi di contraddittorietà che già si annunciano, pur nel quadro di un risultato elettorale assolutamente scontato. Ma tra cambiamento e continuità, quale di questi due aspetti prevarrà dopo il 25 settembre?

E’ questa una domanda decisiva. Giorgia Meloni non ha nulla a che fare con la destra sovranista e populista. Non a caso è presidente del Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei, un nome già di per sé istruttivo assai. Un tempo mettere insieme conservatori e riformisti sarebbe stato un ossimoro da evitare. Adesso, dopo la rivisitazione orwelliana della parola “riforma”, adattata a descrivere ogni norma dettata dalle mutevoli esigenze del capitale, questo accostamento si può fare. E dire “conservatore e riformista” significa una sola cosa: continuità assoluta delle politiche neoliberiste (da qui l’appoggio condizionato di lorsignori), ma all’interno di una concezione conservatrice della società basata sulla famiglia tradizionale, su nuove forme di corporativismo, su un innocuo nazionalismo low cost accettabile dalle élite, per quanto dal loro punto di vista esteticamente sconveniente.

Chiariamo, non lo si fosse capito, che il nazionalismo low cost è quello che politicamente costa poco. Quello che rivendica radici e tradizioni, ma che si mette senza indugio al servizio della superpotenza americana, che è ben felice di dire signorsì a Washington e Bruxelles. E’ insomma un nazionalismo più che soft, decisamente all’amatriciana.

Come è ben facile comprendere, l’opposizione piddina si concentrerà sull’elemento di novità, il conservatorismo appunto. Sul resto i piddini faranno a gara con Meloni per dimostrarsi più atlantici, più europeisti, più guerrafondai, più mercatisti. E sarà una bella gara!

Se questo sarà il quadro, la nuova opposizione che dovremo costruire dovrà fare l’esatto opposto: puntare sul fallimento sistemico del neoliberismo da un lato, sulla necessità di porre fine al servilismo verso Nato e Ue dall’altro.

  1. Per una nuova opposizione

La nuova opposizione di cui c’è bisogno non nascerà nelle urne del 25 settembre. Su questo abbiamo già detto e scritto in lungo e in largo. Essa sarebbe potuta sorgere nella battaglia elettorale solo a condizione di un’unità delle forze del dissenso che invece non c’è stata.

La responsabilità politica di chi ha impedito quel passaggio necessario, peraltro chiesto a gran voce da chi ha lottato in questi ultimi due anni e mezzo contro la nuova dittatura, è di una gravità assoluta. Un errore imperdonabile che non ha giustificazione alcuna, frutto della presunzione e del pressapochismo di chi l’ha compiuto.

I penosi tentativi di mostrarsi adesso unitari sono una toppa peggiore del buco. Se l’unità non era possibile prima, non si vede perché diventerebbe praticabile dopo le elezioni. Se invece, come adesso si dice, sarà possibile dopo, non si vede perché non ci si sia neppure seduti attorno ad un tavolo per provare a farla prima. Anche perché, prima sarebbe servita a costruire una nitida affermazione elettorale; dopo ci sarà solo da raccattare i cocci di una disfatta annunciata, altro che unità da farsi in parlamento! Ma su questo vedremo cosa avranno da dire i generali della sconfitta dopo il 25 settembre.

La nuova opposizione andrà costruita con una metodologia completamente diversa, in rapporto ad una situazione largamente nuova. Dovremo fare piazza pulita di leaderismi, personalismi, facilonerie di ogni tipo. Bisognerà liberarsi dalla politica dell’immagine e dagli specchi distorsivi della rete. Dovremo sì affermare il primato della politica, ma sempre in stretto rapporto con il movimento di lotta e combattendo al tempo stesso il politicantismo di bassa lega.

Ce la faremo? Dipenderà da tante cose, in primo luogo dal contributo di tutti noi. Di sicuro ci vorrà quel senso di responsabilità che è mancato nella folle corsa alle mille listarelle. Ma, per fortuna, dopo il 25 settembre verrà il 26…

Ci sarebbero ovviamente molte altre cose da dire. Ma per ora fermiamoci qui. In fondo questo articolo traccia solo delle previsioni. Vedremo a breve quanto queste siano fondate.

(13 settembre 2022)